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Fino all’ultimo battito
Fino all’ultimo battito
Fino all’ultimo battito
E-book447 pagine6 ore

Fino all’ultimo battito

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Info su questo ebook

Una sera di febbraio, una giovane donna viene uccisa e gettata nel canale della Vettabbia, a Milano. Il suo nome è Clarissa Gandini, una professoressa con una vita spoglia e priva di legami. Il vicequestore Guido Valenti, chiamato a risolvere il caso, scopre che la donna celava un’ossessione: Clarissa ha vissuto gli ultimi quindici anni cercando senza sosta l’assassino della sorella maggiore, Ilaria, uccisa in un assolato pomeriggio di luglio insieme a un uomo più grande e a un bambino. Un delitto spietato, senza movente e senza colpevole. Tocca a Guido sbrogliare la matassa ingarbugliata di eventi e dare voce alle vittime, che da quindici anni chiedono di raccontare la loro storia. Il vicequestore capisce subito che se vuole sapere chi ha ucciso Clarissa Gandini deve scoprire prima chi ha assassinato la sorella, ricostruire eventi lontani del tempo, protetti dagli anni e dai segreti, scegliere i suoi alleati e riconoscere chi gli è amico e chi non lo è. Per farlo, però, deve combattere la sua personale ossessione, guardandosi dentro, e fronteggiare i suoi demoni. Solo allora sarà capace di ricostruire i passi dell’assassino.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2023
ISBN9788892967694
Fino all’ultimo battito

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    Anteprima del libro

    Fino all’ultimo battito - Ida Sassi

    MISTÉRIA

    frontespizio

    Ida Sassi

    Fino all’ultimo battito

    ISBN 978-88-9296-769-4 

    © 2023 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto

    tu l’hai sciupata su tutta la terra.

    Constantinos Kavafis, La città

    Parte prima

    Caduta

    Prologo

    Venerdì 9 luglio 2004

    Il ragazzo è seduto sul ramo più alto e non sa che il futuro gli sta correndo incontro a centoventi chilometri orari, non sa che tra un attimo lo raggiungerà e lo porterà via per sempre dall’infanzia.

    Con la schiena appoggiata al tronco, è felice di essere arrivato in cima, e anche se gli piacerebbe essere in compagnia invece di giocare da solo, assapora l’orgoglio della propria agilità. Non ha paura, a cavallo sul ramo robusto, all’ombra del fogliame che lo protegge dal sole di un pomeriggio d’estate.

    L’ora più calda è trascorsa e una brezza lieve, insolita nella campagna lombarda, rende il momento piacevole. Sarebbe stato sufficiente scegliere un altro albero, o un altro ramo, lì dove il grosso tronco si biforca.

    Per anni, per tanti anni, il ragazzo ripenserà a questo pomeriggio, all’istante in cui tutto è cambiato. Il rumore violento delle ruote sull’asfalto invade lo spazio, distrugge il silenzio, la pace, il frinire delle cicale. Il ragazzo sussulta e non ha il tempo di chiedersi cosa stia accadendo. Solo molto più tardi, quando potrà ripensarci con calma, giudicherà incomprensibile la velocità dell’auto, del tutto inadeguata alla stretta strada di campagna. Ora è un bambino spaventato che sente lo stridore dei freni mentre l’auto bianca entra all’improvviso nel suo campo visivo e va a schiantarsi con un boato contro il muro della casa.

    Il passato non diventa mai passato, e il ragazzo continua a guardare da quell’albero per tutta la vita, anche nei sogni.

    Non riesce a fare altro, aggrappato al ramo tra le foglie, immobile, sgomento. L’auto colpisce la casa sul bordo della strada con la parte sinistra del cofano. Il conducente ha perso il controllo e la vettura è finita sull’altra corsia. Se fosse in grado di riflettere, il ragazzo si renderebbe conto che l’auto deve aver tagliato la strada in diagonale prima dell’urto, poiché l’albero e la casa si trovano contromano rispetto al senso di marcia del veicolo. Ma non è in grado di pensare. Dalla sua posizione, vede perfettamente l’ampio parabrezza, e il suo cuore, che già batteva furiosamente dopo lo schianto, è messo a dura prova dalla visione del sangue sul viso dell’uomo al posto di guida. Sconvolto, il ragazzo tiene stretto il ramo per non cadere ma non distoglie lo sguardo, attratto dall’orrore.

    Il conducente è piegato sul volante. L’airbag non si è aperto. L’uomo muove la mano destra e solleva faticosamente il capo. Il sangue cola sulla guancia e sul collo, impregna la camicia bianca.

