Le dimore filosofali - secondo volume
Di Fulcanelli
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Info su questo ebook
Fulcanelli è stato probabilmente il più grande alchimista moderno e, al di là della sua misteriosa identità, uno dei più grandi maestri alchimici di sempre. Ne è una prova questo testo che racchiude un importante insegnamento: spiegare, attraverso il commento dei simboli esoterici presenti in alcune importanti dimore francesi, le fasi della Grande Opera alchemica. Come dice Canseliet nelle prefazioni al testo: “il suo metodo è diverso da quello usato dai suoi predecessori: esso consiste nel descrivere fin nei minimi particolari tutte le operazioni dell’Opera, ma dopo averle suddivise in parecchi frammenti”. Il magistero esoterico di Fulcanelli è di altissimo livello, le interpretazioni fornite sono utilissime per il discepolo che vuole padroneggiare le fasi alchemiche. E tutto questo avviene commentando sculture, disegni, affreschi, costruzioni e altro ancora, contenuti in alcune dimore “filosofali”: dimore che tramandano la tradizione iniziatica e che Fulcanelli offre ai lettori con una gran quantità di informazioni e insegnamenti che, sicuramente, diventeranno utili strumenti per migliorare il proprio cammino di iniziazione all’Opera. Come ripete Fulcanelli: “I nostri libri non sono scritti per tutti, sebbene tutti siano destinati a leggerli”.
L’autore: Fulcanelli è senz’altro il più famoso alchimista del XX secolo; la sua fama leggendaria lo ritrae come il più grande Iniziato del ‘900, autore di due opere fondamentali che, secondo gli Adepti, i cultori e gli specialisti dell’Ars racchiuderebbero il segreto della Grande Opera. Le opere firmate col nome di “Fulcanelli” sono I Misteri delle Cattedrali del 1926 e Le dimore filosofali del 1931, entrambe curate e introdotte dalle prefazioni del più famoso discepolo di Fulcanelli, Eugène Canseliet che non rivelò mai la vera identità del maestro. Una terza opera, pare di Fulcanelli, è Finis Gloriae Mundi, che presto verrà pubblicata.
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Le dimore filosofali - secondo volume - Fulcanelli
Fulcanelli
Le dimore filosofali
e l’interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera
secondo volume
gli Iniziati
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Titolo originale: Les Demeures Philosophales, 1931
Traduzione dal francese di Alessia Roquette.
In copertina: capitello Basilica san Nicola, Bari
Prima edizione digitale: 2017
ISBN 9788833260112
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Table Of Contents
IL MERAVIGLIOSO «GRIMOIRE» DEL CASTELLO DI DAMPIERRE
LE GUARDIE DEL CORPO DI FRANCESCO II DUCA DI BRETAGNA
IL QUADRANTE SOLARE DEL PALAZZO HOLYROOD DI EDIMBURGO
PARADOSSO DEL PROGRESSO ILLIMITATO DELLE SCIENZE
Il regno dell’uomo
Il diluvio
L’atlantide
L’incendio
L’età dell’oro
Tavole
Tav. XXV
Tav. XXVI
Tav. XXVII
Tav. XXVIII
Tav. XXIX
Tav. XXX
Tav. XXXI
Tav. XXXII
Tav. XXXIII
Tav. XXXIV
Tav. XXXV
Tav. XXXVI
Tav. XXXVII
Tav. XXXVIII
Tav. XXXIX
Tav. XL
Tav. XLI
Tav. XLII
Tav. XLIII
Tav. XLIV
Tav. XLV
IL MERAVIGLIOSO «GRIMOIRE» DEL CASTELLO DI DAMPIERRE
Nella regione della Saintonge, nella quale si trova Coulonges-sur-l’Autize, — capoluogo di cantone dove un tempo si trovava la bella dimora di Louis d’Estissac, — il turista accorto può scoprire un altro castello; la sua conservazione e l’importanza della sua singolare decorazione lo rendono ancora più interessante, è il castello di Dampierre-sur-Boutonne (Charente-Inférieure). Costruito alla fine del XV secolo, sotto François de Clermont{1}, il castello di Dampierre è attualmente proprietà del dottor Texier, de Saint-Jean-d’Angély{2}. Per l’abbondanza e la varietà dei simboli ch’esso propone, come altrettanti enigmi alla sagacia del ricercatore, merita d’essere conosciuto meglio, e siamo ben felici di poterlo segnalare specificatamente all’attenzione dei discepoli di Ermes.
