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Frammenti di storia dal mondo antico
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E-book482 pagine6 ore

Frammenti di storia dal mondo antico

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Info su questo ebook

Come le ciliegie, una tira l’altra, così questi frammenti, ne leggi uno e senti l’immediato bisogno di iniziare il successivo; però, attenzione a non esagerare, usare prudenza, possono creare dipendenza. In effetti, sono un caleidoscopio di storie di storia, multiformi, vivaci, che vagano nel tempo e nello spazio e attraggono in modo irresistibile, basta scorrere l’indice
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2023
ISBN9791222471792
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    Anteprima del libro

    Frammenti di storia dal mondo antico - Reginelli Antero

    © Copyright 2023 by Antero Reginelli

    Via Enrico Ferri 16

    00046 Grottaferrata - Roma

    e-mail: anteroreginelli@yahoo.it

    Finito di scrivere a novembre del 2023

    Indice

    Introduzione

    Orazi e Curiazi

    L'inflessibilità di Tito Manlio Torquato

    Il concepimento di Alessandro Magno

    Alessandro il Molosso, zio del Magno

    Criminose pratiche femminili

    L’incontro tra Cesare e Cleopatra

    Enkidu

    Hannibal ad portas

    Democrazia, Oligarchia o Monarchia

    La vittoria di Pirro

    Il ratto delle Sabine

    Il rapimento di Elena (o fu una fuga)

    Menenio Agrippa, lo stomaco e le membra

    La cecità del Faraone Ferone

    Silla insultato

    Due Tiranni greci

    Policrate

    Periandro

    Il diluvio universale secondo i Sumeri

    Le oche del Campidoglio

    Ricco come Creso

    Alessandro Magno incontra Diogene

    Giulio Cesare catturato dai pirati

    Oronta

    Lo scandalo Postumio

    Un amico di Dario

    Niente più carcere o schiavitù per debiti

    Il canto delle Sirene

    Ponte sul Reno

    Il primo sbarco dei Romani in Gran Bretagna

    Gli eserciti di Cambise

    La spedizione in Etiopia

    L’armata perduta di Cambise

    La madre di Coriolano

    Filippide e la maratona

    Vuoi venire a Roma, Giunone?

    Alea iacta est

    La battaglia delle Termopili

    Brenno e Furio Camillo: Vae victis!

    Le Forche Caudine

    Il nodo di Gordio

    Veni, vidi, vici

    Cinque donne dei primi tempi dell’Impero

    Giulia

    Agrippina Maggiore

    Agrippina Minore

    Messalina

    Poppea

    Frammenti di storia di altre donne

    Cornelia, madre dei Gracchi

    Semiramide

    Sempronia

    Ipazia

    Sofonisba

    Elena, Sant’Elena

    La Vestale Minucia

    Medea

    Le Idi di Marzo

    O tempora, o mores!

    Le abitudini di alcuni antichi popoli

    Le abitudini dei Romani alla fine del 300 dopo Cristo

    Il primo saccheggio di Roma Imperiale

    Re Mida

    Un frammento del 1200

    In hoc signo vinces

    Galla Placidia e Ataulfo

    …del Pelide Achille l’ira funesta

    Pecunia non olet

    Giacinto

    Il cavallo di Troia

    Due frammenti dal 1500

    La disfida di Barletta

    Maramaldo, vile tu uccidi un uomo morto

    Frammenti di personaggi negativi dell’antichità

    Erode

    Giuda

    Attila

    Eroi ed eroine

    Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia

    Cincinnato

    Pietro Micca

    La Ninfa e il Re

    I fratelli Fileni, cartaginesi

    Petelia (Strongoli)