    Ora l’uomo riesce a tenere dritta la testa ferita, apre gli occhi.

    Il ragazzo lo fissa con intensità smisurata. Deve agire, deve fare qualcosa, deve superare la paura e aiutare quell’uomo. Ma cosa può fare? Ha dodici anni, non possiede un cellulare, si trova in aperta campagna, non ci sono case o fattorie nei dintorni. La costruzione contro cui si è schiantata l’auto è un vecchio edificio in rovina. Può correre a casa per telefonare e chiamare qualcuno.

    Anche se ci vorrà almeno mezz’ora, non c’è altro che lui possa fare quindi lo farà, correrà a casa. In quell’istante, vede la portiera posteriore socchiudersi lentamente, dalla parte del muro, dietro il conducente, ma non riesce a distinguere l’altro passeggero, mentre un’auto si ferma e un uomo attraversa la strada di corsa, con una piccola borsa in mano.

    I soccorsi, finalmente.

    Il ragazzo respira, fiducioso, ed entra per sempre nel terrore.

    1

    Martedì 8 gennaio 2019

    Da ragazzo, il suo mito era Robinson.

    Amava rileggere e sfogliare le pagine del libro, un’edizione ridotta, con grandi illustrazioni a colori. Le ricorda ancora. Il naufragio, la nave distrutta, l’uomo solo sull’isola lontana, barbuto, dall’aspetto selvaggio, le armi rudimentali legate alla cintura.

    Il suo sguardo infantile si fermava a lungo sull’ultima immagine, a pagina intera. Robinson Crusoe è tornato a York, è irriconoscibile, ben vestito, elegante in un abito di velluto azzurro come il mare, e siede in quella che fu la casa paterna in una posa languida, volgendo le spalle alla città operosa che si intravede dalla finestra. La mano sfiora il mappamondo, e gli occhi pieni di nostalgia ripensano alla sua isola.

    Così, oggi, mentre scende la sera, e Isabella stanca dorme sul divano azzurro, il vicequestore aggiunto Guido Valenti cammina per il bilocale in via Sannio con la figlia tra le braccia, sognando qualcosa che non sa.

    Ormai è quasi buio nel soggiorno con angolo cottura dell’appartamento di Isabella. Guido non accende la luce, accontentandosi dell’incerto chiarore che giunge dalla strada. Potrebbe adagiare la piccola nella culla e invece continua ad andare avanti e indietro, inquieto.

    Conta i passi, conta gli anni. Ne aveva dodici quando aveva letto Robinson per la prima volta. Sono passati ventotto anni, ventotto, come quelli trascorsi da Robinson sull’isola. Lo affascinava l’ostinazione del naufrago a organizzare lo spazio e il tempo. Lo aveva avvinto la sua solitaria tenacia, non l’avventura o il richiamo dei mondi sconosciuti.

    Strano che stasera pensi a Robinson Crusoe, così lontano dalla sua vita nella città, lontano dalla sua personale inquietudine. Guido non prova mai la tentazione di abbandonare Milano, e ancora meno gli passa per la mente l’idea di lasciare il suo lavoro, che ormai fa parte del suo dna.

    Rimpiange la sua isola, la sua casa, via Tantardini, è lì che vuole tornare.

    La sua isola.

    Il pensiero è apparso nel buio come se lo leggesse, formulato con esplicita chiarezza, come se le parole vivessero una vita autonoma e indipendente, incontrollabile.

    Guido non ha l’abitudine di interrogarsi sui propri stati d’animo. Trascorre le giornate correndo da un impegno all’altro, riflette sui problemi che il lavoro gli sottopone, argina le emozioni e possibilmente le allontana.

    Avrebbe dovuto mettere la bimba nella culla e leggere, oppure lavorare, rivedere il rapporto inviato dall’ispettore Taddei sulle truffe ai danni degli anziani soli. È stato un errore camminare con la figlia in braccio nella penombra, lasciarsi andare alla tenerezza e ai ricordi. Sì, è colpa del buio.

    Matilde si muove, è sveglia, e lancia piccoli richiami.

    Isabella apre gli occhi.

    «Perché non accendi la luce?»

    «Non lo so. Matilde è sveglia, ma non piange. Tu hai dormito un po’?»

    L’imbarazzo per la banalità delle parole che pronuncia lo assale, ma ha il viso in ombra e forse lei non se ne accorge.

    «Sì, ho riposato. Ora sto bene, sto molto bene.»

    Isabella si alza, accende la luce e si avvicina alla piccola per farle una carezza.

