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La via principale - volume primo
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E-book326 pagine4 ore

La via principale - volume primo

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Info su questo ebook

Non troverete Gopher Prairie nelle carte geografiche. Né la sua Main Street. Neppure se provate a cercarla con il satellite con Google earth. Ma è come se ci fosse. Perché la sua Main street, la sua Via Principale "è la continuazione di qualunque Via Principale di qualunque città (…). La Via Principale è l’apice della civiltà. Perché questa Ford potesse sostare davanti al magazzino Bon Ton, Annibale invase Roma ed Erasmo scrisse nei chiostri di Oxford."
Quando apparve nelle librerie americane, La via principale suscitò grande scalpore; nessun romanzo prima di allora aveva osato mettere in discussione la bellezza della vita middle class provinciale americana, criticando l'ipocrisia che sta alle fondamenta della Cittadina.
Gopher Prairie - cittadina immaginaria - si sente un po' Vienna un po' Parigi, si sente l'ombelico del mondo e l'erede naturale dell'Inghilterra Vittoriana, seppure è uno sputo di villaggio attraversato da una comunissima Via Principale. Architettura terrificante in un paesaggio desolato, un po' come quei piatti agglomerati che scorgi dal finestrino del treno mentre passi per la nebbiosa pianura padana.
E proprio in queste piccole comunità rurali del midwest americano, dove gli immigrati erano scandinavi e tedeschi, Lewis snida l'insorgere di un temibile virus, il Virus del Villaggio, provincialismo mentale prima che geografico.
In questo villaggio prova a combattere la sua personale battaglia la giovane Carol, cittadina dal brillante futuro che si trova a sposare un onesto dottore di campagna.
Carol non si arrende al virus, non si accontenta di qualche gossip, o di entrare nel club delle pettegole giocatrici di bridge, non si accontenta del solito refrain da provinciali incalliti conservatori; vuole dibattere, vuole cambiare, vuole costruire.
E intorno a Carol sfilano perfide bacchettone come la vedova Bogart o zia Bessie, la 'rivoluzionaria superficiale' Juanita Haydock - effervescente, irriverente; ma alla fine crudele come le altre se non di più - e la 'rivoluzionaria parziale' Vida Sherwin, maestra del villaggio con istinti riformatori ma che non osa mai più di tanto.
Carol è decisamente sola contro Gopher Prairie, e scoprirà che nella vita ciò che conta non è vincere, ma continuare a combattere.
Romanzo che fa pensare, una lettura che sa appassionare.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2019
ISBN9788833260808
La via principale - volume primo
Autore

Sinclair Lewis

Sinclair Lewis (1885-1951) was an American author and playwright. As a child, Lewis struggled to fit in with both his peers and family. He was much more sensitive and introspective than his brothers, so he had a difficult time connecting to his father. Lewis’ troubling childhood was one of the reasons he was drawn to religion, though he would struggle with it throughout most of his young adult life, until he became an atheist. Known for his critical views of American capitalism and materialism, Lewis was often praised for his authenticity as a writer. With over twenty novels, four plays, and around seventy short stories, Lewis was a very prolific author. In 1930, Sinclair Lewis became the first American to receive the Nobel Prize for literature, setting an inspiring precedent for future American writers.

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    Anteprima del libro

    La via principale - volume primo - Sinclair Lewis

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    Sinclair Lewis

    LA VIA PRINCIPALE

    Volume primo

    Maree

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Ed. orig.: Main street, 1920.

