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Gargantua e Pantagruele
Gargantua e Pantagruele
Gargantua e Pantagruele
E-book1.244 pagine15 ore

Gargantua e Pantagruele

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Info su questo ebook

Introduzione di Emanuele Trevi
Edizione integrale

Gargantua e Pantagruele, uno dei grandi classici che, come il Don Chisciotte di Cervantes, fondarono il romanzo moderno, è composto da cinque volumi scritti da François Rabelais nella prima metà del 1500. L’opera racconta le avventure di due giganti, Gargantua e suo figlio Pantagruele, con un linguaggio semplice e vivace, uno stile stravagante e satirico e un umorismo che fa perno soprattutto sul corpo e sulle sue funzioni. Il primo libro, Pantagruele, venne pubblicato e acclamato nel 1532. In seguito al successo dell’opera, l'autore firmò un secondo romanzo, nel 1534, dal titolo Gargantua. I tre libri che seguirono raccontano i viaggi strabilianti dei protagonisti per le terre più strane e fra i popoli più assurdi, come i Papafiche (caricatura dei Protestanti), o i Papimani (caricatura dei Cattolici). Tra l’altro, presso il circolo polare si fermano in un luogo dove odono a causa del disgelo le grida di una battaglia avvenuta anni prima, che erano rimaste imprigionate nel ghiaccio. Si dipanano pagina dopo pagina, rinnovando lo stupore e i sorrisi dei lettori, le invenzioni fantasmagoriche di Rabelais, lo spirito libero che seppe proteggere la sua fantasia davvero pantagruelica contro la Chiesa e i rigidi censori conservatori della Sorbona.



Francçois Rabelais

(Chinon, 1483 o 1494 – Parigi, 9 aprile 1553), scrittore e umanista, è considerato il maggior esponente di quel particolare filone della cultura rinascimentale definito come Anticlassicismo o Antirinascimento, che rifiutando le norme tematiche e linguistiche dei generi “alti”, come la lirica amorosa petrarchista o l’epica cavalleresca, predilige tutto ciò che è “basso”: il cibo, il vino, il sesso, le espressioni del corpo, contraddistinguendosi, sul piano linguistico, per una grande ricchezza e creatività verbale. Fu frate francescano e benedettino ma non si piegò alle regole monastiche e verso il 1528 abbandonò l’abito per frequentare l'università. A Parigi studiò medicina. Condannato dalla Sorbona, pubblicò i suoi libri con uno pseudonimo. La sua opera fu inserita nell’Index Librorum Prohibitorum. Reintegrato nella Chiesa grazie all’amicizia con un cardinale, divenne parroco, carica dalla quale si dimise a pochi mesi dalla morte, avvenuta a Parigi nel 1553.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854140707
Gargantua e Pantagruele
Autore

François Rabelais

François Rabelais est un écrivain français humaniste de la Renaissance, né à la Devinière à Seuilly, près de Chinon, en 1483 ou 1494 selon les sources, et mort à Paris le 9 avril 1553.

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    Anteprima del libro

    Gargantua e Pantagruele - François Rabelais

    377

    Titoli originali: Gargantua et Pantagruel

    (La vie très horrifique du grand Gargantua, père de Pantagruel;

    Pantagruel, roy des dipsodes;

    Le tiers livre des faicts et dicts héroïques du bon Pantagruel;

    Le quart livre des faicts et dicts héroïques du bon Pantagruel;

    Le cinquiesme et dernier livre des faicts et dicts héroïques du bon Pantagruel)

    Traduzione di Gildo Passini

    Prima edizione ebook: luglio 2012

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4070-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    François Rabelais

    Gargantua e Pantagruele

    Nella classica traduzione di Gildo Passini

    per l’Editore A.F. Formìggini

    con illustrazioni di Gustave Doré

    Introduzione e cura di Emanuele Trevi

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    François Rabelais: tentativo di un ritratto

    Lucien Febvre, il grande storico del Rinascimento, si lamentava del fatto che i lineamenti di Nicolas Bourbon, infimo poetastro scappato in Inghilterra per sottrarsi a un processo per eresia, fossero stati immortalati nientemeno che dalla mano di Holbein, mentre del divino, dell’immenso François Rabelais non è rimasto nessun ritratto attendibile. Tanto vale, se proprio vogliamo coltivare un’immagine mentale del padre di Gargantua e Pantagruel, affidarsi al ritratto immaginario che Eugène Delacroix dipinse nel 1833, oggi conservato nella sala degli Stati Generali del museo di Chinon. Un uomo nel fiore degli anni, pieno di energia, lo sguardo ironico e perspicace, alza gli occhi da un foglio su cui scrive, sospendendo a mezz’aria la lunga penna d’oca. Tale è il disordine dei libri ammassati sul tavolo e intorno alle gambe della sua poltrona, che per scrivere si deve accontentare di un angoletto a fatica lasciato libero. Alle sue spalle, i rilievi di un grande camino sontuosamente decorato evocano la bellezza del corpo femminile, i piaceri della carne.

    Ma non è solo una testimonianza attendibile sulla fisionomia di Rabelais a mancarci. Ci sono lacune molto più sconcertanti. E non ci si può certo lamentare della penuria di documenti che affligge, per fare il più ovvio degli esempi, i biografi di Shakespeare. Le sue tracce, Rabelais se le è lasciate dietro in abbondanza. Oltre che un grande scrittore, era un medico rinomato, un sapiente amico di sapienti, un esperto cortigiano. I suoi dispacci da Roma lo rivelano esperto dei più sottili intrighi diplomatici. Francesco I, quando voleva sollevare lo spirito dalle preoccupazioni del regno o dalla tirannia delle amanti, si faceva leggere i suoi libri dai buffoni di corte. E come tutti gli uomini importanti, ebbe nemici accaniti, capaci di ogni genere di calunnia. Calvino, il più intransigente spirito religioso dei suoi tempi, scagliava volentieri i suoi anatemi contro l’indecente Rabelais. Eppure, ci sono individui talmente elusivi da riuscire a sgusciare fra le tante cose che si sanno di loro – per nascondersi chissà dove, chissà perché. Anziché rivelarli, la loro opera finisce per diventare il più sicuro dei rifugi, come una foresta troppo fitta e rigogliosa per lo sguardo indagatore del biografo. E alla fine, pur tessuta di dati di fatto più o meno accertati, quella di Rabelais, del misterioso Rabelais, non potrà essere che una vita immaginaria.

    La data di nascita più probabile, il 1483, ne farebbe un coetaneo di Raffaello, e di Martin Lutero. In Francia muore Luigi XI, preceduto di appena qualche mese da Edoardo IV d’Inghilterra, al quale subentra Riccardo III, dopo aver fatto assassinare i due figli legittimi di Edoardo. Iniziano tempi decisivi, irripetibili, percepiti come tali già da chi li vive. Rabelais farà la sua parte in prima fila. Poco cambia, da questo punto di vista, se la data di nascita è il 1494, come proponeva nel 1908 Abel Lefranc, erudito insigne e benemerito editore e studioso di Rabelais. Lefranc basava la sua congettura sul IV capitolo del Gargantua, che contiene la cronaca della laboriosa nascita dell’eroe. Si sarebbe insomma di fronte a una deliberata confusione tra l’autore e uno dei suoi personaggi. Che sia nato nel 1483 o una decina d’anni più tardi, in tutti i casi, ciò che è sicuro è che la famiglia di Rabelais era tutt’altro che oscura: Antoine, suo padre, era un uomo rispettato, proprietario terriero e avvocato a Chinon. Se la Turenna, famosa fin dai tempi dei romani per la bontà dei suoi vini, era «il giardino di Francia», come ancora oggi si legge sui dépliant turistici, Chinon ne era «il fiore». Teatro di eventi memorabili, la mole del castello medievale domina l’abitato rispecchiandosi nelle acque placide della Vienne, che lambisce la città prima di sfociare nella Loira. François, secondo una tradizione attendibile, nacque nel podere della Devinère, a poche miglia da Chinon, una proprietà di famiglia dotata di una vigna abbastanza celebre. È un paesaggio che tornerà spesso nell’opera di Rabelais, soprattutto nel Gargantua e nel Terzo libro. E quando, nel Quarto e nel Quinto libro, Pantagruel e i suoi amici prendono il mare per raggiungere i confini del mondo, a chi glielo chiede, rispondono con fierezza che vengono dalla «benedetta Turenna».