    «Com’è tardi! Se le do il latte ora, c’è speranza che non si svegli fino alle due, stanotte?»

    «Magari, sarebbe un bel progresso!»

    Isabella prende in braccio la figlia e si sistema sul divano.

    Guido si inginocchia vicino a loro e accarezza il viso di Matilde. Solleva gli occhi verso Isabella.

    «Diventa ogni giorno più bella, vero?»

    «Lo dici cento volte al giorno, Guido!» sorride lei, guardandolo teneramente.

    «Sì, hai ragione» Guido gioca con una manina della bimba. «Ma è una verità oggettiva! È meravigliosa, cosa ci posso fare se è così?»

    Isabella gli scompiglia leggermente i capelli.

    «Vi lascio tranquille, devo leggere una cosa che mi ha inviato Taddei» dice lui, alzandosi.

    Matilde è lenta a succhiare il latte, se la prende comoda, con i pugni stretti, la testolina appoggiata al braccio della mamma.

    Guido è seduto al tavolo, davanti al portatile aperto. Sembra immerso nel lavoro. Anche Isabella è più bella del solito, stasera. Non ha l’aria stravolta, il viso stanco, l’espressione sofferente. Ora sto bene, sto molto bene. Guido rivede in un lampo i giorni trascorsi dopo la nascita della piccola, giorni faticosi e incerti, Matilde che piangeva, Isabella sfinita, lui che oscillava tra il timore che la bambina stesse male e la consapevolezza di dover essere rassicurante. I primi tempi li hanno messi duramente alla prova. Lunghe notti in cui non si chiudeva occhio seguite da altre notti ancora uguali, sempre più lunghe. Ora, a confronto, le cose sembrano meravigliosamente semplici.

    Nello spazio di pochi giorni, una settimana forse, ci sono stati cambiamenti che non osavano più aspettarsi. La piccola li guarda, comunica e, soprattutto, chissà come, ha smesso il pianto continuo che li stremava. A volte dorme, persino! E lascia ai genitori stupiti qualche minuto per recuperare le forze e ricordare che esiste una vita quasi normale.

    Stasera Isabella è diversa, pensa Guido, ritrovando il turbamento, la sensazione di smarrimento provata dal primo istante in cui l’ha conosciuta.

    Abituato a osservare ogni particolare, Guido nota che Isabella è riposata, il viso fresco, gli occhi con un’ombra di trucco, e indossa un semplice abito invernale lungo, a portafoglio, che lascia vedere le gambe seguendo i suoi movimenti. Quando ha comprato quell’abito? Non gliel’ha mai visto prima.

    Immerso nei suoi pensieri, non si accorge che Matilde ha finito di mangiare già da un po’. Isabella si alza e porta la piccola verso la culla.

    «Non sarebbe meglio cambiarla?» dice lui.

    Isabella esita. Poi gli sorride, parla a voce bassa.

    «Si è addormentata, la cambio dopo» e lo guarda.

    C’è tutto in quei profondi occhi neri, c’è la promessa di una vita.

    Anche lui la guarda senza dire niente.

    Isabella fa pochi passi verso la camera da letto e adagia dolcemente Matilde nella culla.

    Guido ha indossato cappotto e sciarpa.

    «Devo andare. Un problema in commissariato. Farò il possibile per tornare presto.»

    «Non ti preoccupare» dice lei, in piedi sulla porta della stanza, il viso diventato grigio.

    Guido esce dopo aver preso il portatile e il telefono.

    Fa freddo dopo mezzanotte, a gennaio, a Milano. Guido prende un berretto dalla tasca, lo indossa e cammina. Domani mattina tornerà per occuparsi della figlia.

    Percorre a passo sostenuto la strada da via Sannio fino a via Tantardini, e torna a casa.

    2

    Lunedì 18 febbraio 2019

    Cade, sta cadendo, cade sempre più velocemente, non era così che doveva andare, sa di aver sbagliato ma non sa dove, non riesce a tornare indietro, allarga le braccia ma non serve, cade, è buio, ha perso qualcosa di vitale.

    Isabella si sveglia di colpo e si siede nel letto. Dov’è la bambina? Eccola, è nella culla. Matilde dorme con le braccia sollevate e i pugni chiusi, la boccuccia leggermente aperta. Isabella si domanda cosa le stia succedendo. Di solito, non le capita di fare sogni spaventosi. È una donna forte ed equilibrata, lei. Si china a controllare la figlia. La bimba sta bene, riposa tranquilla.