    Traduz. di Bruno Volli

    Prima edizione digitale: 2019

    ISBN 9788833260808

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    Table Of Contents

    CAPITOLO PRIMO

    CAPITOLO SECONDO

    CAPITOLO TERZO

    CAPITOLO QUARTO

    CAPITOLO QUINTO

    CAPITOLO SESTO

    CAPITOLO SETTIMO

    CAPITOLO OTTAVO

    CAPITOLO NONO

    CAPITOLO DECIMO

    CAPITOLO UNDICESIMO

    CAPITOLO DODICESIMO

    CAPITOLO TREDICESIMO

    CAPITOLO QUATTORDICESIMO

    CAPITOLO QUINDICESIMO

    CAPITOLO SEDICESIMO

    CAPITOLO DICIASETTESIMO

    CAPITOLO PRIMO

    Su una collina presso il Mississippi, dove appena due generazioni prima si accampavano i Chippewa, la figurina d’una ragazza si stagliava contro l’azzurro fiordaliso del cielo settentrionale. Ella non vedeva indiani, adesso: vedeva i mulini e le ammiccanti finestre del grattacieli di Minneapolis e di St. Paul. Non pensava nemmeno alle squaw, ai trasporti di merci da un fiume all’altro, ai mercanti di pelli yankees le cui ombre erano intorno a lei: stava pensando, a dire la verità, a una tavoletta di cioccolata alla mandorla; al teatro di Brieux; alla ragione per cui i tacchi si consumano da una parte, e all’insegnante di chimica che aveva spalancato tanto d’occhi per la nuova pettinatura che le nascondeva le orecchie.

    Un soffio di brezza, venendo da distese interminabili di campi di grano, gonfiò la sua gonna di taffetà in una linea così graziosa, così piena di viva e commovente bellezza che il cuore d’un passante occasionale nella strada più in basso si strinse di rimpianto e di malinconia alla vista dì quella precaria ebbrezza di libertà.

    Ella alzò le braccia piegandosi indietro quasi per accogliere il vento, la sua gonna si riabbassò luccicando, guizzò una ciocca di capelli sciolti... Una ragazza in cima a una collina: credula, elastica, giovane; bramosa d’aria aperta e di vita; l’eterno, straziante spettacolo della giovinezza in attesa.

    È Carol Milford, sfuggita per un’ora da Blodgett College.

    I tempi del pionieri, delle fanciulle dal grandi cappelli per il sole e degli orsi uccisi a colpi di scure nelle chiarite fra i pini sono più morti, adesso, di Camelot; e una ragazza ribelle è io spirito di quell’impero confuso che si chiama Middlewest americano.

    Blodgett College sorge alla periferia di Minneapolis ed è un baluardo di salda religione. Combatte ancora le recenti eresie di Voltaire, di Darwin e di Robert Ingersoll. Pie famiglie del Minnesota, dello Iowa, del Wisconsin, dei due Dakota vi mandano i loro figlioli, e Blodgett li protegge dai pericoli delle università. Eppure le sue mura accolgono fanciulle affettuose, giovani che cantano e una professoressa almeno che ama davvero Milton e Carlvle: perciò i quattro anni che Carni trascorse a Blodgett non andarono del tutto perduti. L’intimità della piccola scuola e lo scarso numero delle rivali le permisero di sfruttare la sua pericolosa versatilità. Ella giocò a tennis, offrì cenette Improvvisate, frequentò un corso di recitazione, fece passeggiate a « quattrocchi » e partecipò attivamente a una mezza dozzina di associazioni che si dedicavano alla pratica delle arti o al progresso intensivo della cosi detta « cultura generale ».

    Nella sua classe vi erano due o tre ragazze più belle, ma nessuna più fervida di lei. Benché fra i trecento studenti di Blodgett una ventina recitassero con maggior precisione e un’altra ventina ballassero il boston con maggiore scioltezza, ella si distingueva ugualmente in classe e nella sala da ballo. Ogni cellula del suo corpo era viva: i polsi sottili, la carnagione di fior di pesco, gli occhi ardenti, i capelli neri.