    A quei tempi, l’infanzia era tutt’altro che un’epoca della vita ben delineata, con le sue leggi e i suoi diritti. Con la parziale eccezione di Montaigne, bisognerà aspettare i Romantici per godere e patire a pieno titolo la condizione di bambini. Solo una cosa ci sembra lecito arguire: fin dai suoi primi anni, Rabelais avrà ascoltato molto: storie, proverbi, modi di dire. Lo immaginiamo come uno di quei bambini che ruminano a lungo sui discorsi degli adulti. Quella prodigiosa macchina linguistica che è la sua opera non nasce a tavolino, ha bisogno di un lunghissimo riscaldamento. Le stesse considerazioni si potrebbero fare per l’infanzia di Dante, o di Shakespeare. Ancora prima che autori di opere vaste come universi, i geni di questa razza sono in possesso di quello che si potrebbe definire un udito enciclopedico. E anche le parole scritte non nascondono nulla al loro orecchio infallibile. Questa attenzione ha una conseguenza prodigiosa, perché agisce sulla materia linguistica, la modella, ne rivela possibilità impensate.

    Per passare dalle foreste della fantasia al campo dissodato dei dati di fatto, inizieremo col dire che è nei chiostri di alcuni conventi che Rabelais muove i suoi primi passi di uomo adulto. Nella lunghissima storia europea dei rapporti tra l’ordine francescano e la letteratura, Rabelais rappresenta un caso problematico, di ribelle e transfuga. Ma il convento è stata la sua prima finestra sul mondo, e di frati pullula la sua opera. La notizia più antica è quella che lo vuole, nel 1511, novizio tra i francescani della Baumette, nei pressi di Angers. Dieci anni dopo, è monaco tra i cordeliers del Puy-Saint-Martin, a Fontenay-le-Comte, in Vandea. Nativo di Fontenay-le-Comte era André Tiraqueau, umanista e giurista tra i più eminenti del suo tempo, studioso delle leggi e delle consuetudini matrimoniali degli antichi. È in compagnia di un confratello, Pierre Lamy, che Rabelais inizia a frequentare il circolo di Tiraqueau. Nel 1524, la prima edizione del De legibus connubialibus di Tiraqueau contiene, firmato da Rabelais, un elogio in greco del giurista, il quale a sua volta loda l’amico per una traduzione del II libro delle Storie di Erodoto, mai giunta fino a noi. È in questo autentico tessuto di relazioni umanistiche – non immune da un poco di pedanteria – che ben si colloca il primo testo conosciuto di Rabelais: una lettera del 1521, parte in latino e parte in greco, indirizzata a Guillaume Budé, bibliotecario di Francesco I, esperto in ogni campo dello scibile, amico di Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdarm che lo definiva «il prodigio di Francia». La lettera di Rabelais è poco più di un centone di luoghi comuni, dalla quale poco si potrebbe inferire. La cosa che più ha dato da discutere agli studiosi è il fatto che Rabelais vi si definisce adolescens. Ma è pur vero che in questo lessico umanistico la formula prevale sempre sul significato oggettivo delle parole. Per il resto, il ruolo recitato da Rabelais è quello dell’oscuro apprendista che, dal fondo della sua provincia, scrive al grande modello, all’uomo affermato. Questo tipo di adulazione letteraria, e l’oggettiva perizia di Rabelais nel maneggiare il greco e il latino, dovettero comunque convincere il grande Budé, del quale ci sono rimaste alcune lettere al giovane emulo. Da una di queste apprendiamo che i superiori avevano sequestrato, e poi restituito, a Rabelais i suoi libri greci, considerati in un primo tempo eretici, sulla base nientemeno che di una sentenza della Sorbona. Ma dopo varie e complesse traversie, culminanti nella richiesta di un indulto a papa Clemente VII, Rabelais abbandona l’ordine francescano. Nel 1524, l’anno prima della disastrosa sconfitta francese nella battaglia di Pavia, il nostro è diventato a tutti gli effetti un benedettino, e si è trasferito nell’abbazia di Maillezais, nel Poitou. Per molti aspetti, questa è una tappa importante del suo itinerario. Geoffroy d’Estissac, il vescovo di Maillezais, amico di molti uomini dotti e proprietario di una buona biblioteca, è il primo protettore illustre di Rabelais. Ne avrà di più importanti, ma al buon vescovo rimarrà sempre legato. Nel 1532, gli dedicherà la sua traduzione latina degli Aforismi di Ippocrate, e dall’Italia gli manderà delle sementi che sono all’origine, a quanto si dice, della coltivazione della lattuga nel Poitou.

    Come si accennava all’inizio, le cosiddette notizie oggettive non ci dispensano da rischiosissimi sforzi di immaginazione. Quello che riusciamo a intuire, è un carattere votato all’arte dell’amicizia, avido di esperienze culturali, insofferente di ogni limite imposto dall’autorità. Tra il 1528 e il 1530, potrebbe essere collocata una prima residenza a Parigi. Con le sue strade di fango, le sue taverne, i suoi bordelli, la Parigi di Rabelais non era poi così diversa da quella di Villon. È verosimile che abbia stretto un legame illecito con una donna, di cui nulla sappiamo, se non che gli ha dato due figli, François e Junie, legittimati qualche anno dopo. Ma si può smontare e rimontare a piacimento il mosaico delle notizie senza ottenere l’ombra di quella che oggi chiameremmo una vita privata. Si adattano perfettamente anche a Rabelais, forse, certe considerazioni su Shakespeare espresse da Jorge Louis Borges in un’introduzione al Macbeth del 1970. Borges ricordava che, a confronto con i grandi eventi della sua epoca, «il destino di Shakespeare corre il rischio di sembrarci di una misteriosa mediocrità». I poeti romantici, primo fra tutti Victor Hugo, non si rassegnavano a questa evidenza, preferendo inventarsi un uomo infelice, o un titano in lotta coi suoi contemporanei. «La malinconica verità», conclude il grande scrittore argentino, «è che Shakespeare, nonostante qualche vicissitudine iniziale, fu sempre un buon borghese, rispettato e prospero».

    Ha ragione Borges: non c’è nulla di più misterioso, e di più frustrante per i posteri curiosi, di una felice mediocrità. È come trovarsi di fronte a un corpo che non proietta la sua ombra. Ma è questo stesso rammarico a denunciare un errore di prospettiva. Proiettare su un uomo vissuto nei primi decenni del Cinquecento la nostra idea della vita interiore e le nostre gerarchie affettive è un’operazione assolutamente vana. È indubbia, invece, l’importanza del biennio 1530-1532 nella carriera intellettuale e artistica di Rabelais. Il 17 settembre del 1530, eccolo immatricolato alla facoltà di Medicina di Montpellier. Un mese dopo, assiste alla prima lezione di anatomia. Su Rabelais medico, sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. Il fatto è che a quei tempi la medicina si trova in bilico tra il nuovo e l’antico non meno del sapere umanistico – ammesso che sia possibile tracciare nettamente un confine simile all’odierno fra scienze umane e naturali. Molti passi delle opere maggiori sono lì a dimostrarci che il sapere medico fornisce spesso un prezioso punto di appoggio alla fantasia di Rabelais, che se non è materialistica in senso moderno, di sicuro è corporale fino a un limite mai toccato prima d’allora in una letteratura di lingua romanza. E questo risultato verrà ottenuto attraverso la sistematica ibridazione del modo di dire popolare, dialettale, farsesco e del lessico scientifico dei trattati medici, con tutto il loro massiccio ricorso al greco e al latino. Non bisogna mai scordare che la medicina, così come è praticata da Rabelais e i suoi colleghi, è una specie di branca della filosofia, ma soprattutto un’attività ermeneutica che è ancora in buona parte fondata - e lo rimarrà ancora per qualche secolo – sul commento e la traduzione dei classici. Non sarebbe esatto dire che gli Aforismi e gli altri trattati di Ippocrate, o l’Ars Parva di Galeno, soverchino del tutto l’osservazione diretta e l’esperienza acquisita nella cura dei malati. Ma in Rabelais il medico e l’astrologo, il romanziere e il cortigiano si danno la mano in maniera talmente originale e sorprendente, che non sai mai con esattezza qual è la parte dell’erudito e quella dell’uomo che ha compreso, alla luce di una saggezza superiore, la follia che si nasconde dietro ogni orgoglio libresco, ogni tronfia pedanteria mascherata da sapere. E siamo così arrivati a quell’anno in tutti i sensi mirabile e irripetibile che è il 1532. Medico all’Hôtel-Dieu di Lione, Rabelais pubblica a pochi mesi di distanza la sua traduzione latina di Ippocrate e Galeno, stampata dal raffinato Sebastian Gryphius, editore di Erasmo e Poliziano; e (con lo pseudonimo di Alcofrybas Nasier) la prima edizione del Pantagruel, uscita dai torchi, molto più popolari, di Claude Nourry. Ma non basta: è sempre in questi mesi decisivi che vengono pubblicate anche le Grandi e inestimabili cronache del grande ed enorme gigante Gargantua. Di quest’opera, molto inferiore al capolavoro sul piano dell’arte, Rabelais avrebbe composto almeno la tavola delle materie, e forse qualcosa di più (oggi la si stampa spesso come appendice al Gargantua). Il grant et enorme géant, prima di essere trasportato da Morgana e Melusina nel regno delle fate, sconfigge i nemici di re Artù, ficcandosi ben cinquanta nemici prigionieri in un dente cariato.

