Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Io ti troverò
Io ti troverò
Io ti troverò
E-book499 pagine6 ore

Io ti troverò

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il vicequestore Guido Valenti e la sua squadra di investigatori sono alle prese con un altro caso difficile. Luciano Venturi, un avvocato sessantenne facoltoso e apparentemente perbene, impegnato in importanti cause umanitarie, sparisce nel nulla. Né i familiari né i suoi assistenti riescono a fornire informazioni utili che aiutino la polizia a far luce sul caso. Il ritrovamento del suo cadavere, il giorno successivo, darà inizio alle indagini, che si rivelano essere subito particolarmente insidiose e senza un colpevole. Contemporaneamente, la squadra investigativa guidata da Valenti ha per le mani un’altra sparizione improvvisa; questa volta è una bambina di due anni, Catherine Emily Taylor, figlia di un agente dell’FBI, e, apparentemente, non sembra essere collegata all’omicidio di Venturi. Tuttavia, proprio quando le due indagini sembrano procedere su due strade diverse, la squadra investigativa intuisce il collegamento tra l’assassinio dell’influente avvocato e il rapimento della piccola Catherine, portando alla luce inconfessabili segreti di famiglia e coinvolgimenti in affari malavitosi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2022
ISBN9788892967038
Io ti troverò

Leggi altro di Ida Sassi

Correlato a Io ti troverò

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Io ti troverò

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Io ti troverò - Ida Sassi

    MISTÉRIA

    frontespizio

    Ida Sassi

    Io ti troverò

    ISBN 978-88-9296-703-8

    © 2022 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Un’altra catastrofe, nemmeno adombrata,

    improvvisa violenta ci sta sopra

    e disarmati – troppo tardi ormai – a furia ci trascina.

    Constantinos Kavafis, È la fine

    Sangue

    Venerdì 27 settembre 1996

    Non ha mai detto un no nella vita.

    A pensarci, non ha mai detto neppure un sì. Non ha mai detto un bel niente.

    Paola Martinelli cammina lentamente lungo via del Torchio, nel centro di Milano, le mani nelle tasche del soprabito blu, lo sguardo a terra. Il convegno sulla didattica era faticoso, a tratti incomprensibile, e lei provava un disagio acuto, insopportabile, si sentiva fuori posto, quindi è uscita prima di mezzogiorno, in pratica è scappata. La direttrice della scuola ha insistito, le ha concesso persino il lunedì libero per recuperare, come se le stesse regalando una vacanza premio. Invece, per lei si tratta soltanto di una seccatura, e anche pesante, dal momento che il convegno le porterà via anche il sabato.

    «Lei se lo merita, Paola, lei sa quanto io la stimi, veramente, ci tengo!»

    È intervenuta anche Sandra, una collega che ha voluto a tutti i costi prestarle il suo appartamento in via del Torchio, al momento disabitato perché lei si trova a Roma per assistere la madre, col pretesto che sarà più comoda a due passi dalla sede del convegno.

    Paola non è riuscita a dire di no. Né all’una, né all’altra.

    Con la direttrice non ha osato proferire verbo, e di fronte all’eloquenza di Sandra non ha saputo obiettare che preferirebbe starsene in casa propria, in via Brioschi, da cui in ogni caso raggiungere la sede con i mezzi pubblici sarebbe molto facile.

    Del resto, quando mai ha detto no nella sua vita?

    Paola procede camminando a capo chino. Di tanto in tanto si guarda in giro. Questa piccola strada la tranquillizza. In via Cesare Correnti c’era un via vai forsennato di auto della polizia che correvano a sirene spiegate.

    Come sono belle, le case in questa zona. Paola arriva al portone di Sandra, ma ha un attimo di incertezza. Cos’ha da fare? Continua a camminare e svolta in via Circo. La strada le sembra ancora più elegante, con bei palazzi, alberi e piccoli giardini. Finalmente qualcosa che somiglia al silenzio. Sente ancora le sirene, il rombo delle auto che passano ad alta velocità, il violento rumore delle strade del centro, ma attutiti, come un’eco lontana.

    Via Circo piega a destra. Prima della curva, la strada forma una specie di minuscola rientranza ad angolo retto, con al centro un albero e una panchina di pietra.

    Seduto a terra, nell’angolo, rannicchiato, la testa tra le braccia, un bambino piange.

    Paola si ferma e guarda i portoni delle case vicine. Il bambino sarà lì da poco, qualche minuto, pensa. Altrimenti lo avrebbero allontanato, lo avrebbero mandato via. Per strada non passa nessuno. Senza pensare, gli si avvicina. Fa la maestra da tanti anni, non può vedere un bambino che piange senza reagire.

    «Ti è successo qualcosa? Hai bisogno di aiuto?»

    In quel momento nota che il bambino ha le mani e il viso coperti di sangue. Paola vuole fuggire. Fa mezzo passo indietro, il cuore le batte con violenza. Non ha mai visto niente del genere. Mai, in tutta la vita, ha visto le mani di qualcuno piene di sangue. Anzi, mai nella vita ha visto tanto sangue.