Esteriormente la sua architettura, sebbene elegante e di buon gusto, resta assai semplice e non possiede nulla di notevole; ma alcuni edifici sono come gli uomini: il loro atteggiamento discreto, la modestia della loro apparenza spesso servono soltanto a nascondere ciò che in loro c’è di superiore.
Tra alcune torri rotonde, coperte da tetti conici e provvisti di piombatoi, si sviluppa un corpo di fabbrica in stile Rinascimentale la cui facciata si affaccia, all’esterno, con dieci archi ribassati. Cinque di questi archi formano un colonnato al piano terreno, mentre gli altri cinque, costruiti sopra e corrispondenti ai precedenti, danno aria e luce al piano superiore. Queste aperture illuminano delle gallerie d’accesso alle sale interne, e l’insieme ha, così, l’aspetto d’una larga loggia che fa da corona ad un deambulatorio come in un chiostro. Questa è l’umile copertina del magnifico album i cui fogli di pietra adornano le volte della galleria alta (tav. XXV).
Ma, se oggi è noto il costruttore degli edifici nuovi destinati a sostituire il vecchio borgo feudale di Château-Gaillard{3}, ignoriamo ancora a quale misterioso sconosciuto i filosofi ermetici sono debitori degli elementi simbolici che questi edifici conservano.
È più o meno sicuro, e su questo condividiamo l’opinione di Léon Palustre, che il soffitto a cassettoni della galleria alta, su cui riposa tutto l’interesse di Dampierre, fu eseguito dal 1545 o dal 1546 al 1550. È meno sicura, invece, l’attribuzione che è stata fatta di quest’opera ad alcuni personaggi, senza dubbio famosi, ma che sono completamente estranei ad essa. Infatti, alcuni autori hanno sostenuto che i motivi emblematici derivassero da Claude de Clermont, barone di Dampierre, governatore di Ardres, colonnello dei Grigioni e gentiluomo di camera del re. Ora, nella sua Vie des Dames illustres, Brantôme ci dice che, durante la guerra del re d’Inghilterra col re di Francia, Claude de Clermont cadde in un’imboscata tesa dal nemico, ed in essa mori nel 1545. Quindi non poteva essere il committente, neanche in minima parte, dei lavori eseguiti dopo la sua morte. Sua moglie, Jeanne de Vivonne, figlia di André de Vivonne, signore di Châteugneraye, d’Esnandes, d’Ardeley, consigliere e ciambellano del re, siniscalco dei Poitou, ecc., e di Louise de Daillon du Lude, era nata nel 1520. Ella restò vedova all’età di venticinque anni. Il suo spirito, la sua distinzione, la sua eccelsa virtù le procurarono una fama tale che, a somiglianza di quanto fece Brantôme, che lodava la vastità della sua erudizione. Léon Palustre{4} le fa l’onore di essere stata l’istigatrice dei bassorilievi di Dampierre: «Qui, egli dice, Jeanne de Vivonne si è divertita a far eseguire, da alcuni scultori di ordinaria levatura, tutta una serie di composizioni dal significato più o meno chiaro». Infine, non vale nemmeno la pena di prendere in considerazione una terza attribuzione. L’abate Noguès{5}, proponendo il nome di Claude-Catherine de Clermont, figlia di Claude e di Jeanne de Vivonne, emette un’opinione assolutamente inaccettabile, come dichiara il Palustre:
«Questa futura castellana di Dampierre, nata nel 1543, era una bambina al momento in cui venivano terminati quei lavori».