    Quello che può a buon diritto essere considerato il primo romanzo in senso moderno non ha avuto bisogno di aspettare con pazienza il suo momento. Nel 1534, si contano già otto edizioni del Pantagruel. L’epopea dei giganti, fin dalle prime edizioni, si aprirà con il successivo Gargantua, pubblicato la prima volta nel 1535 o poco prima, e dedicato all’infanzia e alle gesta del padre di Pantagruel. Si tratta di due libri gemelli, concepiti intorno a un’idea centrale che il prologo del secondo rende esplicita: in ogni opera veramente degna di questo nome, alla scorza o rivestimento esteriore di un senso letterale ed evidente corrisponde una molteplicità di significati riposti, di preziosi insegnamenti di cui solo l’intelligenza dei migliori lettori saprà trarre partito. Bisogna, in ogni caso, «aprire il libro», vale a dire distinguere l’aspetto esteriore del discorso da ciò che vi è nascosto, il «sostanzioso midollo». Ma nel momento stesso in cui Rabelais afferma questo fondamentale principio ermeneutico, così tipico del suo tempo, sottilmente invita i suoi lettori a diffidarne, abbandonandosi al puro piacere del racconto, alla virtù terapeutica del riso che i giganti e i loro amici saranno capaci di suscitare. L’allegoria di Rabelais, insomma, non è mai un involucro puramente strumentale, al quale si può facilmente rinunciare una volta compiuto il percorso verso il significato nascosto. L’energia del comico scompagina tutte le più prevedibili strategie testuali, comprese – qui sta la massima sorpresa, e il massimo godimento – quelle di cui l’autore stesso intende consapevolmente servirsi. Non sono forse i giochi più belli quelli che, in una certa misura, sfuggono di mano? Suprema medicina di un’umanità governata dalla follia, il riso punta l’indice sulle magagne del mondo, solleva gli innumerevoli veli tessuti dall’ipocrisia, ma proprio nel momento in cui sembra rigettarlo per sempre nella sua nullità, quasi fosse la Maya di un saggio induista, gli conferisce uno spessore e una sostanza mai prima sperimentati in un libro di così alta fattura letteraria.

    Nel 1533, un membro della Sorbona inserisce il Pantagruel in una lista di libri accusati di oscenità. È l’inizio di una lunghissima serie di accuse e persecuzioni, che oltre l’oscenità toccheranno il tasto ben più dolente dell’eresia. Ma Rabelais, in questi anni, è finalmente entrato nell’orbita del più importante dei suoi protettori, Jean du Bellay, favorito di Francesco I, grande ambasciatore, uomo di lettere e protettore di letterati, cardinale a partire dal 1535. Si tratta, senza mezzi termini, di uno degli uomini più importanti della sua epoca, segnata dalla complicata vita matrimoniale di Enrico VIII e dal conseguente scisma d’Inghilterra. Nel delicatissimo scacchiere diplomatico, Jean du Bellay svolse un ruolo fondamentale di mediazione tra Enrico, Carlo V e Paolo III, guadagnandosi sul campo, per così dire, il cappello cardinalizio. Forse in qualità di medico, forse di segretario, Rabelais lo segue per la prima volta a Roma nell’inverno del 1534. Assieme ad altri membri della corte del potente ambasciatore, percorre le rovine della Città Eterna progettando una topografia. A Roma tornerà a maggio dell’anno dopo, per restarci fino al maggio del 1536. Tre lettere di questo periodo, indirizzate all’antico protettore Geoffroy d’Estissac, ci mostrano uno straordinario Rabelais giornalista, capace di afferrare al volo le più elusive dicerie politiche e diplomatiche. Ma il 1535 è l’anno del Gargantua, che ben presto (e fino a oggi, per consuetudine ormai invalsa) inizierà a fare corpo con il Pantagruel precedendolo, come è logico che sia dal punto di vista narrativo, raccontando questo secondo libro le gesta del padre di Pantagruel.

    Dal punto di vista astratto della trama, un riassunto del Gargantua, del Pantagruel e dei successivi tre libri (l’ultimo dei quali postumo e in parte apocrifo) potrebbe essere contenuto in poche righe. Sia di Gargantua che di Pantagruel vengono raccontate la nascita, l’infanzia e l’educazione, che li porta a essere sovrani giusti e generosi. A entrambi tocca affrontare una guerra contro nemici accaniti e pericolosi. Entrambi si circondano di una piccola corte di compagni d’avventura – primo fra tutti, per importanza, è Panurge, incontrato da Pantagruel durante i suoi studi a Parigi. Nei suoi pregi e nei suoi difetti, Panurge è l’incarnazione totale dello spirito comico di Rabelais, e del suo senso dell’umano. È scaltro e ingegnoso, avido di piaceri, capace di cavarsi dai peggiori impicci ma anche di coltivare ossessioni e paure che lo rendono del tutto incapace di ragionare. È lui il protagonista del Terzo libro, apparso nel 1546. Indeciso tra il matrimonio e il celibato, Panurge interroga un’indovina, un poeta, un mago, un medico, un filosofo, in un crescendo di episodi comici e assurdi dal quale non potrà che derivare un’unica conclusione, ovvero che «tutto è follia». E la follia è anche il motore narrativo che fa proseguire la saga, poiché è il pazzo Triboulet che consiglia Panurge di andare a consultare l’oracolo della Divina Bottiglia, l’unico in grado di dirgli se farà bene o no a sposarsi. Al lunghissimo viaggio per mare in cerca dell’isola della Divina Bottiglia sono dedicati sia il Quarto che il Quinto libro, apparsi rispettivamente nel 1552 e nel 1564. Ed è la struttura del viaggio, con la sua infinita apertura sul possibile, quella che sembra perfettamente adeguata all’arte narrativa e allo spirito satirico di Rabelais nella fase più matura del suo sviluppo. In ogni isola visitata da Pantagruel e dal suo equipaggio, un nuovo aspetto della follia del mondo viene affrontato fino alle sue estreme conseguenze, tali da trasformarlo in un prodigio o in un paradosso, suscitatori di un riso salutifero e liberatorio.

    «Trinch!», ovvero «bevi!» è l’agognato oracolo della Divina Bottiglia. Il cosiddetto pantagruelismo non è un rimedio alle storture del mondo, e nemmeno una chiave capace di rivelarne i segreti per possederlo e governarne il corso. L’atteggiamento morale che Rabelais esige dai suoi lettori è quello di chi, invece di adeguare l’infinita e ingovernabile varietà delle cose umane a un ordine di valori prestabilito, accetta di essere parte di questo incessante e universale movimento. Questo significa l’invito a berci sopra, una volta compreso che nessuna formula umana potrà garantire il possesso di una verità ultima, esente da ulteriori discussioni. In altre parole, nessuno potrà dire a Panurge se sarà meglio, per lui, sposarsi o no. Il fatto che molti possono consigliarci e nessuno garantirci un consiglio infallibile potrà essere frustrante, ma è la garanzia della nostra unicità di individui, della nostra preziosa irriducibilità a un modello astratto. Proprio perché è un uomo, nel senso più nobile e insieme più buffo della parola, Panurge non sa che pesci pigliare, non sa se il suo desiderio lo consigli per il meglio o lo stia turlupinando. Alla fine, l’ammonimento più sensato, la regola di vita più efficace da opporre all’insensatezza di tutte le regole è il «Fa’ ciò che vorrai» inciso sulla porta dell’Abbazia di Thélème, fondata da Gargantua al termine della guerra vittoriosa contro il malvagio e stupido re Picrochole, caricatura di Carlo V e di ogni futuro tiranno destinato ad affliggere la storia dell’umanità. A differenza di tutte le Utopie del Rinascimento, da Tommaso Moro fino a Campanella, troppo consacrate all’esercizio delle virtù civiche e familiari per indurre in qualcuno la voglia di viverci davvero, l’Abbazia di Thélème è forse il luogo più desiderabile dell’intera storia della letteratura. Meravigliosamente vestiti, nutriti di cibi raffinatissimi, cullati da ogni forma di diletto dei sensi e della mente, e soprattutto liberi da leggi, regole, statuti, gli uomini e le donne che vivono nell’Abbazia non possono che tendere a una vita «onesta e libera». Basta che uno solo dei membri di questa comunità perfetta esprima un desiderio, e tutti gli altri spontaneamente lo seguono, come se quel desiderio fosse il loro. E questa «lodevole emulazione», scrive Rabelais, è il più prezioso frutto della libertà. È la forma suprema dell’empatia, quella che ci viene descritta in questa pagina indimenticabile: fondata sul piacere, crea la forma di comunità umana più armoniosa e accogliente che si possa immaginare. Non c’è individuo che non abbia almeno un desiderio da mettere in comune con i suoi simili. E in questa circolazione, che rompe la gabbia dell’Io e della sua malvagia solitudine, Rabelais ha rappresentato il più alto ideale umano e morale a cui la sua epoca tutta intera potesse pervenire.