    Paola si blocca. Non può andarsene, non può abbandonare un bambino che piange.

    «Cos’hai fatto?» riesce a dire, a voce bassa, quasi senza fiato, chinandosi.

    «Ha sparato a mamma, ha sparato, l’ha uccisa…»

    «Che stai dicendo?» chiede, in preda al terrore.

    Ora si rende conto che il bambino non è piccolo, ha almeno otto anni.

    «Mamma è morta, lui ha sparato, l’ha uccisa… e io l’ho lasciata lì…»

    Il bambino solleva gli occhi pieni di lacrime verso di lei, occhi in cui c’è tutto il dolore del mondo. Non può essere vero, quello che sta succedendo non è reale. Paola si fa forza e chiede dolcemente, china vicino a lui: «Non capisco, che vuoi dire?»

    «Io volevo rimanere con mamma, volevo rimanere con lei, ma ho avuto paura, tanta paura, c’era la polizia e l’ho lasciata a terra, ho lasciato a terra la mia mamma…»

    Il bambino piange silenziosamente, senza singhiozzi. Anche Paola, ora, ha paura, una paura sconfinata.

    Sangue, polizia. Parole lontane, parole recitate da attori in un mondo fasullo che esiste dentro una scatola che si accende la sera e si spegne a piacimento, un mondo che si guarda tranquilli seduti sul divano. Non sono morti veri, il sangue è prodotto da attrezzi di scena, non è il sangue di una madre sulle mani di un bambino. Non ci sono portoni a un metro di distanza, portoni da cui tra poco uscirà qualcuno, qualcuno che la vedrà in compagnia di un ragazzino sconosciuto che racconta una storia assurda. La storia di una madre lasciata a terra nel sangue.

    In quell’istante, tutta la sua vita le passa davanti agli occhi, trentotto anni senza un sì e senza un no, senza un uomo, senza quel figlio che voleva tanto e che non è mai arrivato. Senza un gesto di coraggio, senza un rifiuto.

    «Vieni andiamo, non possiamo stare qui, mi racconti dopo. Alzati.»

    Il bambino si alza. Paola gli tira su il cappuccio fino a coprirgli la fronte.

    «Nascondi le mani sotto la felpa. Non toccare niente e fai quello che ti dico io.»

    1

    Sabato 27 ottobre 2018

    mattina

    Oggi, Guido Valenti decide di cambiare strada.

    Non è stata una decisione motivata, tutt’altro. Non si è neppure reso conto, in un primo momento, di aver spezzato un’abitudine consolidata, di aver modificato il suo percorso, breve ma sempre uguale da anni.

    Uscito dal portone, un vago impulso lo ha spinto a dirigersi verso il parco, e ora Guido cammina sull’erba, lentamente. Un freddo sole autunnale fa scintillare il tappeto di foglie gialle e rosse sulla terra un po’ umida. Guido le guarda una per una, senza fretta. Gli piace la mattina, anche in autunno. Entra nel commissariato Porta Ticinese e sale al primo piano. L’agente Vito Paternò gli corre letteralmente incontro, seguito dal viceispettore Vincenzo Lorusso. Che accoglienza!

    «Vicequestore» Lorusso dimentica di salutarlo per l’agitazione «come mai stamattina è in ritardo? Brivio è qui da mezz’ora, è di sopra, vada, la stanno aspettando!»

    «Da Schiralli?» chiede Guido, sorpreso, ma Lorusso si limita a fare cenni del capo e a indicare le scale con il mento. Il viceispettore soffre al pensiero che si facciano attendere dirigenti del livello di Filippo Schiralli e Alberto Brivio. Anche Guido valuta che sia meglio darsi una mossa. Si toglie in fretta il cappotto, lo passa a Paternò e sale al secondo piano. Molto strano che Brivio si sia scomodato e che i due siano insieme.

    Guido entra, saluta, incassa le frecciate sul fatto che si sia presentato al lavoro alle otto e un quarto. Che oggi sia sabato, per quei due non è un’attenuante, ammesso che se ne siano accorti, e ora fanno a gara a fare battute tipicamente maschili sulla serata di ieri. Lui non può replicare, e non ne ha neppure voglia. È la mattina sbagliata per fare dell’ironia sulla sua fama di solitario sciupafemmine, e Guido Valenti non ha l’abitudine di spiegare i fatti suoi a nessuno. Deve solo avere pazienza, e aspettare.

    «È scomparso un uomo, un certo Luciano Venturi, anni cinquantanove, avvocato iscritto all’albo, residente in via… non lo so, te la vedrai tu, separato» si decide Brivio. «La denuncia è stata presentata dal figlio, Marco Venturi, medico anestesista, che si è preoccupato perché il padre non rispondeva al cellulare. La solita storia, insomma.»

    Guido trova che Brivio sia più sbrigativo del solito, come se parlare gli pesasse, come se avesse altro per la mente. Forse è solo un’impressione.