    Le altre ragazze del dormitorio stupivano della sua esilità quando la vedevano in vestaglia o quando emergeva come un razzo dalla doccia, ancor mezzo bagnata. Sembrava, così, la metà di quando era vestita: una bimba fragile che conveniva avvolgere di comprensiva tenerezza. « Tutt’anima », bisbigliavano fra loro, e: « tutta spirito ». Eppure i suoi nervi erano così radioattivi, così avventurosa la sua fede in una bontà e in una luce vagamente intravedute, che ella era più energica delle massicce ragazzone dai polpacci sporgenti nelle pesanti calze di lana a grosse coste sotto i decorosi calzoncini di serge azzurra, che galoppavano pesantemente sul pavimento della palestra allenandosi per la squadra femminile di palla a cesto di Blodgett College.

    Anche quando era stanca, i suoi occhi scuri non cessavano d’osservare. Ella non conosceva ancora l’immensa capacità del mondo d’essere crudelmente indifferente e orgogliosamente stupido; ma nessuna di quelle scoraggianti rivelazioni avrebbe reso quegli occhi annoiati o spenti o lagrimosamente sentimentali.

    Nonostante tutti i suoi entusiasmi, nonostante la simpatia e le cotte che ispirava, coloro che la conoscevano stavano sempre un po’ in soggezione con lei. Anche quando, con pari ardore, cantava inni o meditava biricchinate, sembrava delicatamente appartata, ipercritica. Era soltanto credula, forse, un’adoratrice d’eroi per eccellenza; eppure interrogava ed esaminava senza posa. Qualunque cosa fosse destinata a diventare, non sarebbe stata mai apatica; ma la sua stessa versatilità la danneggiava. Sperò a turno di scoprirsi una voce eccezionale, talento per il piano, attitudine a recitare, a scrivere, a organizzare. Tutte le volte era delusa, e da ogni delusione usciva frizzante di nuovi progetti a proposito dell’Associazione Studenti Aspiranti Missionari o degli scenari da dipingere per la Filodrammatica o gli annunci pubblicitari da raccogliere per il giornaletto della scuola.

    Si sentì alle stelle la domenica in cui suonò nella cappella. Nella penombra il suo violino riprendeva il tema dell’organo, la vacillante luce dei ceri aureolava d’oro il suo lungo vestito, il braccio alto sull’archetto, le labbra gravi. Tutti i giovani, quella sera, si innamorarono della religione e di Carol.

    L’ultimo anno, ella rivagliò tutte le sue esperienze e i suoi successi alla luce d’una carriera da scegliere. Sugli scalini della biblioteca o nell’aula magna le studentesse parlavano tutti i giorni di « che cosa faremo uscendo di qua? ». Perfino le ragazze sicure di sposarsi fingevano di prendere in considerazione importanti sistemazioni negli affari; perfino quelle che sapevano per certo di dover lavorare facevano allusione a favolosi pretendenti. Quanto a Carol, era orfana; la sua parente più prossima era una insignificante sorella sposata a un ottico a St. Paul; aveva consumato gran parte del denaro lasciatole da suo padre; non era innamorata, cioè non spesso e non per molto tempo. Sì sarebbe guadagnata la vita.

    Ma come se la sarebbe guadagnata, come avrebbe conquistato il mondo (largamente, si capisce, a maggior vantaggio del mondo) non lo sapeva bene nemmeno lei. Quasi tutte le ragazze che non erano fidanzate pensavano d’insegnare. Erano codeste, per lo più, dì due tipi: le giovani donne sventate che si dichiaravano pronte ad abbandonare « quelle maledette scuole e quegli scocciatori di ragazzini » alla prima occasione d’acciuffare un marito; e le fanciulle studiose dalla fronte bernoccoluta e gli occhi sporgenti, che durante la preghiera in classe chiedevano a Dio « di guidare i loro passi - per un utile sentiero ». Carol non si lasciava tentare né dalle une né dalle altre. Le prime le sembravano insincere (parola a lei molto cara in quel periodo); quanto alle vergini sagge pensava che forse, chissà, avrebbero fatto altrettanto male che bene con la loro cieca fede nell’importanza di commentare Cesare.