    Isabella respira a lungo mentre la sensazione del sogno si attenua lasciando un’ansia oscura che non le appartiene. Sono le 6.20. Si alza in fretta e va in soggiorno.

    Prepara la colazione. Non le è rimasto altro del breve passaggio di Guido nella sua vita, l’abitudine a fare colazione. Isabella si siede a tavola, beve l’unica tazza di caffè della giornata, mangia lo yogurt con la frutta. C’è silenzio nell’appartamento ma, spinta da un’insolita inquietudine, torna a controllare la bambina, che dorme nella stessa posizione di prima. Deve tranquillizzarsi, è un’occasione rara avere tanto tempo per sé.

    Ne approfitta per farsi una doccia. La casa è piccola, se Matilde piange la sentirà subito. Comunque, gli ululati di Matilde si sentirebbero anche se vivesse in un castello.

    Sono le 7.15 quando Lucia le telefona.

    «Ciao bella, come state?»

    «Benissimo!» risponde Isabella a bassa voce. «Oggi è un giorno speciale. Titti dorme ancora!»

    «Non ci posso credere, sta diventando grande il mio tesoruccio. Ti va se passo a darle un bacio? Tra dieci minuti sono lì, io sono pronta! Lorenzo si alza alle sei.»

    Il sovrintendente Lucia Piccinni è puntuale e citofona dieci minuti dopo. Matilde si è svegliata ma non protesta, è di buon umore, ride e sgambetta accettando le carezze di Lucia.

    «Perché la cambi ora e non dopo mangiato?» chiede Lucia, attenta. «Non puoi aver fatto in tempo ad allattarla dopo che ti ho chiamato.»

    «Certo che no, ci mette un’ora a mangiare, altro che dieci minuti! Ma l’ho cambiata alle quattro e se la pelle si arrossa è peggio. Come mai ti informi, tu e Lorenzo fate programmi?»

    «Lui vorrebbe, ma io resisto! Alle quattro? A tre mesi e mezzo devi cambiarla a metà della notte?»

    «Per forza, è piccola, si sveglia due o tre volte in media, se va bene, mangia, piange e via dicendo. Stanotte è stato un prodigio, ha mangiato solo una volta, ma di solito non va così.»

    Matilde lancia qualche urlo preparatorio, come una cantante che schiarisce la voce.

    «Andiamo» dice Isabella. «Se non le do il latte subito, avremo un assolo che manco la Callas. Tu fatti un caffè se ti va, quello nella caffettiera sarà freddo.»

    «Ma no, è ancora bevibile.» Lucia aggiunge, sedendosi sul divano: «Scusa se ti ho rifilato questa seccatura, ma quel lazzarone di Jacopo ha preso una pagella che fa schifo. Tre insufficienze gravi e altre materie sul filo del rasoio. Siamo a febbraio!».

    Isabella annuisce, distratta. Contempla la figlia, travolta dall’incanto di un amore indicibile, un amore che cresce giorno dopo giorno, inimmaginabile. Lucia prosegue, descrivendo la disastrosa situazione scolastica del nipote.

    «Se lo bocciano in terza liceo scientifico, mia sorella lo strozza. C’è da sperare che lui si renda conto di essere a rischio. Per ora, ha accettato di prendere qualche lezione. Matematica siamo a posto. Sei riuscita a parlare con la tua amica? Jacopo ha tre in chimica, e gente che dia ripetizioni di chimica non se ne trova.»

    «Non è un’amica, Lucia. Veniva al liceo con me, e me la ricordo appena.»

    «Ma dai, non sono passati neppure vent’anni, che stai dicendo?»

    «Eppure è così, mi ricordo solo il nome, Clarissa Gandini. Non la frequentavo, era una strana, peggio di me. Comunque, non è questo il problema.»

    «Non ci voleva. Jacopo ha una verifica giovedì, va a finire che prenderà un altro tre.»

    «Da oggi fino a giovedì non avrebbe potuto migliorare molto.»

    «Poteva prendere quattro» sbuffa Lucia. «Non mi hai detto qual è il problema.»

    «Sei tu che mi fai perdere il filo. Non ho concluso niente perché il cellulare di Clarissa è spento da venerdì sera. Pensavo che non volesse essere disturbata durante il fine settimana ma mi sembra eccessivo che non l’abbia ancora acceso.»

    Isabella si interrompe per occuparsi di Matilde. Nulla è più come prima, pensa.

    Il primo pensiero è la figlia. In ogni momento, in ogni istante, di giorno, di notte, quando la vede e ancora di più quando non la vede. La sua priorità assoluta è Matilde.

    L’amica si alza e si avvicina al tavolo.

