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Le stelle di Mactán
Le stelle di Mactán
Le stelle di Mactán
E-book434 pagine6 ore

Le stelle di Mactán

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Info su questo ebook

Le stelle di Mactán racconta una delle più incredibili imprese mai compiute dall’uomo nel corso dei secoli. Il Medioevo è virtualmente finito, ma la modernità è ancora un miraggio. Venezia è al culmine della sua potenza e l’Europa si apre finalmente al mondo. Jacopo è un nobile veneziano dal passato burrascoso che fin da ragazzo vive una sorta di ossessione per tutto ciò che è viaggio, esplorazione, scoperta. Durante un soggiorno a Barcellona diviene amico di un altro italiano, un vicentino di nome Antonio Pigafetta. Sarà quest’ultimo a convincere il conterraneo a partecipare a un’importante spedizione organizzata dalla Casa di Contrattazioni spagnola e finalizzata ad aprire nuove rotte commerciali. Nell’agosto del 1519 i due s’imbarcano su una delle cinque navi del portoghese Ferdinando Magellano, accompagnati dal fedele scudiero Zuan, che è l’ombra di Jacopo fin da quando questi era adolescente.
Il romanzo prende spunto dalla Relazione del primo viaggio intorno al mondo di Antonio Pigafetta e dal Roteiro di Leone Pancaldo, il timoniere della Trinidad. Queste testimonianze dirette diventano il canovaccio su cui s’inseriscono le vicende letterarie dei protagonisti di Le stelle di Mactán. Nel corso della narrazione personaggi di fantasia, come Jacopo o Zuan, interagiscono con reali personaggi storici, come Ginès de Mafra, Carvahlo e gli stessi Magellano e Pigafetta, andando a comporre un classico affresco storico.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2015
ISBN9788861556096
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    Anteprima del libro

    Le stelle di Mactán - Alessandro De Francesco

    Alessandro De Francesco

    Le stelle di Mactán

    Collana Uplit n. 15

    Copyright © 2014 Giraldi Editore

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-609-6

    Proprietà letteraria riservata

    © 2014

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    a mio padre

    Prologo

    26 ottobre dell’Anno del Signore 1571

    Il vecchio intinse la penna d’oca nel calamaio e si accinse a scrivere. Non riuscì neanche a finire l’intestazione della lettera. Venne distratto da un flusso incontrollabile di pensieri che lo indusse a distogliere lo sguardo dal foglio di carta. I suoi occhi presero a fissare un punto indefinito nel buio della stanza. Non si curò dell’inchiostro che gocciolava sul foglio. Depose la penna e sospirando appoggiò i gomiti sullo scrittoio. Si alzò a fatica dalla sedia e, aiutandosi con un bastone, fece alcuni passi verso la terrazza. Uscì e ci volle qualche istante perché i suoi occhi si abituassero alla luce esterna.

    Era inquieto. Da quando si era svegliato, molti lontani ricordi avevano cominciato a sovrapporsi nella sua mente. Sapeva di aver avuto un incubo legato al passato ma, anche sforzandosi, non ricordava nulla del sogno. Si avvicinò alla balaustra dov’erano i vasi di rose e guardò in distanza.

    Poco prima dell’alba aveva piovuto. Ora era tornato il sereno e si prospettava una giornata calda e soleggiata. Lo scorcio di campagna vicentina che aveva davanti a sé gli sembrò risplendere nei suoi colori autunnali. Trascorse alcuni minuti a guardare lontano cercando di lenire il malumore. Poi chiuse gli occhi e respirò profondamente. Aveva sempre amato i profumi che sentiva dopo la pioggia.

    La sua attenzione cadde sui vasi. Accarezzò delicatamente una delle pianticelle e sfiorò con un dito una delle spine. Spostando un rametto si sorprese nel vedere che vi era ancora un piccolo fiore. Era quasi appassito. Pensò di non essere molto diverso da quella rosa rinsecchita e divenne malinconico. S’impose di allontanare quel pensiero. Nella sua vita era sempre rifuggito dall’autocommiserazione. Non se l’era mai potuta permettere. Cercò di non pensare a nulla e il suo sguardo nostalgico tornò a perdersi nel vuoto.

    Fu distratto dalla voce di donna Luisella. La domestica era entrata per rassettare la stanza, come faceva ogni mattina, e si stava accingendo ad aprire le imposte delle finestre. – Cos’è questo buio?

    L’espressione dell’anziano cambiò. La sua attenzione era tornata al presente. Si girò e, con passo malfermo, tornò dentro.

    Nel vederlo, la donna gli sorrise: – Ben alzato.