Quindi, per non commettere un anacronismo, si è obbligati ad accordare alla sola Jeanne de Vivonne la paternità della decorazione simbolica della galleria alta. Eppure, per quanto questa ipotesi possa sembrare verosimile, ci è impossibile essere d’accordo. Ci rifiutiamo energicamente di riconoscere una donna di venticinque anni come beneficiaria d’una scienza che esige più del doppio di tempo di sforzi continui e di studi perseveranti. Anche supponendo ch’ella abbia potuto nella sua prima giovinezza, e contrariamente ad ogni regola filosofica, ricevere l’iniziazione orale da qualche sconosciuto artista, nondimeno resta pur sempre il fatto che avrebbe dovuto controllare, con un lavoro tenace e personale, la verità di questo insegnamento. Ora, niente è più faticoso, più sgradevole che proseguire, per lunghi anni, una serie d’esperimenti, di prove, di tentativi che hanno bisogno di un’assiduità costante, dell’abbandono di ogni altra occupazione, di ogni altra relazione, di ogni preoccupazione esteriore. La volontaria reclusione e la rinuncia al mondo sono indispensabili da osservare se si vogliono ottenere insieme con le conoscenze pratiche, le nozioni di questa scienza simbolica, ancora più segreta, che le ricopre e le nasconde ai profani. Jeanne de Vivonne si sottomise alle esigenze d’una padrona ammirevole, prodiga d’infiniti tesori, ma intransigente e dispotica, che desidera essere amata esclusivamente per se stessa e che impone ai suoi fedeli un’obbedienza cieca, una fedeltà a tutta prova? Noi non troviamo nella sua esistenza nulla che possa giustificare una simile preoccupazione. Anzi, la sua vita è unicamente mondana. Ammessa alla corte, scrive il Brantôme, «all’età di otto anni, ella vi era stata allevata, e di quel periodo non aveva dimenticato nulla; era piacevole ascoltare mentre narrava, tanto che ho visto i nostri re e le nostre regine prendere un singolare piacere ad udire i suoi racconti, perché ella sapeva tutto e della sua epoca e dei fatti quotidiani; tanto che la corte pendeva dalle sue labbra come da un oracolo. Così, il re Enrico III, l’ultimo di questo nome, la nominò dama d’onore della regina, sua sposa».
Vivendo alla corte, ella vede succedersi sul trono cinque monarchi di seguito: Francesco I, Enrico II, Francesco II, Carlo IX ed Enrico III. La sua virtù è riconosciuta e famosa al punto da essere rispettata dall’irriverente Tallemant des Réaux; quanto al suo sapere, è esclusivamente storico. Il suo bagaglio è unicamente costituito da fatti, aneddoti, cronache, biografie. In definitiva, si trattava d’una donna dotata d’eccellente memoria, che aveva ascoltato parecchio, e che ricordava molte cose; tanto che Brantôme suo nipote e storiografo parlando di Madame de Dampierre dice ch’ella «era un vero registro della corte». Quest’immagine è rivelatrice; Jeanne de Vivonne fu un registro, piacevole, istruttivo da consultare, non lo mettiamo in dubbio, ma non fu nient’altro. Entrata così giovane nell’intimità dei sovrani di Francia, aveva poi risieduto, più o meno a lungo, in seguito, al castello di Dampierre? Questa era la domanda che ci stavamo ponendo mentre sfogliavamo la bella raccolta di Jules Robuchon{6}, quando una annotazione di Georges Musset, ex-allievo della scuoia di Chartres e membro della Società degli Antiquari dell’Ovest. capitò a proposito, risolvendo il problema e confermando la nostra convinzione». Ma, scrive G. Musset, ecco che dei documenti inediti complicano la faccenda e sembrano creare delle incompatibilità. È una ricognizione di vassallaggio reso da Dampierre al re, a causa del suo castello di Niort, il 9 agosto 1547, all’avvento di Enrico II. I vassalli sono Jacques de Clermont, usufruttuario della terra, e François de Clermont, suo figlio emancipato, per la nuda proprietà. Il debito verso il signore consiste in un arco di tasso ed in un bussone{7} senza cocca. Da quest’atto sembra risultare: 1°) che non è Jeanne de Vivonne a godere la proprietà di Dampierre, né sua figlia Caterina a possederla; 2°) che Claude de Clermont aveva un giovane fratello, François, minorenne emancipato nel 1547. Non c’è possibilità, infatti, di supporre che Claude e François fossero la stessa persona, perché Claude è morto durante la campagna di Boulogne, terminata, come sappiamo, col trattato tra Francesco I ed Enrico VIII, il 7 giugno 1546. Ma allora cosa accadde a François che non è neanche nominato da Anselmo? Cosa successe, a proposito di quella terra, dal 1547 al 1558? In qual modo, da una così bella associazione d’incapaci, dal punto di vista della proprietà, potè sorgere un’abitazione così lussuosa? Questi sono dei misteri che non possiamo chiarire. È già molto, ci pare, riuscire ad intravederne le difficoltà».