    «Posso usare il computer? Questo fatto non mi piace. Una donna che insegna in un liceo non ha motivo di spegnere il telefono durante il fine settimana, e men che meno di avere due cellulari. Non è una diva, è una come noi, da cosa dovrebbe nascondersi? Do un’occhiata al sito della scuola per vedere il suo orario.»

    Rimangono in silenzio per qualche minuto.

    «Ha il lunedì libero, e il sabato comincia alle 8.10» continua Lucia, dopo una breve ricerca. «Non mi convince lo stesso. Forse è andata via per un weekend lungo, è partita sabato pomeriggio e torna a Milano stasera. Ma perché spegnere il cellulare?»

    «Fidanzato assillante? Relazione clandestina? Comunque è strano. In vacanza tu spegni? Io no» concorda Isabella.

    «Neppure io, ma forse ci stiamo preoccupando come due stupide. Sarà deformazione professionale» sorride Lucia. «Magari il telefono è caduto e si è rotto, che ne sai?»

    Isabella annuisce. Lucia non si muove, il mento sulla mano.

    «Forse ho sbagliato» dice Isabella. «Venerdì era su WhatsApp, ma io ho rimandato, mi sono detta che sarebbe stato meglio chiamarla sabato. Escludo che tenga il telefono spento per tutto questo tempo. Più tardi cercherò il suo indirizzo.»

    «Non stancarti. Con la scusa di mio nipote, che poi non è una scusa, lo chiedo a Taddei. Poi, cosa me ne faccio?»

    «A una certa ora, ti liberi e facciamo un giro.»

    «E Titti?»

    «Mando un messaggio a Elisa, lei è contenta di stare un paio d’ore con la nipotina, aspetta un attimo che le scrivo.»

    Matilde ha smesso di succhiare e gira la testolina con decisione. Isabella sposta la piccola appoggiandola alla spalla e intanto scrive un messaggio alla madre di Guido. Elisa risponde subito, scrivendo che è libera e sarà da lei verso le 11.30.

    «Isabella, mi nascondi qualcosa? Hai provato a localizzare il telefono e sospetti cose strane? Con te non si può mai dire, sai sempre cose che non sa nessuno!»

    Isabella cammina per il soggiorno con la bimba appoggiata alla spalla.

    «Lucia, qualche dubbio ce l’ho. Non dico che sia successo chissà cosa. L’hai detto tu, forse il telefono si è rotto e Clarissa ne ha comprato un altro. Però, che ci costa? Ci mettiamo il cuore in pace e ci facciamo un giro. Elisa ha risposto che è felicissima, Matilde ha tre mesi e mezzo, posso lasciarla un’oretta con la nonna!»

    «Allora dillo che vuoi uscire, io sono contenta di andare a mangiare con te come ai vecchi tempi.» Lucia sorride, ma si vede che non sa cosa pensare. «Ti scrivo appena ho l’indirizzo. Passo a prenderti io.»

    Lucia le telefona quando manca poco a mezzogiorno, proponendo di andare in macchina. Isabella accetta la proposta. Si sofferma a scambiare qualche parola con Elisa, che tiene in braccio Matilde. Non è più contenta di uscire, il desiderio è sfumato lasciando un leggero malumore. Il sospetto intorno a Clarissa e al suo cellulare le sembra un’idea assurda e ridicola, e vorrebbe rimanere a casa con la sua bambina che sta facendo un recital di vezzi e vocalizzi uno più bello dell’altro.

    Isabella è abituata a riflettere sui propri stati d’animo, ma quello che le accade negli ultimi mesi è troppo intenso e troppo veloce. Non ha il tempo e la forza di analizzare il rapido susseguirsi delle emozioni, gli enormi cambiamenti di quello che prova. A volte, frammenti della vita precedente tornano alla memoria all’improvviso, carichi di insostenibile nostalgia. Altre volte, invece, la vita in commissariato, le lunghe ore al computer, le sembrano appartenere a un passato lontano, a una donna estranea.

    Elisa sospira e la guarda con tenerezza.

    «Capita sempre così con i figli piccoli» dice, con il solito tono deciso, leggermente brusco. «Quando piangono, strillano, fanno capricci, non li sopporti e non vedi l’ora di rifilarli a qualcuno, di andare in un posto dove ci sia silenzio e dove si possa leggere, bere un caffè in pace, o fare qualunque cosa normale, e poi, al momento di lasciarli, ti si spezza il cuore, anche perché loro sono astuti e lo fanno apposta, diventano teneri, dolci, fanno le moine…»

    Isabella sorride, sentendosi un po’ sciocca.