    – È da ore che mi sono alzato. Non sono un fannullone come gli altri occupanti di questa casa.

    Lei cominciò a sistemare le lenzuola del grande letto a baldacchino al centro della camera: – Avete scritto anche stamattina?

    L’anziano si guardò le dita deformi per l’artrite e imprecò sottovoce. Tornò a sedere e mostrò il dorso delle mani a donna Luisella: – Ormai non riesco più a tenere la penna in mano. Te n’eri accorta?

    Era una mezza verità. Non poteva dirsi un letterato di professione, ma lo scrivere era sempre stata la sua passione. Da anni l’artrite gli creava dei problemi, ma in realtà era altro che lo tormentava. Da un po’ di tempo aveva perso l’entusiasmo per gli argomenti di cui si era sempre occupato. La sua propensione alle lettere ormai risentiva di un cinismo che rendeva i suoi scritti indigesti al lettore e soprattutto a se stesso.

    Donna Luisella cercò di consolarlo: – Vedrete che, appena Filippo tornerà da Vicenza, sarà lieto di farvi da scrivano. Ormai sarà sulla via del ritorno.

    Il vecchio si accarezzò la folta barba, sfogliando uno dei volumi sulla scrivania: – Quel povero ragazzo… l’unico che abbia un po’ di sale in zucca in questa casa. Non come suo padre.

    La donna sorrise: – Oh, non dovete parlare così di vostro figlio.

    – Un bottegaio!

    – Vi siete alzato di malumore stamattina?

    – Pensate agli affaracci vostri.

    La domestica sorrise e continuò imperturbabile i lavori di casa. Era abituata all’atteggiamento burbero del suo padrone e, in genere, non se ne curava più di tanto. Lei, a onor del vero, era una delle poche persone a sopportare ancora il vecchio scorbutico. Talvolta arrivava addirittura a tenergli testa e lui, a dispetto dell’età e dei ruoli, glielo permetteva.

    In famiglia tutti si erano allontanati a causa del suo carattere, ma lui non sembrava rammaricarsi oltremodo della cosa. L’unico dei parenti a fare eccezione era il nipote Filippo. Quest’ultimo aveva continuato a dimostrare un grande affetto nei confronti del nonno ed era da questi ricambiato con inconsueta benevolenza. L’anziano, d’altronde, guardava tutti gli altri come dei parassiti, soprattutto l’unico figlio maschio, Antonio. Quest’ultimo era un commerciante di tessuti, la cui fiorente attività si svolgeva soprattutto tra Venezia e il Ducato di Milano. Il vecchio, da tempo, mal sopportava la volgare ostentazione che il repentino arricchimento del figlio aveva portato nella sua casa.

    Donna Luisella, senza distogliere lo sguardo dalle lenzuola che stava piegando, chiese: – Cosa volete per colazione?

    – Niente, – mormorò lui.

    – Qualcosa dovrete pur mangiare.

    Lui la ignorò. Fece per rialzarsi in piedi, ma le gambe non lo sostennero. Tornò tremolante a sedersi sulla sedia e trattenne a stento un improperio.

    La donna lo schernì: – Vedete? A furia di saltare i pasti, vi mancano le forze.

    Lui stava per ribattere indispettito, quando sentì bussare alla porta e sbraitò: – Chi è?

    Luisella lasciò il cuscino che stava sistemando e si avvicinò alla porta per vedere chi fosse. L’uscio si spalancò ancora prima che lei potesse toccare la maniglia.

    Comparve Filippo, che entrò con espressione radiosa. Il viso del vecchio sembrò rasserenarsi.

    Il nipote, andandogli incontro, esclamò: – È tutto vero. Ho avuto conferma di ogni cosa. Oltre le nostre più rosee aspettative.

    – Allora Iddio non ci ha ancora abbandonati, come meriteremmo, – borbottò il vecchio.

    Filippo prese uno sgabello, da vicino la parete, e si sedette accanto al nonno: – Hanno combattuto il sette di questo mese. È stato un trionfo totale – e, battendo il palmo della mano sullo scrittoio, aggiunse: – Bragadin è vendicato.

    L’anziano fece una smorfia, come per trattenere una risata. Tossì e disse, con voce strozzata: – Bragadin non c’entra nulla, pace all’anima sua. Le vendette o l’onore da lavare col sangue non hanno nulla a che vedere con tutto ciò, ragazzo mio.

    – Ma…

    – È solo una questione di sopravvivenza. Nient’altro. Ora Venezia potrà proseguire la sua agonia, come sto facendo io, ma… non scordarti mai… una cosa è vivere e un’altra è ostinarsi a non soccombere.