    A varie riprese, durante quell’ultimo anno, decise di studiare legge, scrivere copioni per il cinema, prendere un diploma d’infermiera e sposare un eroe non bene identificato.

    Poi fece il tifo per la sociologia.

    Il professore di sociologia era arrivato da poco. Sposato, e quindi tabù, veniva tuttavia da Boston e dall’Università popolare di Nuova York, cioè da un ambiente di poeti e di socialisti, di ebrei e di milionari, e aveva un bellissimo collo forte e bianco. Condusse una scolaresca ridacchiarne su e giù per le prigioni e gli istituti di carità e le agenzie di collocamento di Minneapolis e di St. Paul; ma, trascinandosi in coda alla fila, Carol s’indignava dell’indiscreta curiosità con cui gli altri guardavano i poveri come se fossero bestie rare. Si sentiva una grande liberatrice, lei; si metteva una mano davanti alla bocca, premendosi le labbra col pollice e l’indice, aggrottava le sopracciglia e si compiaceva del suo orgoglioso distacco.

    Un compagno di classe per nome Stewart Snyder, un pezzo di giovanottone saputo in camicia di flanella grigia, cravatta a fiocco d’un nero sbiadito e berretto della scuola verde e rosso, le borbottò mentre camminavano dietro agli altri nel fango dei recinti di bestiame di St. Paul:

    — Questi stupidi dei compagni mi danno ai nervi con tutte quelle arie. Avrebbero dovuto lavorare in campagna come ho fatto io. I lavoratori li metterebbero tutti nel sacco.

    — Mi piacciono i lavoratori comuni, - disse Carol raggiante.

    — Non bisogna dimenticare però che i lavoratori comuni non credono affatto di essere comuni!

    — Hai ragione! Scusa tanto!

    Ella alzò le sopracciglia, sopraffatta dallo stupore e dalla contrizione. I suoi occhi accoglievano maternamente il mondo intero. Stewart Snyder la sbirciò. Si piantò in tasca i grossi polsi rossi, li cavò fuori di scatto, se ne liberò risolutamente intrecciando le mani dietro la schiena e balbettò:

    Lo so. Tu la gente la capisci. Tutti questi altri imbecilli... Senti un po’, Carol, tu potresti fare moltissimo per la gente.

    — Come?

    — Oh, be’... sai... con la comprensione eccetera eccetera... Se tu fossi... se tu fossi moglie d’un avvocato, per esempio, capiresti i suoi clienti. Io farò l’avvocato. Riconosco che qualche volta manco di spirito di comprensione, perdo le staffe con la gente che non sa sopportare i guai. Tu saresti un tesoro per uno che vuole fare le cose sul serio. Lo renderesti più... più... comprensivo!

    Le sue labbra un po’ sporgenti, i suoi occhi canini, tutto in lui la supplicava di supplicarlo di continuare: ma lei si ritrasse vivamente da quel sentimentalismo massiccio come un compressore stradale, esclamando: - Oh, guarda, guarda quelle povere pecorelle! Saranno milioni e milioni! - e scappò via.

    Stewart non era interessante: non aveva un bel collo bianco, non aveva frequentato celebri riformatori. Lei, in quel momento, non aspirava altro che a vivere in una! cella in un casone d’affitto come una suora senza rimpaccio dell’abito, e ad essere buona e gentile, a leggere Bernard Shaw e migliorare enormemente orde di poveri diavoli riconoscenti.

    Le sue letture supplementari di sociologia le misero fra le mani un libro sulle migliorie da apportare ai piccoli paesi: rimboschimento, feste locali, circoli di ragazze. Vi erano fotografie di giardini pubblici e di giardini cintati in Francia, nella Nuova Inghilterra, in Pennsylvania. Essa lo aveva preso su' con indifferenza tamburellandosi le labbra con la punta delle dita per soffocare un piccolo sbadiglio con un gesto delicato di gattina.