    EMANUELE TREVI

    Bibliografia essenziale

    Il primo dei cinque libri che compongono l’opera a essere pubblicato fu Pantagruele, re dei Dipsodi nel 1532. Seguì Gargantua nel 1934, Il terzo libro (1546), Il quarto libro (1552) e Il quinto libro (1564, postumo).

    Edizione di riferimento e strumenti essenziali

    François Rabelais, Oeuvres complètes, édition établie et annotée par Mireille Huchon, avec la collaboration de François Moreau, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1994.

    Della «Revue des études rabelaisiennes», pubblicata a Parigi dal 1903 al 1912, è stata pubblicata una ristampa anastatica in 11 volumi, Slatkine Reprints, Genève 1974.

    A partire dal 1953 sono pubblicati (presso Droz, Genève) i fondamentali «Etudes Rabelaisiennes», spesso in forma monografica.

    Fra le traduzioni italiane segnaliamo quelle a cura di Mario Bonfantini per Einaudi (nel 2007 l’ultima edizione) e di Augusto Frassineti per Rizzoli (nel 2010 l’ultima edizione).

    Studi

    R. ANTONIOLI, Rabelais et la médecine, Droz, Genève 1976 («Etudes Rabelaisiennes» XII).

    E. AUERBACH, Il mondo nella bocca di Pantagruele, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäuser, Einaudi, Torino 1956.

    K. BALDINGER, Etymologisches Wörterbuch zu Rabelais (Gargantua), Niemeyer, Tübingen 2001.

    M.M. BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1982.

    R. COOPER, Rabelais et l’Italie, Droz, Genève 1991 («Etudes Rabelaisiennes» XXIV).

    A. CONTAUD, La pédagogie de Rabelais (1899), Slatkine Reprints, Genève 1970.

    G. DEMERSON, Rabelais, Fayard, Paris 1991.

    M. DE DIEGUEZ, Rabelais par lui-même, Seuil, Paris 1960.

    L. FEBVRE, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais (1942), trad. it. di Luca Curti, Einaudi, Torino 1976.

    M. FUMAROLI, Exercices de lecture: de Rabelais à Paul Valéry, Gallimard, Parigi, 2006.

    E. GILSON, Rabelais franciscain (1924), in Les idées et les lettres, Vrin, Paris 1932.

    E. GILSON, Il Dio degli increduli: Villon e Rabelais, cura e introduzione di L. Salvarani, C. Casalini, Medusa, Milano 2009.

    M. HUCHON, Rabelais grammarien. De l’histoire du texte aux problèmes d’authenticité, Droz, Genève 1981.

    G. LOTE, La vie et l’oeuvre de Rabelais (1938), Slatkine Reprints, Genève 1972.

    N. MARINIER (ed.), De l’éducation: apprendre et transmettre de Rabelais a Pennac, Flammarion, Paris 2001.

    M. SCHWOB, François Rabelais (1928), Allia, Paris 1990.

    M.A. SCREECH, Rabelais (1979), Gallimard, Paris 1992.

    W. STEPHENS, Les géants de Rabelais: folklore, histoire ancienne, nationalisme, traduit de l’anglais par F. Preisig, Champion, Paris; Diff. Slatkine, Genève 2006.

    E.T.

    La vita orrificissima

    del grande Gargantua

    padre di Pantagruele

    Già composta dal signor Alcofribas

    astrattore di Quinta Essenza

    Libro pieno di pantagruelismo

    AI LETTORI

    O voi che il libro a legger v’apprestate,

    Liberatevi d’ogni passione

    E leggendo non vi scandalizzate,

    Ché non contiene male né infezione.

    Anche gli è ver che poca perfezione

    V’apprenderete, salvoché nel ridere;

    Non può il mio cuore senza riso vivere

    E innanzi al duolo che vi mina e estingue,

    Meglio è di riso che di pianto scrivere,

    Ché il riso l’uom dall’animal distingue.

    VIVETE LIETI

    Secondo l’Esmangart questo monaco dal becco rapace che ha per tonaca una campana e per inginocchiatoio una fortezza turrita a rotelle, figurerebbe il papa Giulio ii, noto per il suo carattere bellicoso.

    Questa e le altre quattro tavole inserite nel volume, nelle pagine di retrocchiello, sono tratte da I sogni bizzarri di Pantagruele dove sono contenute centoventi figure inventate da Mastro Francesco Rabelais, ultima delle opere sue, a ricreazione dei buoni spiriti, in Rabelais, Opere, vol. VI, edito in Roma dall’Editore A.F. Formìggini tra il 1925 e il 1930 e tradotto da Gildo Passini.

    Dedicatoria dell’Editore

    Eccellenza,

    conciosiacosaché nei tempi giocondi del divino Rabelesio era gentil costumanza che gli editori consacrassero i parti delle loro viscere tipografiche a qualche insigne contemporaneo per farsene scudo, per ostentarne la benevolenza, o per sollecitarne la protezione, ho pensato che a nessuno di Voi più illustre meglio offerire avrei potuto e raccomandare questi aurei volumi nei quali il fervido amore e il vivido ingegno di Gildo Passini hanno rivelato per la prima volta integralmente agli italiani, in tutta la sua orchestrale giocondità, la generosa saggezza del più bizzarro tra gli scrittori latini.

    Ho voluto così dare a l’E.V. monumentale testimonianza che il ricordo del nostro famoso certame resta nel mio cuore deterso da ogni traccia di amaro.

    Mi è sembrato che bene a Voi si confacesse questo dono, perché l’Autore è uno fra i più famosi classici, non soltanto della francese letteratura, ma di quella disciplina pedagogica altresì, nella quale anche Voi foste proclamato Maestro e Riformatore. Raccomandata a Voi, questa opera più agevolmente andrà per le mani di tutti i docenti italiani che potranno attingere dalla vera fonte quale e quanta fu la generosa saggezza onde il buon Grangola provvide alla educazione dell’ottimo suo figlio Gargantua e questi a quella del gran Pantagruele.

    Essi troveranno tanto tesoro di dottrina tra un solenne scampanio di bischeri e un rimbombar di naturali e casalinghe pernacchie e ne resteranno certo sorpresi, storditi e un poco anche, e non a torto, inorriditi, poiché molto il gusto della presente età è, da quello d’allora, dissimile, ma non una sola riga troveranno che possa dirsi corruttrice, poiché tutto in quest’opera è sano anche se di gusto grosso.

    Né troppo vi dispiaccia, Eccellente Signore, se io vi confesso che, forse per una superstite traccia di irriverenza di cui mi pento, il mio pensiero è corso a Voi quando ho letto di quella contesa tra il barbuto Baciaculo e lo sbarbato Fiutascorregge (Libro II, Cap. X e segg.) nella quale il buon Pantagruele fu arbitro magnifico. Mi sembrò di veder Voi seduto su di una smisurata poltrona a pronunciarvi tra le due Vostre più operose appendici, e sentir l’una affermare: «Che il pensato è impensabile perché impensato, e pensato perché impensabile», l’altra ribattere: «Che la cosa perché impensabile è impensata e che la sua stessa impensabilità è pensiero» e mentre tutti i dottori della Sorbona assistevano al dibattito, che da gran tempo si protraea, senza poter nulla decidere perché nulla ne capivano, ecco intervenir Pantagruele, cioè Voi, Eccellenza, a sentenziare «Che la cosa noi la pensiamo come impensabile: nella sua impensabilità, cioè, essa è posta dal pensiero, o meglio in essa come impensabile si pone il pensiero».

    I dottori della Sorbona nemmeno della sentenza avevan decifrato un jota, ma vedendo Baciaculo e Fiutascorregge accettarla entrambi come giusta e verace, reputaron gran ventura avere in Parigi un uomo di così sconfinata, inaccessibile sapienza e Capo-Solone nominare, il voleano.

    Ma il buon Pantagruele, in questo da Voi dissimile, accettare non volle affermando che temeva la corruzione degli uomini.

    Eccellenza,

    Non vi sembri disdicevole l’avervi fatto dono di questi volumi nei quali i filosofi pedanti sono spesso malmenati: vogliate tener conto che l’autore è pur esso filosofo, un umanissimo filosofo, degno di profondo rispetto.

    Se egli inizia la sua grande opera affermando che il rider l’uom da l’animai distingue, ei la conchiude dicendo che non solo il ridere, ma anche il bere buon vino è proprio dell’uomo e che poiché «in vino veritas», il filosofo, ricercatore di verità deve amare il buon bicchiere.