    – Non vi capisco. È stato il giorno più glorioso della Serenissima.

    – L’ultimo colpo di coda, vorrai dire.

    Filippo era amareggiato. Sperava di rendere felice il nonno con le notizie provenienti da Venezia, ma ebbe l’impressione di aver ottenuto tutt’altro effetto: – Sembrate rattristato dalla notizia.

    – No, per niente, – sospirò l’anziano, – è solo che noi vecchi non riusciamo mai a vedere oltre il nostro naso. Come possiamo avere entusiasmo? È tutto dietro alle nostre spalle. Come per Venezia.

    Filippo distolse lo sguardo dal nonno e si alzò in piedi. Fece alcuni passi avvicinandosi alla finestra e guardò fuori. – A volte riuscite a spegnere anche il mio di entusiasmo.

    – È il principale passatempo dei vecchi, non ricordi? …rovinare la vita ai giovani.

    Senza voltarsi, il ragazzo chiese: – Cosa intendete, quando dite come per Venezia? Non vi nascondo che, a volte, stento a comprendervi, – e tornò a fissare l’anziano.

    – Guardami bene. Guarda il vecchio che hai di fronte. Sono l’uomo più vecchio che abbia mai vissuto. Ho più rughe di Matusalemme.

    Filippo accennò un sorriso senza replicare.

    – E Venezia è come me. Vecchia, artritica e senza futuro.

    Il ragazzo si rimise a sedere. Anche Luisella aveva smesso di dedicarsi alle faccende di casa e si era seduta sul letto ad ascoltare.

    – Quando io ero giovane, anche Venezia era giovane. Era già antica, ma era giovane nello spirito. Ora è una vecchia leonessa che, per vezzo, si compiace di dare ancora qualche zampata, sì… ma, in realtà, non può far altro che passare la maggior parte del proprio tempo seduta. Come chi ha smesso di vivere, ma si ostina a sopravvivere.

    Il nipote, sospirando, si passò entrambe le mani nei capelli. Intimamente si convinse che il nonno avesse ormai perso il senso della realtà. Come mai prima di allora, gli stati veneti erano stati attraversati da un’ondata di entusiasmo per la grande vittoria conseguita a Lepanto. L’anziano, però, sembrava non rendersene conto. Il ragazzo pensò che solo in quella stanza le persone sembrassero immuni da quella sferzata di ottimismo e orgoglio militaresco che la sconfitta dei turchi aveva suscitato in tutti. Si sentì ribollire il sangue e scattò in piedi: – Non capisco come possiate non gioire…

    – Stai calmo, – lo interruppe il vecchio, – e siediti.

    Il ragazzo obbedì senza controbattere. D’altronde non aveva mai capito fino in fondo il cinismo del vecchio. Anche quando in famiglia le cose sembravano procedere nel migliore dei modi, il nonno si mostrava inappagato. Come se nel suo animo si celasse qualcosa d’irrisolto.

    – Credi a me. Un giorno, ti renderai conto che quello che dico corrisponde alla pura e semplice verità. Tu sei giovane. Hai ancora tutta la vita davanti a te. Io ormai sono stanco. Ne ho viste di cose…

    – Ma…

    – L’entusiasmo l’ho perso per strada, te l’assicuro. E di strada ne ho fatta più di qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra, – e aggiunse come tra sé e sé, – eccetto i miei compagni, ovviamente.

    Filippo rimase qualche istante a guardare in terra, poi alzò lo sguardo: – Credo che, nel corso di questi anni, voi non mi abbiate narrato neanche un centesimo delle cose che avete vissuto.

    – Eppure ti ho raccontato dei miei viaggi.

    – Resto convinto che lo abbiate fatto con reticenza.

    – Cosa te lo fa pensare?

    Filippo esitò nel timore di essere indelicato, poi sbottò: – Siete irrequieto come un giovane. Non siete mai soddisfatto. Chi ci vede, finisce per pensare che, tra me e voi, quello saggio e riflessivo sia io. Il che è tutto dire…

    A quelle parole, Luisella lanciò uno sguardo complice al vecchio.

    – Sembra che mi abbiate rubato il ruolo, – continuò il giovane, – spesso sono io a dovervi riportare alla ragione. Dovrebbe essere il contrario, non credete?

    Il vecchio si passò lentamente una mano sulla barba senza commentare. Il nipote aveva colto nel segno.

    – Dovete raccontarmi tutto quello che avete visto quando eravate giovane, – disse Filippo.