    S’immerse nella lettura, raggomitolata sul sofà nel vano della finestra, incrociate le gambe snelle nelle calze di filo di Lille, le ginocchia sotto il mento, carezzando, mentre leggeva, un cuscino di satin. Intorno a lei era l’esuberanza di stoffe d’una camera di Blodgett College: creton un po’ da per tutto, fotografie di ragazze, una riproduzione a carboncino del Colosseo, uno scaldavivande, una mezza dozzina di cuscini ricamati in seta o perline, o pirografati. Scandalosamente fuori posto, una piccola riproduzione della Baccante danzante, l’unica traccia di Carol nella stanza ereditata da generazioni di studentesse.

    Ella considerava il trattato sul miglioramento dei villaggi come parte di tutta quella banalità; ma a un tratto smise di agitarsi e si sprofondò nella lettura. Aveva divorato metà del libro quando la campana delle tre la chiamò alla lezione di storia.

    Sospirò. « Ecco quello che ci vuole per me! Prendere fra le mani una di quelle cittadine della prateria e renderla bellissima! Essere un’ispiratrice. Forse allora farei bene a fare l’insegnante, ma... non quel tipo d’insegnante. Non voglio perder tempo. Perché ci devono essere le città giardino solo a Long Island? Nessuno ha fatto mai nulla per i brutti paesotti del Nordwest, tranne che riunioni religiose e fondazione di biblioteche per I libri di Elsie. Io vi farò mettere un giardino comunale, delle incantevoli villette e una originalissima Via Principale! ».

    Così esultò per tutta la lezione, che fu una tipica lotta alla Blodgett fra un professore inacidito e una renitente schiera di ragazzini di vent’anni, vinta dal professore perché gli oppositori dovevano rispondere alle sue interrogazioni mentre lui poteva controbattere le loro tendenziose domande con un:

    — Siete andati a cercarvelo in biblioteca? No? Ebbene, allora, potreste anche farlo!

    — Quel giorno l’insegnante di storia, un ecclesiastico in ritiro, era particolarmente ironico. Si rivolse con melliflua cortesia allo sportivo Charles Homberg:

    — Ed ora, Charles, ti disturberei molto pregandoti di abbandonare l’inseguimento, senza dubbio affascinante, di quella maligna mosca per dirci che non sai nulla su re Giovanni?

    E assaporò per tre deliziosi minuti il fatto che nessuno ricordava esattamente la data della Magna Charta.

    Carol non lo udiva nemmeno. Stava completando il tetto d’un municipio in legno e mattoni. Nei villaggio della prateria aveva trovato un individuo che non approvava il suo progetto di arcate e di stradine serpeggianti, ma lei, riunito il consiglio municipale al completo, lo aveva trionfalmente sconfitto.

    Benché nativa del Minnesota, Carol non conosceva i paesotti della prateria. Suo padre, sorridente e trasandato, dotto e affettuosamente scherzoso, veniva dal Massachusetts ed era giudice di Mankato, che non è una città della prateria, ma con le sue vie bordate di giardini e le sue navate di elci è bianca e verde come la Nuova Inghilterra resuscitata. Sorge a pié dei promontori sulla riva del Minnesota, non lungi da Traverse des Sioux dove i primi coloni stesero i contratti con gli indiani e i ladri di bestiame passavano al galoppo inseguiti dalle forze pubbliche che cavalcavano a briglia sciolta.

    Arrampicandosi per gli argini dei cupo fiume, Carol ne ascoltava le fiabe dell’immenso West, reame di gialle acque e di ossa dì bufalo calcinate, e delle banchine del mezzogiorno, coi negri cantanti e le palme verso cui scorreva misteriosamente, in eterno; udiva di nuovo le campane d’allarme e gli sbuffi e i sibili dei vapori stracarichi naufragati sulle secche del fiume sessantanni prima. Vedeva sui ponti i missionari, i giocatori con gii alti cappelli duri e i capi Dakota avvolti in coperte scarlatte... Sibili lontani, di notte, intorno alla curva del fiume, tonfi di pagaie riecheggiate fra i pini e riflessi dorati sulle nere acque fluenti...