    Beviamo dunque a tutta gola, Eccellenza, pantagruelicamente, beviamo i formidabili vini della vostra Sicilia solatia, o quelli limpidi ed aurati delle colline romanesche, o, meglio, il frizzante Lambrusco della mia dolce patria, beviamo non solo per amore di verità, ma anche perché il vino dispone l’animo a quella benevolenza e a quel reciproco compatimento che sono essenziali alla vita ed al progresso civile e consentitemi di ritradurre qui, a mio modo, meno fedelmente ma più pudicamente che non abbia fatto il mio valoroso Passini, una strofe dell’opera (Lib. V, Cap. 47):

    O virtù di Dio paterna

    che mutasti l’acqua in vino,

    il mio cuor muta in lanterna

    che rischiari il mio vicino!

    A.F. Formìggini

    La figura di Angelo Fortunato Formìggini – di cui proponiamo la prima edizione integrale del Gargantua et Pantagruel tradotta da Gildo Passini – è tra le più geniali e creative dell’editoria italiana, ma il suo percorso esistenziale di uomo colto, generoso, entusiasta, ironico cozzò contro l’ideologia e il regime fascisti, con esiti per lui purtroppo letali. Nacque vicino a Modena nel 1878 da una famiglia ebrea di ideali risorgimentali in cui assorbì sentimento nazionale e ideali umanistici, mentre la religiosità assumeva un ruolo sempre più secondario. Si laureò due volte: una a Roma, in Lettere e Filosofia, una a Bologna, in Filosofia morale. Fondò la sua casa editrice nel 1908, pubblicando La secchia rapita di Tassoni, cui fecero seguito numerose altre pubblicazioni, accolte tutte con molto favore; nel 1912 creò la collana Classici del ridere, cui teneva moltissimo, e che accolse pregiate traduzioni del Satyricon, dell'Asino d’oro, di Rabelais, di Giordano Bruno e di tanti altri spiriti liberi e geniali. Uno dei suoi grandi sogni era la creazione di una Enciclopedia nazionale, vasta, scientifica, aggiornata. Quando il progetto fu realizzato, il ministro fascista Gentile, dopo uno scontro con l’editore – cui rimproverava l’impronta troppo positivistica che avrebbe dato alla pubblicazione – lo estromise e a dirigere l’enciclopedia fu chiamato Giovanni Treccani. Da questo episodio, l’adesione di Formiggini al fascismo – dovuta anche alla patina di socialismo che inizialmente Mussolini amava esibire e che doveva avere il suo fascino su un uomo imbevuto dei generosi ideali umanitari del grande socialismo riformista – divenne sempre meno convinta. Nel 1938 il regime cominciò a introdurre il clima che doveva portare alla proclamazione delle leggi razziali e Formiggini, sbigottito e spaventato, cercò invano di salvare la sua casa editrice dall’espropriazione: allora decise il suicidio. Andò a Modena e il 29 novembre del 1938 si gettò dalla Ghirlandina, la torre del Duomo. Nella sua ultima lettera alla moglie scrisse, tra l’altro: «Io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti richiamando l’attenzione sul mio caso che mi pare il più tipico di tutti […] Le cose mie più care, cioè il mio lavoro, le mie creature concettuali, invece di scomparire, potranno risorgere a nuova vita. Egoisticamente preferirei che morissero con me. Ma esse non sono più soltanto mie, e poi esse possono ancora riuscire di utilità e di decoro alla mia patria».

    Nel testo sono state lasciate di proposito tutte le forme di linguaggio arcaiche e le disomogeneità grammaticali della traduzione originale pubblicata nel 1925 nella collana Classici del ridere. (n.d.r.)

    Prefazione di Gildo Passini

    Raccontano che un giorno il cardinale Du Bellay, arcivescovo di Parigi, a un tale che sollecitava l’onore di sedere alla sua mensa, fece chiedere se conoscesse «il libro».

    Il disgraziato non l’aveva letto.

    «E vada dunque a mangiare coi domestici», ordinò Sua Eminenza.

    «Il libro» era la istoria dei fatti e delle prodezze inenarrabili degli orrifici giganti Gargantua e Pantagruele, composta dal signor Alcofribas Nasier¹ astrattore di quintessenza.

    Leggetelo, amici, procurate di non morire senz’averlo letto! Libro musicale e meraviglioso, dove il suono della gaiezza è rotto da balzi di pensiero alato, e il fluire della meditazione è contrappuntato da scrosci di matta ilarità; libro che ringalluzzisce, ammaestra, stupisce, fa sobbalzare sulla sedia e acqueta lo spirito; libro screziato d’idee e d’innocenti boiate, popolato di tipi e di caricature, formicolante di facezie, barzellette, favole, apologhi, realistico e fantastico, pittoresco, fervido d’umorismo, schioccante di satira e d’ironia, iridato talora di sentimenti austeri e di poesia: Aristofane e Socrate a braccetto, o Benedetto Croce condito in salsa petroliniana; libro monellesco e filosofico, sapiente e sbarazzino, eclettico e contradditorio, pervaso di carità e squillante battaglia, equilibrato e bizzarro, malizioso e ingenuo, licenzioso e morale, maschio, fecondo, facondo, giocondo, rubicondo e profondo, dei pochi al mondo che letti una volta si rileggono venti con sempre più ricco profitto e più vivo diletto.

    Fuori l’autore!… Chi fu Francesco Rabelais? Amici, non è facile dirlo. Cumuli di carta e fiumi d’inchiostro furono, sono e saranno, dedicati alle più curiose e meticolose ricerche; però quanto più s’illuminano i rilievi, tanto più s’affondano pieghe e scoscendimenti della montagna: il contrasto di luci e ombre disorienta spesso l’indagine, ma cresce tuttavia il fascino dell’ascensione alla cima. Si può dire in sintesi che il R. fu lo scrittore più interessante di un tempo interessantissimo; l’uomo dalle cento vite che spalanca mille occhi sulle due rivoluzioni che agitano dal profondo gli spiriti e la vita della Francia nella prima metà del Cinquecento: il Rinascimento e la Riforma. Ma se veniamo ai particolari della vita e delle opere del R. è un continuo pullulare di forse.

    Siete ben sicuri, intanto, che si nominasse Rabelais? Su atti pubblici e documenti contemporanei troviamo anche: Rabelais, Rabellet, Rabelèse, Rabellais, Rabelois e, latinamente, Rabelaesus, Rabellesus e Rabelesius.

    L’anno di nascita pare il 1483. Ma chi può escludere invece il 1490, o il 1495?

    Patria: Chinon, nella Turenna. Non sarà nato invece nei prossimi villaggi di Benais, o di Bourgueil, come taluni sostengono?

    Il padre ebbe nome Tommaso, come vogliono i più, salvoché non si chiamasse Antonio, come i meno pretendono. E i più inclinano a credere che Tommaso fosse apoticario, o speziale, laddove i meno opinano che Antonio fosse oste.

    Per comporre una genealogia in regola, secondo l’esempio di lui (oh, Gargamella! oh Badebec!) converrebbe ricordare la madre. Chi fu? La conobbe egli? Taluno dubita sia mai esistita, nel qual caso si rinnoverebbe per Mastro Francesco il miracolo di Orione ricordato nel cap. 17 del l. III.

    Vestì l’abito francescano nel 1511 (non è sicuro) e lo svestì nel 1524, o, se preferite, nel 1529.

    Fu poi monaco benedettino, clericus vagans per le principali città di Francia, studente non assiduo, ma studiosissimo, a Montpellier, dove conseguì baccalaureato, licenza e laurea in medicina e dove tenne lezioni d’anatomia e commentò testi di Ippocrate. Fu in epoche diverse medico negli ospedali di Lione e di Metz e, a tempo perso, traduttore di testi greci e compilatore d’almanacchi seri e burleschi.

    Venne più volte in Italia, a Ferrara, a Firenze, a Genova; ma risiedette specialmente a Roma e a Torino; a Roma quale medico e segretario del cardinale Du Bellay, ambasciatore di Francesco I, a Torino quale medico di Guglielmo du Bellay, fratello del precedente, viceré del Piemonte.

    Fu poi canonico di Saint-Maur-des-Fossés e curato, di titolo almeno, delle due parrocchie di Meudon e di Saint-Jambet.

    Quando e dove morisse non si sa. Morì? V’è chi osa affermare sia vivo tuttora e operante.

    Il temperamento, il carattere, i costumi? Fu il sapiente grave e austero che vorrebbero alcuni, o l’indiavolato beone e burlone che pretendono altri?

    Da tanti dubbi, contraddizioni e controversie emerge l’enigma rabelesiano, preconizzato da un suo contemporaneo e collega. Il medico e letterato Nicola Boulenger scriveva nel 1587: «Chiunque visse al tempo suo sa che fosse in realtà quel canzonatore conosciuto e amato da tutti… ma egli sarà un enigma pei posteri».

    La previsione è confermata di secolo in secolo. Il La Bruyère nel Seicento dirà: «Il Rabelais è incomprensibile, il suo libro è un enigma inesplicabile…».

    Il Voltaire nel Settecento, un giorno lo giudicherà «extravagant et inintelligible», salvo a contraddirsi più tardi, proclamando: «C’est la peinture du monde la plus vive… Je me repens d’avoir dit autrefois du mal de lui…».