    «Mi faccia capire meglio, capo, il figlio quando lo ha visto l’ultima volta?»

    «Il figlio lo ha visto mercoledì, a pranzo. La solita storia, ti ho detto. Ieri mattina gli ha scritto dei messaggi e il padre non ha risposto. Allora si è preoccupato. Il ragazzo ha le chiavi di riserva. È andato a casa del padre e ha trovato il cellulare sul tavolo. Allora ha deciso di andare alla polizia, anche perché…» Brivio smette di parlare, sembra stanco. Fa un gesto, rivolto al primo dirigente. Filippo Schiralli prende la parola.

    «Valenti, lo scomparso prestava assistenza legale a numerose associazioni che non ti sto a elencare. Tutte impegnate nel sociale. I vari responsabili e presidenti si sono già messi in moto nel pomeriggio di ieri, alcuni con garbo, chiedendo di attivarsi con urgenza, altri sollevando un polverone sull’inerzia delle istituzioni. Hai capito adesso, Valenti?»

    Guido sta per scattare. Inerzia delle istituzioni, com’è facile riempirsi la bocca con frasi fatte. Poi guarda Alberto Brivio e l’irritazione si trasforma in apprensione.

    Brivio sembra distante, assorto nei suoi pensieri. Guido vorrebbe chiedergli se va tutto bene, ma la presenza del primo dirigente pone il colloquio su un piano meno personale.

    «Ho capito fino a un certo punto» dice. «Ci muoviamo più in fretta del solito per evitare attacchi e polemiche?»

    «In un certo senso, sì. Valenti, che te ne importa? Visto che ti devi muovere per cercarlo, tanto vale cominciare subito» riassume Filippo Schiralli. «Alla stampa diremo che la nostra squadra migliore prende in mano il caso immediatamente, da stamattina. Forse in questo modo otterremo qualche giorno di respiro.»

    Un lungo silenzio segue queste parole.

    «Sai, Guido» dice Brivio alla fine, sospirando, «in centrale sono tutti presi dall’assassinio della contessa Riario Sforza. Una brutta storia, i giornali, la stampa…»

    «Ma, capo…»

    «Stop!» Brivio apre la mano destra. «Non dire niente. Non fare quella faccia, non dire che tu hai già un’idea su chi l’ha massacrata, stai zitto Guido, non è un caso tuo e stanne fuori.»

    «Ma non ho detto una parola, capo!»

    «Appunto. Continua così. Non dire una parola. Io vado. Trovalo più in fretta che puoi, questo Venturi, vivo o morto, ma trovalo, fammi il favore. I suoi amici stanno facendo un casino manco fosse scomparso il presidente del Consiglio. Chi cazzo era, poi?»

    Brivio esce dopo saluti sbrigativi.

    Il primo dirigente Filippo Schiralli tamburella sul piano del tavolo con la mano sinistra.

    «Alberto è nervoso a quest’ora del sabato mattina. Non gli fa bene. Qualcuno dovrebbe dirglielo, ma chi? Col carattere che ha… Passiamo al lavoro. Questa faccenda non mi piace per niente, sai?»

    «Perché dice così?»

    «Non so, i casi di persone scomparse sono peggio di qualunque cosa, a mio modo di pensare. Almeno, in un omicidio, sai dov’è la vittima.»

    «Già, però è morta.»

    «Anche questo è vero.»

    Il dirigente fa il tradizionale gesto con la mano e Guido lo interpreta prontamente. Scatta in piedi e saluta. Non ne poteva più di stare seduto.

    Guido passa in fretta e furia dal salone.

    «Tutti nell’ufficio di Isabella tra cinque minuti. Ferrara, occupatene tu. Voglio anche l’agente Morini.»

    Bussa alla porta del commissario capo Isabella Contarini ed entra senza aspettare.

    «Come stai?» Guido si avvicina alla finestra e appoggia la fronte ai vetri, dando le spalle a Isabella. La luce incerta dell’autunno, gli alberi con le foglie gialle, un pezzetto di cielo di un pallido azzurro.

    «Io sto bene, la piccolina sempre scatenata» risponde Isabella.

    Guido si volta a guardarla.

    Com’è bella, le linee del viso ammorbidite dalla gravidanza, gli occhi scuri circondati da un’ombra profonda. È diventata più lenta, più insicura, sempre stupenda, forse più di prima.

    Lui fa un gesto e un sorriso, che vogliono dire mille cose.

    «Abbiamo un nuovo caso, aspettiamo gli altri, ti va?»

    Lei gli sorride.

    «Dai, dimmi qualcosa!»

    «Persona scomparsa. Luciano Venturi, cinquantanove anni, separato, irreperibile da ieri o forse da giovedì 25.»

    «Ieri? Ci muoviamo in fretta! Aspetta un momento.»

    Guido guarda le dita di Isabella che si muovono rapidamente sulla tastiera. Intanto, arrivano gli altri.