    «Vai, vai…» continua Elisa «questo è solo l’inizio! Quando crescono, è peggio.»

    Dopo aver riempito la piccola di baci, Isabella si decide a uscire. Entra in macchina.

    «Abita in via Altaguardia» annuncia Lucia.

    «Ma è vicino, perché non andiamo a piedi?»

    «Perché il telefono di Clarissa è ancora staccato. Mi hai fatto venire l’ansia.»

    Lucia imbocca la rotonda e percorre corso Lodi. Svolta a sinistra e prende via Piacenza, attraversa via Crema, segue via San Rocco, si infila al volo in un parcheggio libero.

    «Scendi, è la prima a destra, meglio che non vedano la macchina. C’è la portineria dalle nove alle tredici e dalle quindici alle diciotto» dice, mentre camminano in via Altaguardia.

    «Come fai a saperlo?»

    «Sono passata a dare un’occhiata e ho controllato il citofono. Potremmo dire che siamo due colleghe di Clarissa preoccupate. Copriti la faccia con la sciarpa.»

    «Eh?»

    «Isabella, ho un brutto presentimento. Se è successa una cosa grave, arriveranno i nostri colleghi e faranno un sacco di domande. Una faccia come la tua, il portiere non se la dimentica. Che sia un uomo o una donna, per motivi diversi, senti a me, Isabella, copriti. Meno ti vede, meglio è. Anche con mezza faccia coperta, ti noterà per forza, è inevitabile. In questi mesi, ho fatto caso alle reazioni della gente quando ti vede e ho capito tante cose.»

    «Tu dici portiere?» interrompe Isabella, un po’ imbarazzata, per cambiare discorso.

    «Perché, tu come dici?»

    «Portinaio.»

    «Isabella, da ragazza io ho vissuto a Bari. Portiere, portinaio, custode! Ti sembra il momento di fare questi discorsi?»

    C’è un bel sole invernale, e i passanti approfittano dell’aria insolitamente tiepida per camminare sul marciapiede pieno di luce con il cappotto aperto, la sciarpa svolazzante. Le due amiche osservano le basse palazzine che costeggiano la strada.

    «Clarissa abita qui.»

    «Bella questa casa, che eleganza!» esclama Isabella, abbandonando la questione linguistica e ammirando il giallo della facciata a due piani, ristrutturata da poco con molta cura. «Cosa sai di Clarissa?»

    Lucia scuote il capo.

    «Niente. Ho chiesto l’indirizzo a Taddei, gli ho detto che cercavo una prof che non abitasse lontano. Ma se succede qualcosa, anche lui si ricorderà di questo fatto, vedrai.»

    Isabella le mette una mano sul braccio.

    «Lucia, ci sarebbe una possibilità. Se fosse andata in ritiro spirituale? Ci sono dei posti in cui devi spegnere il telefono, devi lasciarlo a casa o consegnarlo.»

    «E io che ne so? Chi la conosce? Tutto è possibile, però è improbabile. Siamo venute fin qui, ormai, non sei curiosa?»

    «Certo!» risponde Isabella, decisa. «Chiudi il cappotto, altrimenti si vede l’arma.»

    Avvolge la sciarpa grigia in modo da coprire parzialmente il viso.

    «Parlo io» dice Lucia, guardandola scettica.

    Entra e si avvicina alla portineria, assumendo un tono grave, seguita da Isabella, che tace.

    «Buongiorno» si rivolge al portiere, seduto nella guardiola, dietro il vetro. «Sono la professoressa Piccinni e lei è la professoressa Contini, siamo colleghe di Clarissa Gandini. La dirigente ci ha chiesto la cortesia di informarci sulla salute della collega perché non risponde al telefono e neppure alle email e questo, lei capisce, è molto preoccupante.»

    «Ah sì, lo so! Stamattina è arrivata una multa per la signora, io le ho citofonato ma non è in casa.»

    «Non è possibile» interrompe Lucia, perentoria, «non è venuta a scuola e c’era una riunione importante. Deve essere in casa!»

    «Le dico di no, mi creda.»

    «Da quando non la vede?» chiede Isabella, decisa, pensando che Lucia inventa con una faccia tosta senza pari. Clarissa ha il lunedì libero, magari è a letto con un uomo e ha i suoi buoni motivi per non rispondere al citofono.

    Il portiere non si accorge del mutamento di tono.

    «Non ci ho fatto caso, direi da venerdì mattina.»