    – Oh, le sai già le cose che…

    – No, voglio che mi raccontiate la verità. Non le favolette che mi raccontavate quand’ero bambino.

    L’anziano trasalì: – Favolette, dici tu?

    – Raccontatemi dal principio.

    Lui si alzò in piedi e, voltando le spalle al nipote, fece qualche passo per la stanza. Prese a osservare il vecchio mappamondo che era sulla ribaltina vicino alla libreria, ripetendo con un filo di voce: – Favolette

    Filippo cercò di riconquistare l’attenzione del nonno: – Ci sarà un ricordo che vi è rimasto impresso più di altri.

    – Mio Dio, non saprei da dove cominciare.

    – Dalla prima cosa che vi viene in mente.

    – Non è così semplice… e poi ormai la mia memoria non è più quella di una volta, ragazzo, – ma, nel pronunciare quell’ultima frase, l’anziano sentì di mentire. Ricordava tutto. Ricordava più nitidamente le vicende di cui era stato protagonista in gioventù, che non i fatti recenti. In realtà c’era qualcos’altro che lo induceva a trattenersi dal raccontare.

    – Non dovete permettere che tutto ciò che sapete muoia con voi, – insistette Filippo.

    Il vecchio sembrò non ascoltarlo. La sua mente si era già persa nei meandri dei ricordi.

    Il nipote lo riportò al presente: – Non è mia intenzione rovinarvi la giornata, ma…

    Il nonno sembrò ridestarsi e riprese a fissare il giovane: – Per poter raccontare in modo fedele quello che è stato, bisognerebbe saper tenere a freno la passione e forse io non sono la persona giusta. Mi conosci. La passione può distorcere i ricordi, i giudizi…

    – Non vi ho chiesto un giudizio su alcunché. Vorrei solo sapere di più dei vostri trascorsi.

    – Devi capire che quello che in passato sembrava importante ora non lo è più per nessuno. Ti posso assicurare che ciò che a tutti sembrava sbalorditivo allora, oggi verrebbe considerato una banalità. E poi è la stessa esistenza umana che, a ben vedere, è quasi impossibile da descrivere. Ogni uomo che incontrerai potrà raccontarti solo la propria personale visione della vita. Alcune vicende hanno tante sfaccettature, quanti sono i punti di vista di coloro che se ne resero partecipi o che ne furono semplici testimoni. Chi può dire quale sia la verità su ciò che è stato? Temo che finirei per mentirti, anche raccontando cose vere.

    – Ma io…

    – E tieni a mente un’altra cosa, la cosa più importante… e l’unica che posso dire di aver imparato nel corso degli anni… la vita può essere incredibile.

    – In che senso incredibile?

    – Ti ho visto spesso mostrare entusiasmo per le letture che parlano di mirabolanti avventure. Fui io a regalarti una copia stampata dell’Odissea, ricordi? Beh, il problema è che… non me ne voglia Omero, ma la vita reale sa essere molto più avventurosa e incredibile di qualsiasi racconto di fantasia.

    Prima parte

    1.

    16 marzo dell’Anno del Signore 1509

    Jacopo intinse la penna nel calamaio e cominciò a scrivere. Nel dettare, la voce dell’anziano precettore divenne solenne, quasi enfatica. L’uomo scandiva le parole in maniera tale che la pronuncia non traesse in inganno il ragazzo: – Videtur enim mihi satis congruisse temporibus, ut si quid sincerum de fonte Platonico flueret, inter umbrosa et spinosa dumeta… – e si fermò per dargli il tempo di scrivere. Riprese quasi subito: – …potius in pastionem paucissimorum hominum duceretur, quam per aperta manans, irruentibus passim pecoribus, nullo modo posset liquidum purumque servari.

    Il ragazzo, finita la frase, alzò la testa e chiese: – Che cosa vuol dire?

    – Me lo devi dire tu. Prova a tradurre.

    Jacopo rimase qualche istante a riflettere sulle parole latine che aveva appena scritto e poi azzardò una traduzione: – Mi sembra, infatti… sia giusto…

    Fosse giusto, – lo corresse il precettore, – è al passato.

    …fosse giusto a quei tempi… che, se qualcosa di puro sgorgava dalla fonte di Platone…

    – Sta meglio dal fonte Platonico. Non pensare solo alla correttezza delle parole. Devi dare musicalità alla lingua.