    E il Sainte-Beuve nell’Ottocento si struggerà di non poter afferrare e comprendere appieno quella Minerva oscura.

    Gli odi e gli amori delle passioni politiche e religiose hanno favorito l’incomprensione, alterando i giudizi su questo combattente del pensiero² che non può lasciare alcuno indifferente; le leggende fiorite intorno a una figura così singolare contribuirono non poco ad annebbiarne i contorni.

    Da qualche decennio appena la critica ha cominciato a scrostare l’intonaco di aberrazioni fantastiche, ingiuriose, o imbecilli, che guastavano i lineamenti di quella fisionomia splendente ormai in tutta serenità.

    Il R. tradotto da un pezzo in tutte le lingue, solo da oggi nella nostra³ , appartiene alla coltura universale.

    I giganti si fanno piccoli e s’inchinano con reverenza davanti a lui. Victor Hugo lo considera come il solo francese degno di entrare nel novero dei geni insieme con Omero, Eschilo, Isaia, Ezechiele, Lucrezio, Giovenale, Giobbe, San Paolo, San Giovanni, Tacito, Dante, Cervantes e Shakespeare.

    E il conterraneo del Rabelais, il cento volte Onorato di Balzac, lo esalta in esultanza, così:

    «Taluni hanno fatto carico a Francesco Rabelesio, imperiale onore del paese nostro, di malvagità e scimmiesche buffonerie indegne di quell’Omero filosofico, di quel principe di sapienza, di quel centro paterno, onde, dopo il sorgere della sua luce super-terrena, uscì buon numero d’opere mirifiche. Peste a coloro che sconcacarono la sua testa divina! Sabbia sotto i denti vita natural durante a coloro che hanno disconosciuto il suo saggio e sobrio nutrimento.

    Oh, caro bevitor d’acqua chiara, oh fedele osservator d’astinenze monacali, oh sapiente di venticinque carati, da quali e quanti sternuti e sempiterne risa saresti squassato tutto, se licenza concessa ti fosse di rinverdire un zinzin di tempo in quello di Chinon e leggere i congrui rattoppi, rabberciamenti e ciabatterie degli sciocchi in bemolle e in bequadro che hanno interpretato, commentato, straziato, ingiuriato, frainteso, tradito, cainato, adulterato e sbrodolato l’opera tua incomparabile. Con tutto che ben rari siano i pellegrini di tal lena da seguir la tua nave nella sublime peregrinazione per gli oceani delle idee, metodi, pregiudizi, religioni, sapienze e truffaldinerie umane, il loro incenso almeno è di buona lega, puro e schietto, e l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnilinguaggio tuoi, son da loro valorosamente riconosciuti.

    Onde un povero figlio della gaia Turenna ebbe cura di farti, benché in scarsa misura, giustizia, magnificando l’immagine tua e glorificando gli scritti tuoi d’eterna memoria, tanto cari a quelli che amano le opere concentriche, ove l’universo morale è racchiuso, ove tutte le idee filosofiche d’ogni guisa, le scienze, le arti, eloquenze, oltre le teatrali giocosità, fitte s’incontrano come sardelle nei lor barili».

    Amici, leggete! Mi dispiacerebbe tanto che foste esclusi, poveretti, dalla mensa arcivescovile…

    Gildo Passini

    1 Tale lo pseudonimo anagrammatico assunto da Francesco Rabelais pubblicando i primi due libri.

    2La dottrina del R. è tutta sorriso, indulgenza, bontà. Egli la chiama pantagruelismo e la definisce: «certaine gaité d’esprit confite en mespris de choses fortuites». È una ricetta che par tolta agli stoici o al Vangelo e farebbe assai bene all’Europa contemporanea.

    3 Nel condurre a termine la sua gioconda fatica il tr. Ha seguito per i primi due libri la bellissima edizione criticata curata da Abel Lefranc e dai suoi valorosi collaboratori; J. Boulenger, H. Clouzot, P. Dorveaux, J. Plattard e L. Sainéan. Per gli altri tre libri si è servito delle eccellenti edizioni dei Rathery e del Moland.

    4 Contes Drolatiques – Seconda decina, p. 163 – Classici del ridere. Formiggini edit. – Roma.

    Prologo dell’autore

    Beoni lustrissimi, e voi Impestati pregiatissimi (poiché a voi non ad altri dedico i miei scritti) Alcibiade nel dialogo di Platone intitolato il Simposio, lodando Socrate, suo precettore e, senza contrasto, principe de’ filosofi, dice tra l’altro ch’egli era simile ai sileni. Per sileni s’intendeva una volta certe scatolette, quali vediamo ora nelle botteghe degli speziali, dipinte di figure allegre e frivole come arpie, satiri, ochette imbrigliate, lepri colle corna, anitre col basto, caproni volanti, cervi aggiogati ed altrettali immagini deformate a capriccio per eccitare il riso, quale fu Sileno, maestro del buon Bacco.

    Ma quelle scatole dentro contenevano droghe fine come balsamo, ambra grigia, cinnamomo, muschio, zibetto, gemme¹ ed altre sostanze preziose.

    Così dunque di Socrate, diceva Alcibiade. Vedendolo fisicamente e giudicandolo dall’aspetto esteriore, non gli avreste dato un fico secco tanto brutto il corpo e ridicolo appariva il portamento, col suo naso a punta, lo sguardo di toro, la faccia da matto, semplice ne’ modi, rozzo nel vestire, povero, disgraziato a mogli, inetto a tutti gli uffici della repubblica; sempre ridente, sempre quanto e più d’ogni altro bevente, sempre burlante e sempre dissimulante il suo divino sapere. Ma schiudendo quella scatola quale celeste e inapprezzabile droga dentro!

    Intelletto più che umano, virtù meravigliosa, coraggio invincibile, sobrietà senza pari, contentatura facile, fermezza perfetta, disprezzo incredibile di tutte quelle cose per cui gli uomini vegliano, corrono, s’affannano, navigano, combattono.

    A che tende, secondo voi questo preludio d’assaggio? A questo: voi, miei buoni discepoli, e altri mattacchioni, leggendo gli allegri titoli di alcuni libri di nostra invenzione come Gargantua, Pantagruele, La dignità delle braghette, I piselli al lardo cum commento, ecc. credete troppo facilmente non trovarvi dentro che burle, stramberie e allegre fandonie, dacché l’insegna esterna, chi non vi cerchi per entro, suona generalmente canzonatura e facezie. Ma le opere degli uomini non vanno giudicate con tanta leggerezza: l’abito non fa il monaco, dite voi stessi. E talora veste abito monacale chi tutto è, meno che monaco; e talora veste cappa spagnuola chi nulla ha di spagnuolo nell’anima. Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v’accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere.

    E ammesso che, seguendo il senso letterale troviate materie abbastanza gaie e corrispondenti al titolo, non bisogna badare a quel canto di sirena, ma dare più alta interpretazione a ciò che per avventura crediate detto per festevolezza.

    Sturaste mai bottiglie? Eh, per Bacco! E allora richiamatevi a mente l’aspetto che avevate. Vedeste mai un cane trovare un osso midollato? Il cane è, come dice Platone (Lib. II De Rep.) la bestia più filosofa del mondo. Se l’avete visto avrete potuto osservare con quale devozione lo guata, con qual cura lo vigila, con qual fervore lo tiene, con quale prudenza lo addenta, con quale voluttà lo stritola e con quale passione lo sugge. Perché? Con quale speranza lo studia? Quale bene ne attende? Un po’ di midolla e nulla più. Ma quel poco è più delizioso del molto di ogni altra cosa, perché la midolla è alimento elaborato da natura a perfezione, come dice Galeno (III, Facult. Nat. e XI, De usu partium).

    All’esempio del cane vi conviene esser saggi nel fiutare assaporare e giudicare questi bei libri d’alto sugo, esser leggeri nell’avvicinarli, ma arditi nell’approfondirli. Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l’osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d’esservi fatti destri e prodi alla detta lettura.

    In essa troverete ben altro gusto e più ascosa dottrina la quale vi rivelerà altissimi sacramenti e orribili misteri su ciò che concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica.

    Credete per davvero che scrivendo l’Iliade e l’Odissea, Omero pensasse mai alle allegorie che dall’opera sua hanno scombiccherato Plutarco, Eraclide Pontico, Eustazio, Fornuto e ciò che da loro ha rubacchiato il Poliziano? Se ciò credete, non v’accostate né punto né poco alla mia opinione, la quale dichiara Omero aver pensato a quelle allegorie così poco quanto Ovidio poté pensare ai sacramenti dell’Evangelo, come s’è sforzato di dimostrare un tal frate Lubino² vero pappalardo, per vedere se trovasse mai per avventura dei pazzi come lui, ossia «coperchio degno della pentola», come dice il proverbio.