    «Oh mio Dio! Com’è possibile… e sabato? Non l’ha vista sabato?» Lucia alza la voce e carica l’intonazione, forse un po’ troppo.

    «No, ma la professoressa esce presto il sabato mattina, prima che io apra la portineria, non è strano che io non l’abbia vista» ribatte il portiere.

    «Ma al ritorno?» insiste Isabella.

    «No, sono sicuro. No, non l’ho vista per tutto il giorno.»

    Lucia tace, fissando l’uomo con una serie di espressioni ansiose, sospirando e portando la mano sul cuore.

    «Anzi…» aggiunge il portiere, titubante.

    «Le viene in mente qualcosa?» lo incoraggia Lucia.

    «Sto cercando di ricordare, ma… Sono sicuro di averla vista venerdì mattina, quando è uscita, perché sono stato, come dire, indiscreto.»

    L’uomo abbassa gli occhi per l’imbarazzo.

    «Clarissa è sposata? Fidanzata?» chiede Isabella. «Sa, il nostro istituto è molto grande e non sappiamo niente della vita privata dei colleghi. Il giorno prima era San Valentino. È successo qualcosa?»

    «Esatto. Il giorno di San Valentino è venuto il marito e si è fermato a salutarmi. La mattina di venerdì ho detto alla signora che mi aveva fatto piacere rivedere il professore.»

    «E lei?»

    «Lei ha detto una frase che non ricordo, ma il mio commento le ha dato molto fastidio. Insomma, avrei fatto meglio a farmi i fatti miei.»

    «Non capisco, scusi, sono separati?» insiste Lucia. «Il marito, è professore di cosa?»

    «Sì. Il marito è chirurgo, quello che fa le operazioni al rene, non so come si dice, i trapianti, il dottor Davide Macchia. È famoso, lavora…»

    Lucia interrompe il panegirico.

    «Potremmo toglierci ogni dubbio…» dice e lascia la frase in sospeso.

    «Dubbio? Che dubbio?»

    «Dov’è Clarissa? Come mai Clarissa non risponde? Perché sabato non ha avvisato la scuola della sua assenza? Non era mai successo, una donna così precisa!»

    Isabella la fulmina con lo sguardo anche se la ammira.

    «Veramente?» il portiere sposta gli occhi dall’una all’altra, passandosi una mano sulla guancia in preda all’ansia. «Cosa si può fare?»

    «Chiamare qualcuno che abbia le chiavi di riserva?» suggerisce Lucia in un sussurro. «Oppure telefonare all’ex marito, a Davide.»

    «Ce le ho io, le chiavi. Ma disturbare il professore senza un motivo, no, potrebbe essere in sala operatoria.»

    «Venga» dice Isabella, con calma. «Ora ci siamo noi, ci facciamo coraggio. Clarissa potrebbe aver avuto un malore e noi dobbiamo aiutarla. Facciamo la cosa più urgente, apriamo, e dopo, se sarà necessario, lei chiamerà il professore.»

    Il portiere apre un cassetto, estrae un mazzo di chiavi con un’etichetta arancione.

    Salgono al terzo piano con l’ascensore. Nessuno parla. Lucia è veramente in ansia e Isabella tiene la sciarpa sulla bocca solo perché Lucia la fissa, lanciandole occhiate eloquenti.

    La porta è chiusa a chiave, con due mandate.

    Appena l’uomo spalanca il battente, Isabella lo blocca vicino alla porta.

    «Non si muova» ordina.

    «Perché?»

    «Per non spaventare Clarissa. Proviamo a chiamare, forse ha chiuso dall’interno e poi non si è sentita bene. Due donne, capisce, è meglio.»

    Lucia la chiama per due volte. Il nome risuona nel silenzio dell’appartamento.

    Entrando, si accede a un ampio soggiorno rettangolare. Un divano bianco è sistemato davanti a una portafinestra, da cui si vede un piccolo balcone spoglio. Di fronte all’ingresso, l’angolo cottura con il tavolo bianco e le sedie. Tre porte, in fondo e su un lato, aperte. Le persiane non sono chiuse e il sole illumina una stanza tutta bianca, senza altri colori.

    L’appartamento è molto ordinato, rigoroso. Isabella guarda Lucia. Se almeno ci fosse un oggetto, in quel bianco assoluto, un bicchiere, una tazzina, un libro, una penna. Ma non c’è.

    «La camera da letto» dice il portiere, a voce bassa, indicando una porta con il mento.

    La stanza è vuota. Isabella e Lucia non toccano niente, le mani in tasca.