    Sparire senza lasciare tracce, al giorno d’oggi, è un’impresa che richiede competenze di alto livello. Tutto è cambiato rispetto a trenta o quarant’anni fa. È quasi inimmaginabile esistere senza avere una connessione Internet, un telefono cellulare, pagando tutto in contanti. Per scomparire, oggi, esistono solo due alternative. Un’altra identità, scientificamente preparata, o morire.

    «Capo» annuncia Tonio Ferrara. «Ci siamo tutti.»

    Eccoli, nell’ufficio di Isabella, secondo la tradizione. Guido incomincia.

    «Vi comunico che ci è stato assegnato un caso, la ricerca di una persona scomparsa.»

    Si interrompe. Era strano Brivio, oggi, distante, assorbito da una preoccupazione personale.

    «Lo scomparso è Luciano Venturi, avvocato, cinquantanove anni, un figlio. Vive solo, risiede in via Fratelli Bronzetti» aggiunge Isabella.

    Guido prosegue.

    «Chi è Luciano Venturi? Da quel che ho capito, negli ultimi trent’anni ha collaborato con molte organizzazioni difendendo gli emarginati. Se tutti lo reclamano a gran voce, dev’essere un avvocato molto speciale.»

    Guido tace, pensieroso, e nessuno interviene. Si sente solo il lieve fruscio delle dita di Isabella sul computer.

    «Taddei» continua Guido «per prima cosa ti occupi delle videocamere di sorveglianza. Il suo portone, i portoni vicini, banche, supermercati, vedi tu. Io e Ferrara andiamo a parlare con il figlio. Lanciamo i soliti avvisi e cominciamo con le ricerche: il suo passato, il lavoro, le case, i conoscenti, gli amici, la routine! Isabella, tu ovviamente rimani qui e organizzi come vuoi. Le domande sono le seguenti: perché è scomparso, come ha fatto e dove può essere. Ci vogliono due cose per tentare di trovarlo. Uno, conoscerlo, capirlo.»

    «E la seconda?» chiede Tonio Ferrara.

    «Stabilire un legame.»

    «Cioè?» insiste Ferrara.

    «Tentare di fare un passo in più, trovare un contatto.»

    Ferrara non aggiunge altro.

    «La moglie?» chiede Lorusso.

    Guido scuote il capo. Non lo sa.

    Isabella consulta il portatile, la sua miniera.

    «La moglie si chiama Paola Martinelli, classe 1958, insegnante, in pensione da quest’anno. Sposati il 6 dicembre 1996. Risiede in via Brioschi con il figlio, quindi sono separati. Perché fai quella faccia, Guido, cosa c’è che non va?»

    «Ma no, niente, mi sembrava di aver capito che il figlio fosse medico, ma devo aver sentito male, sarebbe troppo giovane.»

    «No, hai capito bene. Il figlio, Marco Venturi, è nato nel 1988. Non ci vedo niente di clamoroso. Prima il figlio, poi il matrimonio… capita a tanti, no?»

    «Giusto. Lorusso vi avrà detto che stamattina Brivio e Schiralli erano qui in commissariato, tutti e due. Questo perché lo scomparso presta consulenza legale a varie associazioni di un certo rilevo, insomma è una figura di spicco. Diamoci una mossa. Domani saremo impegnati, la domenica andrà al diavolo. Poi mi farete uno schema con il recupero turni.»

    Guido fa un salto nel suo ufficio a prendere il telefono e la giacca, mentre Isabella gli ricorda di occuparsi del magistrato per le autorizzazioni.

    «Quindi abbiamo il fiato sul collo, avremo addosso anche la stampa» si lamenta Taddei.

    Nessuno risponde.

    «Capire chi è, conoscerlo» riflette a voce alta Tonio Ferrara, da poco promosso ispettore dopo il caso Mantovani. «Chi è Luciano Venturi? Come se fosse facile. Non abbiamo capito neppure chi è Guido Valenti, in tutto questo tempo.»

    Ferocia

    Venerdì 27 settembre 1996

    Il bambino si alza e raccoglie un oggetto che teneva nascosto dietro la schiena.

    «Cos’hai preso?» chiede Paola, agitata, lanciando occhiate in giro per controllare che nessuno li abbia visti.

    «La borsa di mamma.»

    «Cosa?» Di nuovo Paola rimane senza fiato.

    «Volevo prendere un ricordo di mamma, c’era la borsa per terra, e quando lui si è messo a litigare…»

    «Va bene, va bene, ne parliamo dopo, nascondila sotto la felpa e cammina.»

    Paola si accorge che il bambino tiene la mano sinistra stretta a pugno, ma non è il caso di discutere, lì per strada, è troppo pericoloso. Il portone della casa di Sandra si trova a pochi passi. Paola apre, guarda l’ascensore e decide.

    «Saliamo a piedi. Sono solo due piani.»

    Entrano in casa. Paola chiude la porta a chiave. Questo semplice gesto placa il terrore che provava per la strada. Respira profondamente. Per qualche ora è al sicuro.

    «Non ti muovere.»