    La famiglia di Carol bastava a se stessa: viveva una vita fantastica tutta sua, con feste di Natale che erano un rito pieno di sorprese e di tenerezza, mascherate spontanee e gioiosamente assurde. In casa Milford gli animali mitologici del focolare domestico non erano le lubriche bestie notturne che sbucano dai ripostigli per divorare le fanciullette, ma benefiche creaturine dagli occhi lucenti: il tara htab che è lanoso e azzurro e abita nelle camere da bagno e corre in fretta in fretta a scaldare i piedini intirizziti; la vecchia stufa a petrolio rugginosa che ronza e racconta tante storie; lo skitmarigg che giocherà con le bambine prima di colazione se salteranno dal letto e chiuderanno la finestra al primo verso della canzone sulle puellas che papà canticchia mentre si rade.

    Il metodo pedagogico del giudice Milford era di lasciar che i fanciulli leggessero tutto quello che volevano, sicché nella sua biblioteca marrone Carol aveva divorato Balzac e Rabelais, Thoreau e Max Muller. Suo padre le aveva gravemente insegnato l’alfabeto sul dorso dei volumi dell’Enciclopedia, e i cortesi visitatori che s’informavano dei progressi intellettuali della cara piccina strabiliavano nell’udirla recitare con fervore: — A-And, And-Aus, Aus-Bis, Bis-Cal, Cal-Cha.

    Carol aveva nove anni quando sua madre morì. Il babbo si ritirò dalla professione quando lei ne aveva undici, e condusse la famiglia a Minneapolis dove morì, due anni dopo. Sua sorella, una brava creatura sempre affaccendata a dare consigli, maggiore di lei, le era diventata estranea fin da quando abitavano nella stessa casa.

    Da quei giorni infantili marrone e. argento e dall’indipendenza da qualunque genere di parenti Carol aveva tratto una ferma volontà di essere diversa dalla gente attiva ed efficiente che non legge libri e ristinto d’osservare stupita il loro darsi da fare anche quando ne prendeva parte ella stessa. Ma ora, si diceva soddisfatta avendo scoperto la propria vocazione d’ideare città, ora sarebbe stata affaccendata ed efficiente anche lei.

    Un mese dopo, l’ambizione di Carol era notevolmente offuscata. Le riassaliva l’antica incertezza a proposito della carriera dell’insegnante. Riteneva di non essere abbastanza forte per sopportare quel trantran, non riusciva a vedersi ipocritamente autorevole e decisa in un cerchio di ragazzini sghignazzanti. Il desiderio di creare una bella città, tuttavia, persisteva. Quando s’imbatteva in un articolo sui circoli femminili nelle cittadine di provincia o nella fotografia d’una Via Principale appena abbozzata si sentiva piena di nostalgia, le sembrava di esser defraudata del proprio lavoro.

    Fu per consiglio del professore d’inglese che s’indirizzò  verso la carriera delle biblioteche in un istituto specializzato di Chicago. La sua fervida immaginazione disegnò e colorì il progetto. Si vide occupata a persuadere schiere di fanciulli a leggere belle fiabe, ad aiutare giovani volenterosi a trovare libri di meccanica, a favorire, oh, tanto gentilmente!, vecchi signori a caccia di giornali: la stella della biblioteca, un’autorità in fatto di libri, ospite a pranzi in onore di poeti e di esploratori, conferenziera acclamata in un circolo di distinti studiosi.

    L’ultimo ricevimento del college prima della fine dell’anno. Cinque giorni ancora e li avrebbe inghiottiti il ciclone degli esami.

    La casa del preside era invasa di palme che facevano pensare a sale d’aspetto di eleganti imprenditori di pompe funebri, e nella biblioteca, una stanza di tre metri quadrati con un mappamondo e il ritratto di Whittier e di Martha Washington, l’orchestra degli studenti suonava la Carmen e Madame Butterfly.