    Alcuni minuti dopo il ragazzo ne venne a capo e il precettore gli fece ripetere la frase dal principio: – Mi pare, infatti, si addicesse perfettamente a quei tempi che, se qualcosa di puro sgorgava dal fonte Platonico, lo si facesse scorrere tra macchie oscure e piene di spine, così da servire di nutrimento a pochissimi uomini, piuttosto che, effondendosi per luoghi facilmente accessibili, non potesse in alcun modo conservarsi limpido e puro per l’irrompere in esso delle bestie da ogni parte e senz’ordine.

    L’anziano prese uno straccio e lo passò su delle macchie d’inchiostro che erano cadute sul tavolo di pregiata fattura: – E cosa ci sta dicendo Sant’Agostino in questa lettera?

    Jacopo rimase un po’ a riflettere e poi disse: – Che la conoscenza è per pochi.

    Il precettore si voltò a guardarlo quasi sorpreso: – Esatto.

    Il giovane studente aggrottò la fronte e si passò una mano nel colletto che gli stringeva.

    – Perché fai quella faccia? – gli chiese l’uomo.

    Lui non rispose di getto. Raccolse le idee e chiese a sua volta: – Chi decide chi sono i pochi?

    L’uomo si limitò a commentare: – Una domanda arguta.

    Il ragazzo fece un gesto con le mani come per dire e quindi?

    L’anziano precettore chiuse il libro che aveva davanti a sé e deluse le sue aspettative: – La lezione è finita. Ne riparliamo domani.

    – Voi, padre Venanzio, vi divertite a lasciarmi sempre in sospeso.

    – E secondo te perché lo faccio?

    – Per torturarmi.

    – No, per quello ho ancora lo scudiscio.

    Lo studente si portò una mano alla bocca come a voler nascondere con garbo il proprio sorriso.

    Il precettore proseguì imperturbabile: – Se finissimo il discorso ora, con il carattere che ti ritrovi, stasera te ne saresti già scordato. E invece preferisco che ti arrovelli stanotte su questi pensieri.

    – Ah, quindi è quella la tortura. Non farmi dormire.

    – No, la tortura che ho intenzione di infliggerti è di imparare a memoria tutta la lettera di Sant’Agostino a Ermogeniano.

    Jacopo rilasciò i muscoli delle spalle, con espressione sconsolata.

    – E non fare storie. Rifuggi dall’imparare a memoria qualsiasi cosa, come un gatto rifugge da una tinozza piena d’acqua.

    – Voi mi ci volete far affogare nella tinozza.

    – Allora, visto che insisti, per domani dovrai impararla in latino.

    Il ragazzo si passò una mano sul viso e non poté vedere l’impercettibile sorriso che era comparso sul viso dell’insegnante.

    Padre Venanzio si sforzava di non esternare mai il proprio stato d’animo, tanto che per il ragazzo era diventato un gioco cercare d’interpretare ogni minima alterazione della sua espressione. Da parte sua, l’anziano era, in genere, molto divertito dalle piccole schermaglie con il giovane studente che gli era stato affidato. Ne apprezzava soprattutto la curiosità e la fantasia. Rivedeva in lui qualcosa di sé.

    In compenso, Jacopo si sentiva molto stimolato da quel domenicano controcorrente. Considerava un autentico colpo di fortuna che anni addietro suo padre, prima di partire per uno dei suoi tanti viaggi, avesse ingaggiato proprio quel precettore, invece che qualcuno di più rigido.

    – Però una di queste volte potremmo interessarci a qualcosa di diverso dagli scritti dei Padri della Chiesa, – propose il ragazzo.

    – E di cosa vorresti che ci occupassimo?

    – Mah, non saprei. L’Odissea per esempio.

    – Ah, preferiresti essere tormentato col greco? Credevo preferissi il latino.

    – Intendo una copia tradotta.

    – Dai l’impressione di voler divagare rispetto a quelle che sono le direttive di tuo padre.

    A quella frase Jacopo cambiò espressione.

    Padre Venanzio fece mente locale prima di parlare: – Sei un ottimo studente. Da quando ho cominciato a occuparmi di te, quasi due anni fa, hai dimostrato un’intelligenza singolare, dico davvero. Però tendi a distrarti troppo facilmente. Ogni volta che cerco di farti ragionare su qualcosa, che sia la grammatica latina o la matematica, la tua mente è già partita per altri lidi, – e, riordinando i libri davanti a sé, concluse, – ho il presentimento che finirai per seguire le orme di tuo padre, più che i suoi desideri.

    Jacopo esitò nel ribattere, poi si fece coraggio: – Non riesco a provare entusiasmo alla prospettiva di prendere i voti.

    – Tuo padre ha pensato al tuo futuro e vuole che sia sereno e illuminato dalla parola del Signore.