    Si sforza di richiamare alla mente i comportamenti degli attori dei film polizieschi. Non deve lasciare tracce, impronte digitali o altro. La cosa migliore è andarsene.

    Corre in camera da letto, ieri ha visto dove Sandra tiene gli asciugamani. Ecco, in basso ci sono quelli vecchi. Quei due sono quasi logori, è impossibile che Sandra si accorga della loro scomparsa. Alla peggio, dirà che si sono macchiati e li ha portati via.

    «Vieni in bagno, dobbiamo lavare il sangue, altrimenti non potremo uscire.»

    Ma che sta facendo?

    Il pensiero la colpisce con violenza. Uscire per andare dove?

    Si ferma vicino alla porta di ingresso da cui si accede direttamente all’ampio soggiorno, rimane in piedi con gli asciugamani sul braccio e guarda il bambino mentre tenta di tirarsi su le maniche della felpa senza aprire il pugno.

    «Lascia stare, faccio io, non toccare.»

    «Non voglio andare in un orfanotrofio, per favore, non mi lasciare.»

    «Ma scusa, e tuo padre?»

    Il bambino scuote la testa. Parla in tono grave.

    «Non ce l’ho, un padre. Eravamo io e mamma. Prima c’era nonna, due anni fa è morta. Mamma non ha fratelli, non ha sorelle.»

    «Vuoi dire che non hai nessuno? Dove abiti, come ti chiami?»

    «Marco Catellani, la mamma si chiama Rosaria Catellani, faccio la terza elementare, abitiamo a Sesto San Giovanni, nella borsa ci sono le chiavi di casa» il bambino risponde con precisione, come se fossero le domande della maestra, in un’interrogazione.

    «Ora ci andiamo, e subito, così prendiamo le tue cose, e poi andiamo a casa mia» dice Paola senza rendersi conto di quello che propone. «Vieni, andiamo a lavare il sangue. Cosa stringi nella mano?»

    «Non so, erano per terra, tra lui e mamma, li ho visti, lui si è girato quando si è messo a litigare con quell’altro, non so come si chiamano… proiettili?»

    Marco apre la mano. Nel palmo brillano due piccoli oggetti che sembrano di ottone.

    Paola spalanca gli occhi. Non possono essere proiettili. Come è possibile che siano usciti fuori dal corpo? Allora cosa sono?

    «Aspetta, vieni con me e stai fermo, non toccare niente.»

    Nel bagno c’è un barattolo di crema quasi vuoto. Paola lo svuota, lo lava e lo asciuga.

    «Mettiamoli qui, Marco.» Il bambino lascia cadere i due piccoli oggetti nel barattolo. Paola avvita con cura il tappo e ripone il tutto nella borsa della mamma. «Ora vieni a lavarti.»

    Il sangue è secco, non è facile lavarlo via. Marco sta fermo e non protesta. Paola utilizza un’intera confezione di sapone liquido. Quindi pulisce il bagno.

    Paola si piega e si inginocchia per controllare che non ci siano macchie di sangue sul lavandino, dietro i sanitari, sul pavimento, sullo specchio. Tutt’a un tratto si guarda e non si riconosce.

    Attenta, fredda, minuziosa.

    «Le piastrelle» dice la donna sconosciuta. «Dai un’occhiata alle piastrelle. Hai buona vista? Ci vedi bene?»

    «Sì, a volte aiuto mamma a cucire…» Le lacrime cominciano a scorrere sulle guance del bambino. «Non lasciarmi, non voglio andare in un istituto…»

    Marco piange e singhiozza. Chiama la mamma tra le lacrime.

    Paola lo prende dolcemente per mano, e così ritornano vicino alla porta di ingresso. Ora non ha più il terrore dei passanti che potrebbero vederli, non ha più incombenze urgenti, non ha più il sangue da lavare, ora non ha niente da fare e l’emozione la travolge. Il pianto disperato del bambino la contagia.

    «Vieni qui, piccolino, vieni qui caro.»

    Lo prende tra le braccia, seduta sul pavimento, e Marco piange rannicchiato sulle sue ginocchia.

    Si avvinghia a lei, dice parole confuse, che lei comprende solo in parte. Ma quello che comprende perfettamente è l’immensa dolcezza che la invade, una dolcezza che non ha mai conosciuto, neppure a letto con Luciano in quei rari momenti in cui lui le ha detto di amarla, comprende la tenerezza, e insieme la ferocia. Lei farà qualunque cosa per proteggere questo bambino, come fa ogni madre con i suoi cuccioli.

    Marco è il suo bambino, suo figlio, e lo sarà per sempre.

    2

    Sabato 27 ottobre 2018

    mattina

    Il figlio dell’avvocato scomparso abita con la madre in via Brioschi, quasi all’incrocio con via Bonghi. Ferrara fa il giro da via Pezzotti perché la strada è a senso unico.

    «Perché una persona scompare, Tonio?»

    «Cosa intende dire esattamente?» Ferrara fa manovra per parcheggiare.