Così è confermato il parere sul filosofo al quale dobbiamo tutte le decorazioni del castello, — pitture e sculture, — che egli ci è sconosciuto e tale resterà, forse, per sempre.
***
In una spaziosa sala del primo piano, si nota, in particolare, un camino grande ed molto bello, dorato e ricoperto di pitture. Sfortunatamente, la maggior parte della superficie del rivestimento della cappa ha perso tutti i soggetti che la decoravano, sotto un orribile tinta rossastra. Solo nella parte inferiore restano ancora visibili alcune lettere isolate. Invece i due lati hanno conservato la loro decorazione che è tale da farci vivamente rimpiangere la perdita della composizione più grande, La decorazione è simile su ognuno dei due lati. Si vede apparire, sulla parte alta, un avambraccio la cui mano tiene alta una spada ed una bilancia. All’incirca a metà della spada s’arrotola la parte centrale d’un filatterio ondeggiante, ricoperto dall’iscrizione:
DAT JVSTVS FRENA SUPERBIS {8}
Più in basso, due catene d’oro, collegate alla sommità della bilancia, vengono ad adattarsi, l’una al collare di un molosso, l’altra all’anello di ferro di un drago dalle cui fauci spalancate esce la lingua. Ambedue alzano la testa e guardano verso la mano. I due piatti della bilancia portano dei rotoli di monete d’oro. Uno di questi rotoli è segnato con la lettera L sormontata da una corona; su di un altro, c’è una mano che tiene una piccola bilancia e al di sopra di questa c’è l’immagine di un drago dall’aspetto minaccioso.
Sopra a questi grandi motivi, cioè all’estremità superiore delle facce laterali del camino, sono dipinti due medaglioni. Il primo ci mostra una croce di Malta, che ha in prossimità degli angoli, dei fiori di giglio; il secondo reca l’effigie dima graziosa figurina.
Nel suo insieme, questa composizione si presenta come un paradigma della scienza ermetica. II molosso ed il drago rappresentano due principii materiali, riuniti e trattenuti dall’oro dei saggi, seconda la proporzione richiesta e l’equilibrio naturale, come ci suggerisce l’immagine della bilancia. La mano è quella dell’artigiano; mano ferma per manovrare la spada, — geroglifico del fuoco che penetra, mortifica e cambia le proprietà delle cose — mano prudente nella ripartizione delle materie secondo le regole dei pesi e delle misure filosofiche. Per quel che riguarda i rotoli di monete d’oro, essi indicano la natura del risultato finale ed uno degli obbiettivi dell’Opera. Il segno composto da una L incoronata è sempre stato il segno convenzionale destinato a raffigurare, nella notazione grafica, l’oro di proiezione, cioè l’oro fabbricato alchemicamente.