    E se non sono in Omero perché in queste allegre e nuove cronache avrebbero a essere misteri ai quali, dettandole, pensavo su per giù quanto voi, che probabilmente stavate bevendo al par di me?

    Alla composizione di questo libro sovrano non perdetti né occupai altro, né maggior tempo, di quello assegnato alla mia corporal refezione; scrissi cioè, bevendo e mangiando. Questa è infatti l’ora più giusta per scrivere di alte materie e scienze profonde, come, a testimonianza di Orazio, ben facevano e Omero, modello degli scrittori, ed Ennio, il padre de’ poeti latini, benché un villano abbia detto che i suoi carmi sanno più di vino che d’olio.

    Altrettanto dei libri miei disse un briccone; merda alla faccia sua! Del resto l’odor del vino, quanto è più stuzzicante, esilarante, orante, più celeste e delizioso che l’odor d’olio! E se Demostene teneva a vanto si dicesse che più spendeva in olio che in vino, io maggior gloria trarrò se si dica che più spendo in vino che in olio. Onore e gloria sarà per me esser detto buon gottiere³ e buon compagnone, questa fama io godo in tutte le buone compagnie di Pantagruelisti, mentre a Demostene fu rimproverato da un malinconico, che le sue orazioni puzzassero come l’immondo strofinaccio d’un sudicio oliandolo.

    Pertanto interpretate ogni mio fatto e detto al giusto modo; abbiate in reverenza il cervello caseiforme che vi pasce di queste belle vesciche e a tutto vostro potere tenetemi sempre allegro.

    Ed ora spassatevela, gioie mie, e lietamente leggete il resto a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh! mie care teste d’asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere alla mia salute, e io vi renderò, ma subito, la pariglia.

    1 Alle gemme si attribuivano, fino al principio del secolo scorso, potenti virtù medicinali.

    2 Nomignolo che davasi a monaci dappoco. Qui pare alluda al domenicano inglese Thomas Walles, autore dell’opera Metamorphosis Ovidiana moraliter explanata.

    3 Nel testo: Gualtier. Questo nome proprio aveva assunto significato di uomo allegro, amante del gran bicchiere, del gotto.

    CAPITOLO I

    Della genealogia e antichità di Gargantua

    Per conoscere la genealogia e antichità dalla quale è disceso Gargantua, vi rimando alla grande Cronaca Pantagruelina¹ . Da quella apprenderete per disteso come i giganti nacquero in questo mondo e come per linea diretta da loro uscì Gargantua padre di Pantagruele; e non vi dispiaccia che ora me ne dispensi benché la cosa sia tale che quanto più fosse ricordata e tanto più piacerebbe alle signorie vostre, come assicura l’autorità di Platone (Philebo e Gorgia) e di Flacco, il quale dice esservi alcuni argomenti (come questo senza dubbio) che più dilettano quanto più di frequente ripetuti.

    Piacesse a Dio che ciascuno conoscesse con certezza la propria genealogia dall’arca di Noè fino ai giorni nostri! Io penso che parecchi sono oggi imperatori, re, duchi, principi e papi sulla Terra, i quali discendono da qualche questuante o facchino. Come per converso molti sono accattoni, meschini e miserabili i quali discendono da sangue o lignaggio reale e imperiale, considerate le straordinarie trasmissioni di regni ed imperi dagli Assiri ai Medi, dai Medi ai Persiani, dai Persiani ai Macedoni, dai Macedoni ai Romani, dai Romani ai Greci² e dai Greci ai Francesi.

    E tanto per dirvi di me che vi parlo, io credo essere disceso da qualche ricco re o principe del tempo andato. Infatti mai non vedeste uomo più inclinato e più disposto di me a esser re e ricco, per potere far baldoria, star senza lavorare, senza preoccupazioni e arricchire i miei amici e tutte le persone sapienti e dabbene. Ma mi consolo pensando che lo sarò nell’altro mondo, e anche più che ora non osi sperare. Con tal pensiero, o migliore, consolatevi anche voi nelle vostre disgrazie e bevete fresco, se si può.

    Tornando a bomba vi dico che per sovrana grazia dei cieli l’antica genealogia di Gargantua ci è stata conservata più integra che altra mai, eccettuata quella del Messia, della quale non parlo, ché non è di mia pertinenza, e i diavoli inoltre (cioè i calunniatori e gl’ipocriti) vi si oppongono. Fu trovata da Jean Andreau in un prato che possedeva presso l’arco Gualeau³ , sotto l’Oliva, verso Narsay.

    Scavando i fossati, le vanghe degli zappatori urtarono in una gran tomba di bronzo, smisurata, che mai non ne trovavano la fine addentrandosi essa troppo avanti nelle chiuse della Vienne. Scoperchiatala, in un punto segnato con un bicchiere, intorno al quale era scritto in caratteri etruschi: Hic bibitur, trovarono nove fiaschetti ordinati allo stesso modo de’ birilli in Guascogna. Quello che stava nel mezzo copriva un grosso, grasso, grande, grigio, vezzosetto, piccioletto, ammuffito libretto, odorante più forte ma non meglio che rose.

    In esso fu trovata la detta genealogia scritta per disteso in lettere cancelleresche, non su carta, non su pergamena, non su tavolette cerate, ma su scorza d’olmo; tanto guaste tuttavia erano per vetustà le lettere, che appena se ne potevano decifrare tre di fila.

    Fui chiamato io (benché indegno) e con gran rinforzo d’occhiali, praticando l’arte colla quale si possono leggere lettere invisibili come insegna Aristotele, la tradussi e la potrete vedere, pantagruelizzando, vale a dire bevendo e a vostro agio leggendo le gesta orrende di Pantagruele⁴ .

    Alla fine del libro era un trattatello intitolato: Le fanfaluche antidotate. I topi e le tignole o (per evitar menzogna) altre maligne bestie, avevano brucato il principio: il resto per reverenza dell’antichità l’ho accomodato e trascritto qui sotto.

    1 Vedi libro

    II

    , cap. 1.

    2 Bizantini, intende.

    3 Questo e i seguenti sono nomi di località della Turenna, vicine a Chinon, patria del R.

    4 Detta genealogia è contenuta infatti nel capitolo primo del Pantagruele.

    CAPITOLO II

    Le fanfaluche antidotate¹ trovate in un monumento antico

    ,…O… nuto il gran domator dei Cimbri

    :  :  vie dell’aria, per paura della rugiada,

    sua venuta traboccarono gli abbeveratoi

    :  !  burro fresco giù piovente a ondate.

    del quale quando la gran madre fu innaffiata,

    Gridò a gran voce: «Messeri, pescatelo di grazia,

    Ché la sua barba è quasi tutta inzaccherata:

    O per lo meno reggetegli una scala».

    Diceano alcuni che leccar la sua pantofola

    Era meglio che penar per le indulgenze;

    Ma sopravvenne un briccon matricolato,

    Uscito dal buco dove si pescano i ghiozzi,

    Il quale disse: «Messeri guardiamocene, per Dio,

    L’anguilla c’è e si nasconde in questo banco.

    Vi troverete (se scrutiamo ben da presso)

    Una gran macchia in fondo alla mozzetta».

    Quando fu pronto a leggere il capitolo,

    Non vi trovò che le corna d’un vitello.

    «Io sento (egli dicea) in fondo alla mia mitria

    Sì freddo da gelarmisi il cervello».

    Lo riscaldarono con fomenti di navone.

    E fu contento di starsi al focolare

    Purché si desse un nuovo caval da stanghe

    A tanta gente dal carattere bisbetico.

    Discorsero del pozzo di San Patrizio,

    Di Gibilterra e di mille altri buchi,

    Per veder se si potessero cicatrizzare,

    Così che più non avesser tosse;

    Poiché sembrava a tutti non pertinente

    Vederli così sbadigliare ad ogni vento.

    Se per avventura fossero chiusi ammodo

    Si potrebbero darli per ostaggio.

    Ciò stabilito, il corvo fu pelato

    Da Ercole che veniva dalla Libia.

    «Ché?», disse Minosse, «perché non vi sono chiamato anch’io?

    Tutti sono invitati eccetto me;

    E poi vogliono che passi la mia voglia

    Di fornirli d’ostriche e ranocchie.

    Che il diavolo mi porti se in vita mia

    Io più m’assumo di vendere le loro conocchie».

    Per domarli sopravvenne Q.B. lo zoppo,

    Col salvacondotto de’ graziosi stornelli.

    Lo stacciatore, cugino del gran Ciclope,

    Li massacrò.

    Ciascuno si soffi il proprio naso;

    In questa terra pochi sodomiti nacquero

    Che non siano stati messi alla gogna sul mulino del tannino

    Corretevi tutti e sonate l’allarme:

    Ci guadagnerete più che non ci guadagnaste mai.