    Il ragazzo si accigliò.

    – Non credo di doverti spiegare come vanno le cose. Sei il secondogenito e, oltretutto, tua madre era una concubina.

    Jacopo fece un’espressione di tale sconforto, che il precettore se ne dispiacque.

    Il ragazzo cominciò a sistemare le proprie cose senza aprire bocca.

    Padre Venanzio si alzò in piedi: – Mi toccherà parlarti come a un adulto, – poi distolse lo sguardo e aggiunse come tra sé e sé, – credo che faccia parte anche questo dell’incarico affidatomi.

    – Io non credo che…

    Il precettore non lo fece finire: – Devi metterti nei panni di tuo padre. Non può andare contro certe regole e consuetudini radicate. La situazione della vostra famiglia, a voler ben vedere, è intricata. Quell’asino di tuo fratello Nicolò, essendo il maggiore, dovrebbe prendere le redini della discendenza dei Quintavalle e, invece, non fa altro che dedicarsi al giuoco e, ahimè, ai duelli, – e concluse con sarcasmo, – ormai è il beniamino di tutti i gestori di osteria di Venezia.

    – E io?

    – E tu… – padre Venanzio si appoggiò alla finestra che dava su Canal Grande e cominciò a guardare i navigli che passavano. Senza voltarsi, continuò: – E tu, che avresti l’indole di proseguire l’opera di tuo padre, ti ritroverai a far tutt’altro in seno a Santa Madre Chiesa.

    Jacopo, dopo qualche attimo di silenzio, fece una domanda che il precettore non si aspettava: – Pensate che tornerà mio padre?

    Superata l’iniziale perplessità, l’anziano rispose: – Certo, è sempre tornato dai suoi viaggi.

    – Vorrei che restasse a casa con noi per un po’ di tempo. L’ultima volta, l’anno scorso, è rimasto solo un mese, prima di ripartire.

    – Capisco quello che provi, ma devi capire che l’origine della fortuna della vostra famiglia non risiede solo nel nome. Quel nome sarebbe, in realtà, un contenitore vuoto qui a Venezia, se dietro non ci fosse l’attività di commercio che tuo padre sta mandando avanti.

    – Però l’ultima volta non è partito per i commerci.

    – Lo sai anche tu come vanno le cose. È normale che, talvolta, il Maggior Consiglio affidi ad alcuni dei personaggi più influenti in ambito mercantile anche delle missioni diplomatiche.

    Il ragazzo fece un’espressione che il precettore non riuscì a interpretare.

    – Cosa ti prende ora?

    – Pensate che riuscirò a convincere mio padre a portarmi con lui, in uno dei suoi viaggi?

    – Sappiamo tutti come la pensa. Non credo di dovertelo ripetere.

    – Ma se io…

    L’anziano l’interruppe di nuovo: – La cosa che più mi rattrista è il disinteresse di tuo fratello per tutto quello di cui stiamo parlando ora. Da tempo, tuo padre cerca di coinvolgerlo nella sua attività, ma è come cercare d’insegnare il latino a una gallina. T’immagini Nicolò impegnato a trattare con degli emissari stranieri?

    Jacopo rimase con lo sguardo fisso sul pavimento: – Venezia sarebbe in guerra undici mesi l’anno.

    – Appunto.

    Il ragazzo avvilito non ribatté.

    Padre Venanzio provò un senso di amarezza nel vederlo in quello stato di prostrazione. Gli mise una mano sulla spalla: – Ricordati cosa diceva Sant’Agostino… da due pericoli bisogna guardarsi: dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento.

    Il ragazzo annuì in silenzio.

    – Ma c’è un’altra cosa che voglio che tu abbia ben presente. Sono tempi cupi e di grandi rivolgimenti. Venezia è circondata da nemici. Tutti dicono che i francesi ci attaccheranno. Per non parlare dei turchi. Renditi conto che le nostre banali esistenze non possono…

    La discussione fu bruscamente interrotta. La porta della stanza si aprì e Nicolò entrò senza troppi riguardi. Guardò con espressione divertita il fratellastro e poi prese a fissare il precettore: – Sempre a rovinarvi la vita su Aristotele e Platone?

    A quelle parole Jacopo sorrise, ma padre Venanzio non riuscì a mascherare il proprio disappunto.

    Nicolò, con atteggiamento disinvolto, si sedette sul tavolo. Prese la penna e la passò sui capelli rossi del fratellastro, spettinandolo.

    Il ragazzo si mostrò divertito dalla situazione.

    Il precettore, invece, esternò tutto il proprio disagio: – Qui si cercava di studiare.