Altrettanto espressivi sono i piccoli medaglioni uno dei quali rappresenta la Natura, che deve senza sosta fungere da guida e da mentore all’artista, mentre l’altro proclama la qualità di Rosa-Croce acquisita dal sapiente autore di tutti questi vari simboli. Il fiore di giglio araldico corrisponde, infatti, alla rosa ermetica. Unito alla croce, esso serve, proprio come la rosa, d’insegna e di blasone al cavaliere praticante che, per grazia di Dio, ha realizzato la pietra filosofale. Ma, se questo emblema ci fornisce la prova del sapere posseduto dallo sconosciuto Adepto di Dampierre, serve anche a convincerci dell’inutilità, della vanità dei tentativi che potremo fare per ricercare la sua vera personalità. Sappiamo per quale ragione i Rosa-Croce si qualificavano d’invisibili; è probabile, dunque, che, mentre era in vita, il nostro abbia dovuto circondarsi delle indispensabili precauzioni ed abbia preso tutte le misure necessarie adatte a nascondere la propria identità. Egli volle che l’uomo sparisse davanti alla scienza e che la sua opera in pietra non contenesse altra firma che l’alto titolo, ma anonimo, di Adepto e di Rosa-Croce.
Sul soffitto della stessa sala, nella quale troneggia il grande camino che abbiamo segnalato, un tempo c’era una trave ornata da questa strana iscrizione in latino:
Factotum claritas fortis animus secundus famae sine villa fine cursus modicae opes bene partae innocenter amplificatae semper bita numera Dei sunt extra invidiae injurias positae aeternum ornamento et exemplo apud suos futura.
«Delle azioni illustri, un cuore magnanimo, una fama gloriosa e che non finisce nella vergogna, una modesta fortuna rettamente guadagnata, onorevoimente accresciuta e considerata sempre come un dono di Dio, ecco ciò che l’invidia e l’ingiustizia non possono raggiungere, ecco ciò che, per la famiglia, dev’essere eternamente una gloria e un esempio».
Circa questo testo, sparito da molto tempo, il dottor Texier, di buon grado, ci ha voluto comunicare alcune precisazioni: «L’iscrizione di cui mi parlate, egli ci scrive, esisteva su di una trave d’una sala del primo piano, trave che, essendo ormai cadente per la sua decrepitudine, ha dovuto esser cambiata sessanta o ottanta anni fa. L’iscrizione fu rilevata con precisione, ma il frammento di trave sul quale era scritta in caratteri dorati è andato perduto. Mio nonno, al quale il castello apparteneva, si ricorda assai bene d’averla vista{9}. Questa iscrizione è una parafrasi di Salomone nell’Ecclesiaste, dove è detto (cap. III, v. 13) che «ognuno deve mangiare e bere, e godere del frutto del suo lavoro, perché è un dono di Dio», un simile frammento determina in modo positivo, ed è sufficiente a spiegare, quale fosse la misteriosa occupazione alla quale l’enigmatico castellano di Dampierre si dedicava di nascosto. In ogni caso, l’iscrizione rivela che il suo autore possedeva una saggezza fuor dell’ordinario. Nessun lavoro, qualunque esso sia, può procurare un’agiatezza meglio acquisita; l’operaio riceve proprio dalla natura il salario integrale al quale ha diritto, e tale salario gli è versato in ragione della sua abilità, dei suoi sforzi, della sua perseveranza. E poiché la scienza pratica è sempre stata riconosciuta come un vero e proprio dono di Dio da tutti i possessori del Magistero, il fatto che questa professione di fede consideri la ricchezza guadagnata come un presente di Dio basta ad individuarne l’origine alchemica. In queste condizioni, il suo accrescimento regolare ed onorevole non potrebbe sorprendere nessuno.
Meritano d’essere qui riportate, altre due iscrizioni provenienti dalla stessa dimora. La prima, dipinta sulla cappa d’un camino, è composta da una sestina che domina un soggetto composto dalla lettera H, che tiene due D allacciate ed ornate di figure umane viste di profilo, una di vegliardo, l’altra di giovanetto. Questa piccola poesia, scritta scherzosamente, esalta 1’esistenza felice, improntata alla calma ed alla serenità ed alla benevola ospitalità, condotta dal nostro filosofo nella sua casa accogliente:
DOVLCE. EST. LA. VIE. A. LA. BIEN. SVYVRE.