    «Voglio farmi un’idea. Le possibilità non sono milioni. Ha scelto di sparire oppure è morto.»

    Ferrara spegne il motore e chiude l’auto, pensieroso.

    «Solo due? Lei dice?»

    Guido cammina rapidamente verso il portone.

    «Muoviti, dai. Ti viene in mente altro? È un uomo adulto, non è ricco, una terza possibilità, io non la vedo. Se pensiamo che sia vivo, dobbiamo porci la domanda: perché scompare?»

    Marco Venturi li accoglie in un soggiorno semplice e ordinato. È un ragazzo alto, lineamenti spigolosi, un accenno di barba scura molto curata, sguardo diretto.

    Guido dà una rapida occhiata alla stanza mentre si accomoda e rifiuta il caffè. Due divani blu, un apparecchio televisivo, una libreria sulla parete lunga, un tavolo di legno bianco, un angolo cottura in parte separato da una parete bassa.

    Un’ondata di malinconia lo assale. Tace, fissa lo sguardo sulla finestra, non riuscendo a fermare le immagini. Ripensa alle prime indagini insieme a Isabella, lui, che si era sempre mosso da solo, incapace di ascoltare i colleghi, incapace di farsi capire. Ripensa alla visita a casa di Letizia Colonna, il giorno in cui aveva conosciuto Isabella, quando lei era stata assegnata alla sua squadra, e poi a quella da Evelina Lanfranchi. Ripensa a tutte le volte che sono andati insieme a interrogare qualcuno, a come era facile capirsi al volo con uno sguardo, a com’era naturale discutere con lei in auto lungo il tragitto.

    Ora tutto questo è finito. Non può costringere una donna all’ottavo mese di gravidanza a fare avanti e indietro, sballottata dentro un’auto solo perché lui preferisce andare in giro con lei. La nostalgia lo sta trascinando e Guido ha un moto di fastidio. Non è successo nulla di irreparabile. Isabella è in commissariato, a due passi, lavora con lui sullo stesso caso, come prima. Non è cambiato niente. Si accorge che Ferrara e il ragazzo sono seduti rigidi sul divano, imbarazzati, indecisi.

    «Lei vive qui con sua madre?» dice per rompere il silenzio. Che domanda inutile.

    «Sì, vicequestore. I miei genitori si sono separati dieci anni fa, papà è andato via di casa e io e mamma siamo rimasti qui, dove abbiamo sempre vissuto. Era la casa di nonna, che…»

    «Sua madre è in casa? Può chiamarla, per favore?» lo interrompe Guido.

    «Mia madre… per favore parli a voce bassa, mi scusi un attimo.»

    Marco si alza, esce dalla stanza, rientra subito, chiude la porta.

    «Vorrei avvertirla di un problema delicato, ora non c’è tempo di approfondire, e comunque non qui. Mia madre presenta da qualche mese i sintomi di una precoce demenza senile…»

    «Perdoni la mia ignoranza. Alzheimer?» Guido gli toglie di nuovo la parola.

    «No, no. La prego, abbassi la voce. Si tratta di un disturbo neurocognitivo associato all’invecchiamento, che provoca deterioramento delle capacità intellettive, problemi di memoria…»

    «Ho capito» Guido lo stoppa con un gesto. «Al momento, sua madre è capace di intendere e di volere? È autonoma?»

    «Sì, certo. È del tutto autonoma, ben riferita e responsabile. A volte, mamma può sembrare bizzarra, e i suoi interventi non appaiono pertinenti. Io non sono esperto della sua patologia. Mi sto specializzando in anestesia e rianimazione, che non hanno niente a che vedere. Lei la conoscerà, mamma è la donna più cara del mondo, ed è affetta da un disturbo a uno stadio iniziale che però…»

    «Va bene. Mi descriva l’ultima volta che ha visto suo padre. Lo incontra spesso?»

    «Dipende. Io lavoro in ospedale, studio, ho la mia vita. Papà ha sempre mille cose da fare, ma riusciamo a vederci una volta alla settimana, a volte di corsa, perché papà deve sempre occuparsi di qualcosa di urgente. Infatti, l’ho incontrato mercoledì, per mangiare un boccone insieme. Papà è un uomo energico, pieno di vita, che non si ferma mai.»

    «Mi faccia capire meglio.»

    «Cosa posso dirle, vicequestore? Io contemplo i miei genitori con gli occhi di un figlio, uno sguardo parziale. Mio padre mi sembra un supereroe, uno che salva i bambini che arrivano dalle guerre e dalla miseria, e mia mamma è una fata buona che guarisce con la sua dolcezza tutte le pene del mondo. Forse dovrebbe parlare con qualcuno meno parziale, più oggettivo, che lo conosce come uomo, non come padre.»

    «Marco» chiede Guido, guardandolo negli occhi. «Lei non ha più l’età in cui un bambino considera il papà un supereroe. Come mai ne parla in questi termini? Lei non ha attraversato l’adolescenza? Cos’è casa vostra, la casetta del Mulino Bianco?»