    Sul viso di Nicolò comparve un’espressione beffarda: – Ah, scusate. Credevo che aveste finito.

    – E infatti la lezione era quasi finita.

    Il giovane ribaldo rimase a guardare negli occhi l’anziano precettore con un’aria di sfida. Padre Venanzio si sentì in imbarazzo e, dopo aver preso le proprie cose, si accinse a lasciare la stanza. Nicolò lo fermò e accennò un sorriso: – Non siate sempre così serio. Io non ce l’ho con voi. È la vita che è strana.

    – Ogni uomo fa della propria vita quello che un marinaio fa della propria nave.

    – Ma a volte ci sono cose che il marinaio non può decidere.

    – Al contrario, vedo che voi avete le idee chiare su come procedere.

    Jacopo assistette impotente al confronto tra il vecchio precettore e il proprio fratellastro.

    Quest’ultimo sembrò infervorarsi: – Non devo rispondere a voi del mio operato o delle mie opinioni.

    – Ne risponderete di fronte a Dio.

    A questa ridondante affermazione Nicolò si zittì spiazzato.

    – A Dio e a vostro padre, – precisò padre Venanzio.

    Nicolò trattenne a stento una risata: – Padre, non vi sembra di esagerare? Dite queste cose solo perché non ho alcun interesse per gli studi? O c’è qualcos’altro che vi rode dentro?

    – Sono solo rammaricato che vostro padre sia costretto a confidare in un ribaldo come voi per il futuro della casata.

    Nicolò rispose freddo come la lama di una spada: – Non dovreste abusare della libertà che godete tra queste mura. Fossi in voi, eviterei di parlarmi in questo modo. Ricordatevi che in questa casa voi siete un ospite. Fino ad ora un gradito ospite.

    Padre Venanzio mandò giù il boccone amaro e, dopo aver accennato un inchino, uscì dalla stanza.

    Si creò un silenzio imbarazzante.

    Jacopo, superando a stento il disagio che la discussione gli aveva procurato, sussurrò: – Sembrate cane e gatto.

    – E chi è il cane dei due?

    Il ragazzo rispose: – Tu!

    Nicolò lo guardò divertito: – E tu cosa saresti? – poi gli passò una mano tra i capelli, spettinandolo ulteriormente, – il topo?

    Jacopo e il fratellastro erano molto diversi. Avevano caratteri contrapposti e un aspetto fisico che faceva dubitare a molti che nelle loro vene scorresse il medesimo sangue. La loro diversità era tale che non avevano mai avuto motivi di conflitto e, anzi, con gli anni si era creata una certa complicità. La differenza di età li allontanava spesso, ma Nicolò aveva sviluppato per l’introverso fratellastro un forte senso protettivo. Era un rapporto quasi paterno quello che lo legava a Jacopo.

    Quest’ultimo, alludendo a padre Venanzio, chiese: – Perché ce l’hai con lui?

    – Non sono io che ce l’ho con lui. È lui che ce l’ha con me.

    – Vorrebbe solo che tu ti comportassi in modo diverso. È pur sempre un prete.

    – E chi l’autorizza a tanta confidenza?

    Jacopo abbassò lo sguardo: – È da così tanto tempo in questa casa che…

    – Che?

    – Sì, insomma, si è preso a cuore la nostra situazione.

    Nicolò si alzò in piedi, afferrò una mela dal centro tavola e le diede un morso. Andò alla finestra e, guardando fuori, biascicò: – Se i preti si sposassero e avessero dei figli loro a cui badare, forse eviterebbero di tediare quelli degli altri.

    Nel sentire queste parole, il ragazzo sospirò senza replicare. Sistemò le proprie cose sullo scrittoio e cercò di pettinarsi maldestramente.

    – Quello che non sopporto dei preti è che non sanno fare niente, ma pretendono di dire agli altri il come e il perché di ogni cosa.

    Jacopo guardò istintivamente verso il corridoio. Temeva che qualcuno potesse sentire il discorso sacrilego del fratellastro. Si voltò, quindi, verso di lui: – Cosa dici? Se vai avanti così, ha ragione padre Venanzio a dire che finirai tra i dannati dell’inferno.

    Un’espressione compiaciuta comparve sul viso di Nicolò: – Allora sarò in buona compagnia. In mezzo a tanti preti, vescovi, cardinali… forse accanto a qualche papa.

    Jacopo si fece il segno della croce.

    Il fratellastro, nel vederlo, scoppiò a ridere: – Sono uomini anche loro, cosa credi? Anche il papa è solito defecare come me e te.