EMMY. SOYET. PRINTANS. SOYET. HYVERS.
SOVBS. BLANCHE. NEIGE. OV. RAMEAVX. VERTS.
QVAND. VRAYS. AMIS. NOVS. LA. FONT. VIVRE. AINS.
LEVR. PLACE. A. TOVS. EST. ICI.
COMME. A VX. VIEVLS. AVX. JEVNES. AVSSI. {10}
La seconda, che decora un camino più grande, rivestito d’ornamenti di color rosso, grigio ed oro, è una semplice massima d’un bel carattere morale, ma che l’umanità della nostra epoca, superficiale e presuntuosa, si rifiuta di praticare:
SE. COGNESTRE. ESTRE. ET. NON. PARESTRE. {11}
Il nostro Adepto ha ragione; la conoscenza di se stesso permette di possedere la scienza, scopo e ragion d’essere della vita, base di ogni valore reale; e questo potere, elevando l’uomo laborioso che può acquistarlo, lo incita a rimanere in una modesta e nobile semplicità, virtù eminente degli spiriti superiori. Un assioma, che i maestri ripetevano ai loro discepoli e mediante il quale indicavano loro l’unico mezzo per giungere al sapere supremo, era questo: «Se volete conoscere la saggezza, dicevano loro, conoscete a fondo voi stessi e la conoscerete».
***
La galleria alta, dal soffitto così stranamente ornato, occupa tutta la lunghezza della costruzione eretta tra le torri. Essa riceve la luce, come abbiamo già detto, attraverso cinque arcate separate le une dalle altre da colonne tozze, provviste, all’interno, di supporti, incastrati nel fusto della colonna stessa, che sorreggono i ricaschi degli archi. Due finestre a crociera retta e ad architrave rettilinea si aprono ciascuna ad una delle estremità di questa galleria. Le nervature trasversali della volta, dal profilo ribassato come quello degli archi, sono tagliate da due nervature longitudinali e parallele, determinando così l’inquadratura dei cassettoni che sono oggetto del nostro studio (tav. XXVI). Questi cassettoni furono descritti da Louis Audiat{12}, molto prima di noi. Ma questo scrittore, ignorando tutto della scienza alla quale essi si riferiscono, e non conoscendo il filo logico che lega insieme tra loro tante immagini bizzarre, ha profuso nel suo libro quel carattere d’incoerenza che le figure stesse mostrano d’avere per il profano. Leggendo l’Epigraphie Santone, sembra che il capriccio, la fantasia e la stravaganza abbiano presieduto alla esecuzione dei nostri motivi decorativi. Quindi, il meno che si possa dire di quest’opera, è che ci sembra poco seria, priva di fondamento, barocca, senza nessun altro interesse che una eccessiva singolarità. Alcuni errori inspiegabili poi aumentano ancora di più l’impressione sfavorevole che se ne riceve. Così, per esempio, questo autore scambia una pietra cubica, tagliata e posata sull’acqua (serie I, cassettone 5), per «una nave sballottata dalle onde »; più in là (serie IV, cassettone 7) una donna curva, che sta piantando dei noccioli ai piedi d’un albero, diventa, nel suo libro, «un viaggiatore che avanza faticosamente attraverso il deserto». Nel primo cassettone della quinta serie, che le nostre lettrici gli perdonino quest’involontario paragone, vede una donna invece del diavolo in persona, villoso, alato, cornuto, perfettamente chiaro e visibile... Delle cantonate simili indicano una disattenzione non scusabile in un epigrafista cosciente della propria responsabilità e dell’esattezza che si richiede alla propria professione.
Secondo il dottor Texier, alla cortesia del quale dobbiamo questa informazione, le figure di Dampierre non sarebbero mai state pubblicate nella loro totalità. Tuttavia, esiste una loro riproduzione disegnata dagli originali e conservata nel museo di Saintes. Per alcuni motivi poco precisi abbiamo fatto ricorso a questo disegno, in modo da rendere la nostra descrizione più completa possibile.