    Marco non sembra risentito per il tono sarcastico di Guido. Sostiene il suo sguardo con un lieve sorriso e riflette prima di rispondere.

    «Vicequestore, non l’hanno informata. È giusto, non c’è stato il tempo.»

    «Di cosa?» scatta Guido.

    «Io sono stato adottato. Aspetti, mi faccia finire. Io non ricordo quasi nulla. Mamma sta perdendo la memoria. L’unico che ricorda come siano andate le cose è papà, e ora forse non potrò più chiederglielo. Quello che so, e in parte lo so perché me lo hanno raccontato in questi anni, è che io, insieme ad altri bambini, circa cinquanta, fummo portati in salvo in Italia da un convoglio umanitario. Eravamo nell’orfanotrofio di Bjelave, a Sarajevo. Io ho solo due ricordi, nient’altro. Mia madre ferita a morte, immersa nel sangue, prima che mi portassero a Bjelave. Non mi ricordo neppure il suo nome, capisce? La vedo a terra, mentre un uomo sparava tre colpi e la colpiva al petto e al collo. Il viso no, non l’aveva colpito, ed era ancora bello, intatto. Rivedo questa immagine da anni, di giorno e di notte, sempre.»

    Guido respira profondamente. Tonio Ferrara chiede, a voce bassa: «E l’altro ricordo?»

    «Mentre l’autobus del convoglio umanitario percorreva quello che era chiamato il viale dei cecchini, alcuni bambini vennero fatti scendere e falciati dalle mitragliette. Ormai mi ero abituato all’inferno, e non mi fece più effetto.»

    «Continui» dice Guido, mettendo una pietra sopra al cuore, sugli occhi, sull’anima, per riuscire ad andare avanti e fare il suo lavoro.

    «Cosa vuole che dica? Ho ricordi molto confusi di quegli anni, dopo che arrivammo a Milano. In modo impreciso, ho la sensazione che a un certo punto avessi cominciato a pensare che ero grande, ero troppo grande, non mi voleva nessuno. A volte, mamma, che allora non era ancora mia madre, ovviamente, veniva al centro a occuparsi dei bambini, faceva un po’ di lezioni, a cominciare dalla lingua italiana.»

    «I suoi genitori si conoscevano già?»

    «Penso di sì, in quel centro lavorava anche papà. Si sono sposati e mi hanno adottato.»

    Guido riflette.

    «Suo padre ha dei nemici? Ha delle ragioni gravi per voler scomparire? Sottrarsi alla vendetta di qualcuno, per esempio.»

    «Che io sappia no. Mio padre conduce oggi la stessa vita di sempre, difendendo mille cause. Papà si occupa di orfani, profughi, migranti. Chi dovrebbe vendicarsi e di cosa? No, decisamente no. Del resto, questo è il suo telefono, potrete esaminarlo. Era sul tavolo della cucina, come ho già detto, e non c’è blocco. Ho dato un’occhiata e non ho trovato niente di strano, a parte il fatto che non visualizzava i messaggi da mercoledì. Quando sono entrato in casa, l’ho trovata come sempre. Uscendo, ho visto la sua macchina, parcheggiata in via Archimede. È rossa, si nota.»

    «Suo padre è avvocato. Ha un ufficio, uno studio?»

    «No.»

    «Possiede una seconda casa? Al mare, in montagna?»

    «No. Mamma ha ereditato dalla nonna una casetta in campagna a Badile, una frazione di Zibido San Giacomo. Non ci andiamo mai e non ci decidiamo a vendere. Vi do le chiavi, controllate, ma che motivo avrebbe papà per andare a Badile alla fine di ottobre, non ha senso.»

    «Da quanti anni suo padre abita in via Fratelli Bronzetti?»

    Marco strizza gli occhi, si passa le mani sulla fronte.

    «Aspetti, cerco di fare due conti.»

    «Non mi sembra un calcolo così impegnativo» interviene Ferrara. «Dopo la separazione, dove è andato ad abitare suo padre?»

    «Aveva un appartamento in affitto in via Archimede.»

    «Aveva cambiato zona! Come mai? Quanto pagava di affitto?» lo incalza Ferrara.

    «Veramente non lo so.»

    «Non gliel’ha chiesto oppure lei gli ha fatto la domanda e suo padre non ha voluto rispondere?» Il tono di Guido è secco.

    «Non ho chiesto.»

    «E poi? Ha cambiato casa molte volte?»

    «No, mai. Due o tre anni dopo si è trasferito dove abita ora.»

    «Due o tre?» Guido lo guarda fisso.

    «Non mi ricordo bene. Aspetti, era il 2008 quando papà è andato via di casa e secondo me… direi che… sì era il 2011 quando è andato nella casa nuova, in via Fratelli Bronzetti.»

    «Quanto l’ha pagata?»

    «Non lo so.»