    Il ragazzino arrossì.

    – Beh, forse di più. Considerando che passa il tempo a mangiare.

    Jacopo si ammutolì.

    Il fratellastro cercò di stemperare il suo disagio: – Non pensare che abbia dell’astio nei confronti del vecchio Venanzio. È un brav’uomo. Diciamo che… sì, insomma… forse è un po’ troppo rigoroso nell’attenersi al proprio ruolo. – Poi alleggerendo i toni, chiese: – Oggi cosa ti ha insegnato?

    – Sant’Agostino.

    – Santa misericordia, come rovinare una giovane mente, – esclamò Nicolò, sedendosi di fronte a lui.

    – Perché dici così?

    – A te farebbe bene uscire un po’ da questa prigione. Altro che Sant’Agostino…

    – Uscire per andare dove?

    – Ma se non conosci altro che il tragitto da qui alla chiesa? Non hai neanche mai visto il resto di Venezia, – e dando un morso alla mela, concluse, con dileggio – è una bella città, sai?

    Jacopo, d’istinto, volse lo sguardo alla finestra e divenne pensieroso. La sua attenzione si concentrò sui camini a campana rovesciata che s’intravedevano dalle grandi finestre. Come gli succedeva spesso, la sua mente cominciò a divagare. Il suo principale problema negli studi non era lo scarso interesse, ma la mancanza di concentrazione. Sovente, scorrendo un testo sottopostogli dal precettore, doveva fermarsi più volte e ricominciare a leggere. Tutto ciò perché all’improvviso si rendeva conto che i propri occhi stavano passando in rassegna parole vuote. Era la sua mente che, troppo veloce, faceva fatica a seguire la lettura. Questo non gli accadeva, però, quando, nel tempo libero, si trovava tra le mani libri che aveva scelto lui stesso.

    Il fratellastro si accorse quasi subito che il pensiero del ragazzino era già altrove e lo stuzzicò: – Se vuoi fare il viaggiatore, comincia dalle calli sotto casa. Non pensare subito al Catai.

    A quell’affermazione, il ragazzo si voltò di scatto a fissare Nicolò. Sembrava sorpreso.

    – Ho trovato Il milione sotto il tuo cuscino.

    Jacopo sobbalzò: – Non devi dirlo a nessuno.

    – A chi vuoi che lo dica? Ma, soprattutto, a chi vuoi che interessi?

    – Giura!

    – Sì, – disse distrattamente Nicolò. Poi si alzò in piedi e si avvicinò alle mensole, dov’erano appoggiati altri libri: – Lo sai che la maggior parte delle cose che vi sono scritte sono stupidaggini, vero?

    – Non è così.

    – Non dico mica che siano tutte invenzioni. È solo che c’è qualche volo di fantasia, dai.

    – Sei stato nel Catai? – disse con un’insolita aria di sfida il ragazzo.

    – Non c’è bisogno di andare all’altro capo del mondo, per sapere che non esistono donne con più di due mammelle, – replicò Nicolò ridendo.

    Jacopo fu contagiato dalla risata del fratellastro: – Non l’hai neanche letto.

    – Non ho bisogno di leggere l’Odissea in greco per sapere che i ciclopi non esistono. Io per Venezia non ne ho mai visti… e ti posso assicurare che, di questi tempi, in città si vede di tutto.

    Il ragazzo, divertito, batté il palmo della mano sullo scrittoio.

    Nicolò, all’improvviso, si fece serio e sembrò esitare prima di parlare: – L’unico consiglio che ti do è… cerca sempre di ragionare con la tua testa, – poi distolse lo sguardo da lui, quasi con imbarazzo, – credi fermamente solo in quello che vedi con i tuoi occhi. Sii sempre curioso di tutto ma non prestare fede a nessuno.

    – Padre Venanzio dice che la cosa più importante è proprio la fede.

    Tornò il ghigno ironico sul viso di Nicolò: – I preti…

    Passarono alcuni attimi di silenzio, poi Jacopo disse: – Padre Venanzio dice che tu non hai fede in nulla.

    Nicolò si alzò, impugnò la spada che aveva con sé e fece il gesto di estrarla: – Ho fede in questa. E in me stesso.

    Il ragazzino, senza distogliere lo sguardo dall’arma, disse: – M’insegni a usarla?

    – Non sono cose da bambini queste.

    – Ma non sono un bambino. Ho quasi quindici anni.

    – Appunto!

    – Dai, fammi vedere come s’impugna. Non lo dirò a nessuno.

    – Ah, per me lo puoi dire a chi ti pare… sono in casa mia, –

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