Quasi tutte le composizioni emblematiche presentano, lasciando a parte il soggetto scolpito in bassorilievo, un’iscrizione incisa su di filatterio. Ma, mentre l’immagine si riferisce direttamente al lato pratico della scienza, l’epigrafe mostra soprattutto un significato morale e filosofico; essa si rivolge all’operatore più che all’opera, e, ora servendosi dell’apoftegma, ora della parabola, definisce una qualità, una virtù che l’artista deve possedere, un punto della dottrina ch’egli non può misconoscere. Ora, per la ragione stessa d’essere provviste di filatteri, queste figure rivelano il loro messaggio segreto, la loro appartenenza ad una qualche scienza occulta. Infatti il greco ϕυλακτήριον, formato da ϕυλάσσειν, mantenere, preservare, e da τηρείν, consevare, indica la funzione di questo ornamento, incaricato di conservare, di preservare il significato occulto e misterioso dissimulato dietro l’espressione naturale delle composizioni alle quali si accompagna. Esso è il segno, il suggello di quella Saggezza che sta in guardia contro i cattivi, come dice Platone: Σοϕία ἣ περι τούς πονερούς ϕυλακτική, Che rechi su di sé, o no, una scritta, basta trovare un filatterio su un qualsiasi soggetto per star certi che quell’immagine contiene un significato segreto proposto al ricercatore ed indicato dalla sua sola presenza. La veridicità e la realtà di questo significato si ritrovano sempre nella scienza ermetica, qualificata dai maestri antichi col nome di eterna saggezza. Quindi non ci si deve sorprendere d’incontrare banderuole e pergamene, abbondantemente rappresentate tra gli attributi delle scene religiose o delle composizioni profane delle nostre cattedrali, ed anche nell’ambito meno severo dell’architettura civile.
Disposti su tre ranghi, perpendicolarmente all’asse, i cassettoni della galleria alta sono 93. Tra questi, 61 si riferiscono alla scienza, 24 mostrano dei monogrammi destinati a dividerli per serie, 4 non hanno che degli ornamenti geometrici, d’esecuzione posteriore, e gli ultimi 4 mostrano la loro superficie liscia e sgombra. I cassettoni simbolici, sui quali si concentra l’interesse per il soffitto di Dampierre, costituiscono un insieme di figure suddivise in sette serie. Ogni serie è isolata dalla seguente da tre cassettoni, disposti in linea trasversale, e decorati alternativamente col monogramma di Enrico II e degli spicchi intrecciati di Diana di Poitiers o di Caterina dei Medici, monogrammi che si possono notare anche su numerosi edifici della stessa epoca. Ma noi abbiamo fatto la seguente costatazione, piuttosto sorprendente, cioè che la maggioranza dei palazzi o castelli che recano la doppia D legata alla lettera H e il triplice spicchio, posseggono una decorazione dall’incontestabile carattere alchemico. Ma per quale ragione questi medesimi edifici sono qualificati col titolo di «castelli di Diana di Poitiers «dagli autori delle monografie, i quali si basano soltanto sull’esistenza del monogramma in questione? Eppure, né la dimora di Louis d’Estissac, a Coulonges-sur-l’Autize, né quella di Clermont, poste tutt’e due sotto l’egida della famosa favorita, le sono mai appartenute. D’altra parte, quale ragione ci potrebbe essere che giustifichi quel monogramma e quegli spicchi e che fosse tale da giustificare anche la loro presenza in mezzo agli emblemi ermetici? A quale pensiero, a quale tradizione avrebbero obbedito gli iniziati della nobiltà ponendo sotto la fittizia protezione d’un monarca e della sua concubina, — oggetto della generale riprovazione, — la loro opera geroglifica dipinta o scolpita? «Enrico II, scrive l’abate di Montgaillard{13}, era un principe sciocco, brutale, profondamente noncurante del bene del suo popolo; questo cattivo re fu costantemente dominato dalla moglie e dalla vecchia amante; egli abbandonò loro le redini dello Stato e non indietreggiò davanti ad alcuna crudeltà esercitata contro i protestanti. Si può dire di lui