    «E ti pareva!» commenta Guido a voce alta. Lancia un’occhiata a Ferrara, che aggiunge: «Come le è sembrato suo padre mercoledì mattina? Ci pensi, per favore, ci pensi bene.»

    Marco Venturi china il capo.

    «Non lo so. Da tre giorni mi faccio questa domanda e mi tormento. Io amo i miei genitori, gli voglio un bene dell’anima, mi hanno salvato la vita, ma io, cosa faccio per loro? Oltre a dire quanto bene gli voglio? Ho prestato attenzione a mio padre, quella mattina e gli altri giorni? Saprei dire come stava, se era nervoso, stanco, teso? No, sinceramente non lo so.»

    Guido inarca le sopracciglia. Ora gli tocca sorbirsi le parole di rammarico del figlio. Lui è venuto qui per avere informazioni precise, particolari che lo aiutino a capire Luciano Venturi e possibilmente a trovarlo. Dei sensi di colpa di Marco se ne sbatte altamente.

    La porta si spalanca all’improvviso.

    «Ma che stai dicendo, Marco, tesoro? Tu hai fatto quello che è giusto. Tocca a tuo padre occuparsi di te e dei tuoi problemi, non viceversa. Non voglio sentire questi discorsi!»

    «Certo mamma, non ti preoccupare, era solo un attimo di malinconia. Ti presento il vicequestore Valenti e l’ispettore Ferrara che indagano sulla scomparsa di papà.»

    «Ma perché mettere in mezzo la polizia? Ma no! Luciano è un tipo imprevedibile, sarà partito per una vacanza in qualche paese che sa solo lui, con una delle sue amiche…»

    La signora scoppia a ridere, tutta allegra. La risata getta i presenti nell’imbarazzo.

    Guido la osserva. Senza volerlo, paragona la donna che ha davanti a sé a sua madre, un confronto che gli sembra subito impossibile, e non soltanto dal punto di vista fisico. Le due donne sono nettamente diverse, agli antipodi. Paola Martinelli deve aver avuto quel viso scialbo, quell’espressione smarrita, anche da giovane, persino da ragazza. Eppure, nonostante i lineamenti banali e appesantiti dagli anni, Paola trasmette una sensazione di fragilità e dolcezza che esercita un’attrazione molto potente sugli uomini, ispirando un immediato bisogno di protezione.

    «Stia tranquilla, signora. Prenderemo attentamente in esame l’ipotesi di un viaggio.»

    «Eravate molto diversi, lei e il signor Venturi, quando vi siete conosciuti» azzarda Ferrara.

    «Ah sì, molto diversi. Però lui si è innamorato, e quando Luciano vuole qualcosa sa essere convincente. E poi avevamo un obiettivo in comune.»

    La donna si alza.

    «Vi accompagno.» Ha deciso che il colloquio è finito.

    «Quale obiettivo?» chiede Ferrara.

    «Eh, come dice?»

    Il figlio fa un cenno con la mano che significa, ha visto, non insista. Guido è sorpreso ma lascia perdere. Si alza anche lui, per stamattina può bastare.

    «Ci dia una mano, Marco. Tra le frequentazioni di suo padre, scelga una persona che lo conosce bene.»

    «Il fratello. Mio zio è il suo miglior amico da tutta la vita.»

    Salutano la signora e fanno qualche passo verso la porta.

    Il ragazzo tiene le braccia abbandonate lungo il corpo, gli occhi bassi. Guido si volta e dice all’improvviso: «Marco, che cosa ha portato via da casa di suo padre, ieri, oltre al telefono, ovviamente?»

    «Io? Perché? Niente… niente… non capisco, cosa avrei dovuto portare via?»

    Guido non risponde, ma la confusione del ragazzo gli basta.

    «Vedi che è in viaggio con un’amica, altrimenti perché non ha voluto mettere i volantini e l’annuncio su Facebook? Te l’ho detto io, ma tu non mi credi» interviene Paola crollando il capo convinta, come se proseguisse una conversazione mai interrotta.

    «Quali volantini, signora?» chiede delicatamente Guido, notando che il figlio si è ripreso dal turbamento e sembra colpito dall’osservazione.

    «Per Lucky, no?»

    «Insomma, cosa aspetta a spiegarci!» scatta Guido, rivolto al ragazzo.

    «Domenica sera, una settimana fa, l’ho sentito al telefono, per un saluto. Abbiamo fatto due chiacchiere, e a un certo punto papà ha detto che aveva perso il suo cane oppure glielo avevano rubato, non lo sapeva. Un golden retriever di cinque anni di nome Lucky. Mamma e io gli abbiamo suggerito varie strategie, annunci, offerte di ricompense ma lui non è stato a sentire e ha chiuso la telefonata, come se avesse fretta.»

    «E lei me lo dice solo ora?» Guido lo fulmina con gli occhi. «Dove ha la testa? Avete avuto notizie del cane? Ne avete parlato mercoledì?»

    «No» risponde il ragazzo, mortificato.

    «Andiamo a vedere casa sua. Qui, non c’è altro» si sfoga Guido.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1