    Il letto è rifatto. L’armadio è aperto e anche alcuni cassetti sono aperti. Lucia le rivolge un’occhiata. Isabella fa sì con la testa, con un cenno che l’altra comprende al volo. Lucia indietreggia e scambia qualche frase insulsa con il portiere, per distrarlo.

    Intanto Isabella fotografa. Le sembra di vederla, Clarissa, venerdì sera quando è uscita di casa. In un primo momento ha scelto una gonna, calze e stivali con il tacco basso. Poi ha deciso di cambiarsi. Doveva averli già indossati e doveva essere in forte ritardo. Le calze sono state sfilate in fretta e sono sul pavimento a rovescio; gli stivali gettati a terra. La gonna è buttata sul letto come capita. All’ultimo momento, ha optato per un abbigliamento più sportivo, jeans e scarpe basse, oppure ha scelto abiti più seducenti?

    Le ante e i cassetti aperti, gli abiti gettati a casaccio sono in contrasto stridente con l’ordine che regna in tutta la casa, con il letto rifatto alla perfezione, con il comodino senza un granello di polvere.

    L’altra stanza, uno studio con librerie e un piccolo divano, è vuota e impeccabile.

    Lucia apre la porta del bagno. Non c’è niente neppure qui. Isabella osserva l’astuccio dei trucchi sopra i due scaffali.

    «Richiuda la porta così come l’ha trovata» dice al portiere «Noi scendiamo con lei e decidiamo cosa fare.»

    Appena al piano terra, il portiere prende l’iniziativa di telefonare al marito di Clarissa. La visita lo ha sconvolto e la comunicazione è incomprensibile. L’uomo si confonde, ripete le stesse cose tre volte, continua a citare una collega della signora senza spiegare quale sia il suo ruolo. Il marito si innervosisce.

    «Cesare, qual è il problema? Senta, mi passi mia moglie, che facciamo prima.»

    «Dottore, questo è il problema, la signora è con lei?»

    «Ma come le viene in mente? Io sono a Londra, a un convegno, che motivo avrebbe… no, ma scusi, perché lo vuole sapere, è successo qualcosa, ma si faccia capire!»

    «È venuta una collega della signora Clarissa.»

    «Me lo ha già detto, ma chi è questa?» Ora il marito urla. «Cesare, chieda a… come si chiama questa… anzi, me la passi.»

    Isabella si tocca il sopracciglio con le dita. L’ex marito non ci voleva. Il portiere porge il telefono a Lucia.

    «Professoressa Petruzzi, buongiorno, insegno matematica nella scuola di Clarissa.»

    «E che ci fa a casa mia? Dov’è Clarissa?»

    «Non lo so, non ne ho idea, non è venuta a scuola neppure sabato, e poi il suo telefono è staccato da venerdì sera, questo lei come lo spiega?»

    Ahi, che errore, pensa Isabella. Il tono bruscamente inquisitorio della domanda certamente farà reagire il marito. Infatti.

    «Ma lei chi è, che vuole, perché dovrei spiegare?» obietta il professore, alterandosi.

    «Io studio matematica da una vita» si riprende Lucia, replicando in tono secco «sono la professoressa Petruzzi. Noi dobbiamo spiegare, sempre. È la nostra deformazione professionale. Venerdì sera, io dovevo parlare con Clarissa di lavoro quindi ho notato che non visualizzava i messaggi. Io devo connettere la causa con l’effetto. Quindi le chiedo, lei come lo spiega? Perché io non trovo una spiegazione logica.»

    «Da sabato?» dice il marito, smettendo di urlare, ammansito dalle argomentazioni di Lucia, oppure soltanto turbato per l’assenza della moglie.

    «Purtroppo sì.»

    «Cesare, provi a vedere se la signora è in casa, se ha avuto un malore. Io prendo il primo volo e chiamo la polizia. Grazie, professoressa Petruzzi. Cesare, lei vada subito, intanto io prenoto il volo, e mi richiami immediatamente.»

    Lucia fa cenno al portiere di non dire niente. La telefonata si chiude.

    «Vado a sciacquarmi la faccia» commenta l’uomo, asciugandosi il sudore, con un lungo respiro. «Poi lo richiamo.»

    «Vada» risponde Lucia, comprensiva. «Ha fatto bene a non dire che era entrato in casa prima che glielo suggerisse lui. Noi andiamo ad avvertire la preside, sa, il dovere.»

    Mentre Cesare entra in casa, loro escono dal portone.

    «Cammina e filiamocela» dice Lucia.

    «Dici?»

    «Ma sì! Con lo spavento che si è preso non si ricorderà mai i nomi, come non si è accorto

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