    Ben poco appresso, l’uccel di Giove

    Deliberò scommettere pel peggio;

    Ma vedendolo tanto corrucciarsi

    Temé che si mettesse sossopra a ferro e a fuoco l’impero

    E preferì il fuoco del cielo empireo

    Rapire al tronco dove vendonsi le arringhe affumicate,

    Piuttosto che l’aria serena contro cui si cospira,

    Assoggettare ai detti dei Massoreti.

    Tutto fu concluso con punta affilata

    Malgrado Ate, dalle cosce aironesche,

    Che là sedette vedendo Pantesilea

    Scambiata nei suoi vecchi anni per venditrice di crescione.

    Ciascun gridava: «O brutta carbonara,

    Ti s’addice trovarti per la strada;

    Tu la prendesti la romana bandiera

    Che avevan fatto con orli di pergamena».

    Se non era Giunone, che sotto l’arcobaleno

    Col suo gufo sulla gruccia badava a richiamar gli uccelli,

    Le avrebbero giocato un tiro birbone,

    ché sarebbe stata conciata per le feste.

    L’accordo fu che di quel boccone

    Ella avrebbe avuto due uova di Proserpina;

    E se mai ella vi fosse stata presa,

    Si legherebbe al monte dell’Albaspina.

    Sette mesi dopo, meno ventidue

    Colui che un giorno annichilì Cartagine

    Cortesemente s’interpose tra di loro

    Chiedendo la sua eredità;

    Oppure che giustamente facessero le parti

    Secondo la legge bene ribadita

    Distribuendo un tantino di zuppa

    Ai suoi facchini che fecero il brevetto.

    Ma verrà l’anno segnato da un arco turchesco,

    Da cinque fusi e tre culi di marmitta,

    Nel quale il dorso d’un re poco cortese,

    Sarà pepato in abito d’eremita.

    Oh qual pietà! Per un’ipocrita

    Lascerete inabissarsi tanti campi?

    Basta, basta! Questa maschera non imita alcuno:

    Ritiratevi dal fratello dei serpenti.

    Passato quest’anno, colui che è, regnerà

    Tranquillamente coi suoi buoni amici.

    Né affronti, né oltraggi allora domineranno

    Tutto il buon volere avrà il suo compromesso.

    E la gioia che fu già promessa

    Alle genti del cielo, verrà nella sua torre.

    Allora gli stalloni che erano costernati

    Trionferanno come palafreni regali.

    E durerà questo tempo di mistificazione

    Finché Marte abbia le catene:

    Poi uno ne verrà superiore ad ogni altro,

    Delizioso, piacevole, bello senza paragone.

    In alto i cuori, accorrete a quel banchetto

    Voi tutti, o miei fedeli: poiché tale è morto

    Che non tornerebbe per qualsiasi bene

    Tanto sarà lodato allora il tempo che fu.

    Finalmente colui che fu di cera

    Sarà alloggiato ai cardini di Jaquemart² .

    Più non sarà richiamato: «Sire, Sire»,

    Lo scampanatore che tiene la pentola.

    Ah chi potesse atterrare la sua daga!

    Scomparirebbe il rombare dei cappucci;

    E si potrebbe con un buon spago

    Chiudere tutto il magazzino degli abusi³ .

    1 Il testo del poemetto che costituisce questo capitolo è in ottave di versi decasillabi rimati:

    ABABBCBC

    . Il tr. non ha mantenuto metro, versi e rime non tanto per girare un ostacolo, quanto per non defraudare il lettore d’alcuna delle bellezze quintessenziali del simbolismo rabelesiano che, in quella specie di transazione ch’è quasi sempre una versione metrica vanno irremissibilmente sacrificate. Fedeltà sopratutto! Solo una scrupolosa fedeltà può aiutare l’acuto lettore (degli ottusi non mi curo) a penetrare questa Minerva oscura (v. nota alla fine del capitolo).

    2 È il nome dato in Francia a quelle statue meccaniche che battono le ore agli orologi dei campanili.

    3 Avete capito niente? Bravissimi. Il R. (e il tr. con lui) non altro si proponeva, con questa innocente mistificazione, se non di vedere che faccia faranno i lettori che ci cascano. Quelli cioè – e sono tanti – che prendono sul serio le cose dette per burla e si affannano a rileggere e meditare di chiarire il crepuscolo d’un ermetismo insussistente.

    CAPITOLO III

    Come qualmente Gargantua fu portato per undici mesi

    nel ventre materno

    Grangola era un buon burlone al tempo suo e amava bere schietto e mangiar salato quant’altri al mondo. A tal uopo teneva ordinariamente buona munizione di prosciutti di Magonza e di Baiona, moltissime lingue di bue affumicate, abbondanza di biroldi alla loro stagione, bue salato con mostarda; poi rinforzo di bottarga, una provvista di salsicce ma non di Bologna (non si fidava a’ bocconi de’ Lombardi) ma di Bigorra, di Lonquaulnay, de la Brenne e di Rouargue.

    Giunto all’età virile sposò Gargamella, figlia del re dei Parpaglioni, bella traccagnotta e di bel mostaccio.

    E facevano spesso insieme la bestia a due schiene fregandosi allegramente il loro lardo, sicché ella ne ingravidò d’un bel maschio che portò fino all’undicesimo mese.

    Tanto infatti, e anche più, può durar la gravidanza delle donne, massimamente quando trattisi di qualche capolavoro, di personaggio che debba compiere nel tempo suo grandi prodezze. Così Omero dice che il fanciullo di che Nettuno ingravidò la ninfa¹, nacque dopo un anno compiuto, cioè il dodicesimo mese. Questo lungo tempo infatti (come dice Aulo Gellio, lib. III) conveniva alla maestà di Nettuno affinché quel fanciullo fosse formato a perfezione. Allo stesso intento Giove fece durare quarantotto ore la notte che giacque con Alcmena, poiché in meno tempo non avrebbe potuto fucinare Ercole che purgò il mondo da tanti mostri e tiranni.

    I signori Pantagruelisti antichi hanno confermato ciò ch’io dico ed hanno dichiarato non solo possibile ma anche legittimo il fanciullo nato dalla vedova l’undicesimo mese dopo la morte del marito.

    Vedi infatti. Ippocrate, lib. De alimento.

    Plinio, Hist. Nat. lib. VII, Cap. V.

    Plauto, Cistellaria.

    Marco Varrone, nella satira intitolata Il testamento, allegante l’autorità di Aristotele a questo proposito.

    Censorino, lib. De Die natali.

    Aristotele, lib. VII, cap. III e IV. De Natura animalium. Gellio, lib. III, cap. XVI.

    Servio, in Egl. esponendo questo verso di Virgilio:

    Matri longa decem ecc.

    E mille altri pazzi, il numero dei quali è stato accresciuto dai legisti. Vedi infatti: Digesto; De suis legitimis heredibus, lege intestato, paragrafo finale.

    E nelle Authenticae, il par. De restitutionibus et ea quae parit in undecimo mense post mortem viri.

    Inoltre ne hanno scombiccherato le loro rodilardiche leggi, Gallo, De liberis et postumis heredibus ecc. e nel libro settimo del Digesto; De statu hominum, e qualche altro che non oso nominare.

    Grazie alle quali leggi le vedove possono bravamente esercitarsi al gioco di stringichiappe a tutto spiano e senza rischio fino a due mesi dopo la morte del marito. E però vi prego in cortesia, voialtri miei buoni bagascieri, se ne trovate qualcuna che metta conto di sfoderarci l’arnese, saltateci addosso e menatemela qui. Poiché se al terzo mese esse ingravidano, il figlio sarà erede del defunto. E, accertata la gravidanza, forza, coraggio, e avanti, e voga, e dagli, ché, tanto, la pancia è già piena!

    Così Giulia, figlia dell’imperatore Ottaviano, non si abbandonava ai suoi stamburatori se non quando si sentiva gravida, a mo’ dei piloti che non montano a bordo se prima la nave non è calafatata e carica.

    E se taluno le biasimi di farsi rotainconniculare gravide, laddove le bestie pregne non sopportano maschio maschioperante, esse risponderanno che le bestie son bestie e che esse son donne le quali bene intendono i belli e allegri minuti piaceri della superfetazione come già rispose Populia a quanto ci riferisce Macrobio (lib. II, Saturnali).

    E se il diavolo non vuole che impregnino, tagli le cannelle e tappi tutti i buchi.

    1 La ninfa Tyro.

    CAPITOLO IV

    Come qualmente Gargamella, gravida di Gargantua,

    fece una spanciata di trippe

    L’occasione e il modo come Gargamella partorì fu il seguente, e gli scappi il budello culare a chi non crede! Il budello culare le uscì fuori un dopopranzo, 3 di febbraio, per aver fatto una scorpacciata di estapingui. Estapingui sono grasse trippe di manzi: manzi sono i buoi ingrassati alla greppia e al pascolo dei prati bisettili; e prati bisettili sono quelli che danno due tagli d’erba all’anno. Di que’ manzi ne avevano fatti macellare trecento settantasettemila e quattordici per metterli in sale il

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