    Carol era stordita dalla musica e dall’emozione delle prossime separazioni. Le palme le sembravano una giungla; agli occhi suoi, le lampadine elettriche sfumavano in una bruma opalina e i professori occhialuti sedevano come una schiera di dèi dell’Olimpo. Si sentiva rattristata dal pensiero delle ragazze timide con le quali « aveva sempre voluto fare amicizia », e della mezza dozzina di giovanotti pronti a innamorarsi di lei.

    Aveva incoraggiato solamente Stewart Snyder che era tanto più virile degli altri, perfino d’un bel bruno caldo, della stessa tinta del vestito di serie con le spalle imbottite che indossava quel giorno. Stava seduta con lui, e con due tazze di caffè e un pasticcino di pollo, su una pila di soprascarpe presidenziali nello sgabuzzino sotto le scale; e nel soffocato ronzio della musica, Stewart le bisbigliava:

    — Non ci posso pensare, separarci dopo quattro anni! Gli anni più felici della vita!

    Essa lo credeva, in quel momento.

    — Oh, lo so! Pensare che fra pochi giorni ci divideremo, e chissà quanti della brigata non li rivedremo più!

    — Carol, stammi a sentire! Tu te la scapoli sempre quando cerco di parlarti sul serio, ma questa volta devi starmi a sentire. Io sarò un grande avvocato, forse anche un giudice, e ho bisogno di te e ti proteggerei...

    Le circondò le spalle col braccio. La musica insinuante paralizzava le sue aspirazioni all’indipendenza. Disse, mestamente:

    — Davvero ti prenderesti cura di me?

    E gli toccò la mano: calda, solida.

    — Perdiana! Faremo... oh Signore, ce la passeremo così bene a Yankton dove mi sistemerò...

    — Ma io voglio fare qualche cosa della mia vita.

    — Che c’è di meglio che farsi una bella casetta e tirar su' dei bei bambini e avere un bel cerchio di amici simpatici?

    Era, da tempo immemorabile, la risposta del maschio alla donna inquieta. Così parlavano alla giovane Saffo i venditori di meloni; cosi i capitani a Zenobia; cosi, nell’umida caverna, sulle ossa rosicchiate, il villoso progenitore protestava contro la donna sostenitrice del matriarcato. Nel gergo di Blodgett, ma con la voce di Saffo, suonò la risposta di Carol:

    — Certo. Lo so. Forse è vero. Francamente, i bambini mi piacciono. Però, vedi, ci sono tante donne per i lavori di casa, ma io... insomma, quando si ha un’educazione universitaria è un dovere servirsene per fare qualche cosa a favore degli altri!

    — Lo so, ma potresti servirtene anche a casa tua. E poi pensa un po’, Carol, andare in macchina con una brigatella d’amici, a fare una merenda in campagna, una bella sera di primavera!

    — Già.

    — E le corse in slitta, d’inverno, e pescare...

    Brrrrr! l’orchestra esplose in un inno militare e lei protestò:

    — No! No! No! Sei tanto caro, ma io voglio fare qualche cosa! Non mi capisco ancora bene, ma voglio... tutto quello che c’è al mondo! Forse non potrò cantare o scrivere, ma sento di poter essere qualcuno nel campo delle biblioteche. Pensa un po’ se mi capitasse d’incoraggiare un ragazzo che poi diventasse un grande artista! Lo voglio fare! Lo farò! Oh, Stewart, caro, non posso rassegnarmi a lavare i piatti e niente altro!

    Due minuti dopo - due minuti vertiginosi - furono disturbati da un’altra coppia imbarazzata che aspirava alTidillica intimità dello sgabuzzino delle soprascarpe.

    Dopo il diploma Carol non vide più Stewart Snyder. Gli scrìsse una volta alla settimana... per un mese.

    Carol trascorse un anno a Chicago. Lo studio della compilazione dei cataloghi, degli schedari e della collocazione dei libri le riuscì facile e non troppo papaverico. Frequentò con entusiasmo l’Istituto d’Arte, i concerti sinfonici, di violino e di musica da camera, il teatro e le rappresentazioni di danze classiche. Stette lì lì per rinunciare alla biblioteca per diventare una di quelle giovani donne che danzano avvolte in veli al lume di luna. Fu condotta a una vera e propria riunione artistico-politica in uno studio, con birra, sigarette, capelli. corti e un’ebrea russa che cantò l’Inno dei Lavoratori. Non sappiamo se Carol avesse qualche cosa di significativo da dire a quei bohémiens, Ella fu timida con loro, si sentì ignorante e scandalizzata da quella libertà di maniere che aveva sognato per anni; udì, tuttavia (e ricordò) discussioni su Freud e Romain Rolland, il sindacalismo, la Confederazione Generale del Lavoro, l’harem e il femminismo, le liriche cinesi, la nazionalizzazione delle miniere, la Christian Science e la pesca nell’Ontario.

    Tornò a casa, e quello fu il principio e la fine della sua vie de bohème.

    Una seconda cugina del marito di sua sorella che abitava a Winnetka, l’invitò una domenica a pranzo. Ella tornò indietro traverso Winnetka e Evanstone, scoprì nuove forme d’architettura suburbana e ricordò l’antico sogno di costruire villaggi. Decise di abbandonare le biblioteche e, per un miracolo non chiaramente precisato, trasformare un paesotto della prateria in un gruppo di case georgiane e di bungalows giapponesi.

    Il giorno seguente, in classe, dovette leggere un tema sull’uso dell’indice comulativo e fu trascinata così a fondo nella discussione che rimandò per il momento la carriera della creazione delle città: e nell’autunno fu assunta nella Biblioteca Municipale di St. Paul.

    Nella Biblioteca di St. Paul Carol non fu né infelice né entusiasticamente felice. Dovette confessarsi, a poco a poco, che, a quanto pareva, non influenzava la vita altrui. Mise dapprima, nei suoi contatti con frequentatori, una buona volontà che avrebbe mosso le montagne: ma tanto poche di quelle stolide montagne volevano lasciarsi muovere. Quando età di servizio nella stanza delle riviste, i lettori non chiedevano suggerimenti su saggi elevati, ma borbottavano: — Be’, dove sta la Gazzetta Cuoi e Pellami di febbraio? — Quando passò a distribuire i libri, la domanda che si sentì rivolgere più spesso era: — Mi può indicare una bella storia d’amore leggera, emozionante e facile da leggere? Mio marito starà via una settimana.

    Voleva bene alle altre bibliotecarie e s’inorgogliva delle loro aspirazioni; e per il semplice fatto d’averi fra le mani lesse mucchi di libri che non avevano niente a che fare con la sua fresca e gaia gioventù: volumi d’antropologia con pagine intere di note in caratteri minuscoli, poeti parnassiani, ricette indù per il curry, viaggi alle isole Salomone, teosofia aggiornata all’americana, trattati per conquistarsi il successo negli affari di compra e vendita dei beni stabili. Fece passeggiate e fu ragionevole in fatto di scarpe e di nutrizione. E mal, nemmeno una volta, si senti conscia di vivere.

    Andò a balli e cene a case di amiche e compagne di scuola. Qualche volta ballava compostamente l’one-step; tal altra, nel terrore di sentir fuggire la vita, si trasformava in una specie di baccante e scivolava per la sala coi dolci occhi lucenti, la gola tesa.

    Durante i suoi tre anni di biblioteca, parecchi uomini mostrarono un assiduo interesse per lei: il contabile di una ditta di pelliccerie, un professore, un giornalista e un piccolo funzionario delle ferrovie. Nessuno riuscì a ispirarle

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