    Thalassa, thalassa

    Multi frammenti per i romani….anche per gli altri

    Le stazioni della Metro di Roma, Linea A

    Introduzione

    Come le ciliegie, una tira l’altra, così questi frammenti, ne leggi uno e senti l’immediato bisogno di iniziare il successivo; però, attenzione a non esagerare, usare prudenza, possono creare dipendenza. In effetti, sono un caleidoscopio di storie di storia, multiformi, vivaci, che vagano nel tempo e nello spazio e attraggono in modo irresistibile, basta scorrere l’indice, che per comodità aggiungo: Orazi e Curiazi; L'inflessibilità di Tito Manlio Torquato, Il concepimento di Alessandro Magno; Alessandro il Molosso, zio del Magno; Criminose pratiche femminili; L’incontro tra Cesare e Cleopatra; Enkidu; Hannibal ad portas; Democrazia, Oligarchia o Monarchia; La vittoria di Pirro; Il ratto delle Sabine; Il rapimento di Elena (o fu una fuga); Menenio Agrippa, lo stomaco e le membra; La cecità del Faraone Ferone; Silla insultato; Due Tiranni greci, Policrate, Periandro; Il diluvio universale secondo i Sumeri; Le oche del Campidoglio; Ricco come Creso; Alessandro Magno incontra Diogene; Giulio Cesare catturato dai pirati; Oronta; Lo scandalo Postumio; Un amico di Dario; Niente più carcere o schiavitù per debiti; Il canto delle Sirene; Ponte sul Reno; Il primo sbarco dei Romani in Gran Bretagna; Gli eserciti di Cambise, La spedizione in Etiopia, L’armata perduta di Cambise; La madre di Coriolano; Filippide e la maratona; Vuoi venire a Roma, Giunone?; Alea iacta est; La battaglia delle Termopili; Brenno e Furio Camillo: Vae victis!; Le Forche Caudine; Il nodo di Gordio; Veni, vidi, vici; Cinque donne dei primi tempi dell’Impero, Giulia, Agrippina Maggiore, Agrippina Minore, Messalina, Poppea; Frammenti di storia di altre donne, Cornelia, madre dei Gracchi, Semiramide, Sempronia, Ipazia, Sofonisba, Elena, Sant’Elena, La Vestale Minucia, Medea; Le Idi di Marzo; O tempora, o mores!; Le abitudini di alcuni antichi popoli; Le abitudini dei Romani alla fine del 300 dopo Cristo; Il primo saccheggio di Roma Imperiale; Re Mida; Un frammento del 1200; In hoc signo vinces; Galla Placidia e Ataulfo; …del Pelide Achille l’ira funesta; Pecunia non olet; Giacinto; Il cavallo di Troia; Due frammenti dal 1500, La disfida di Barletta, Maramaldo, vile tu uccidi un uomo morto; Frammenti di personaggi negativi dell’antichità, Erode, Giuda, Attila; Eroi ed eroine, Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, Cincinnato, Pietro Micca; La Ninfa e il Re; I fratelli Fileni, cartaginesi; Petelia (Strongoli); Thalassa, thalassa; Multi frammenti per i romani…….anche per gli altri. Le stazioni della Metro di Roma, Linea A……..Buona lettura.

    Orazi e Curiazi

    Tullo Ostilio, il terzo Re di Roma, era un vero guerriero, molto diverso rispetto al predecessore, il religioso Numa Pompilio, addirittura più bellicoso di Romolo. La giovane età, la forza e la sete di gloria, ereditata dal nonno Ostio, lo spingevano ad agire, soprattutto in campo militare. Un tipo così combattivo non poteva non pensare che l’assenza di guerre, frutto della politica di Numa e l’ozio prolungato, avrebbero rammollito Roma, e il popolo, in modo irreparabile, per cui pensava solo a costruire pretesti per scatenare un qualche conflitto contro una delle città vicine.

    Trascorse del tempo, poi accadde che un giorno alcuni contadini Romani razziarono del bestiame in territorio Albano e, subito dopo, gli Albani restituirono la bravata compiendo una rapida e fruttuosa scorreria nei dintorni di Roma. In quel periodo Alba Longa era governata da Caio Cluilio.

    Entrambe le parti mandarono subito, quasi nello stesso tempo, delle delegazioni a chiedere la restituzione della refurtiva. Tullo, però, aveva ordinato ai suoi ambasciatori di fare presto in modo da portare a termine la missione prima degli Albani: era certo che Cluilio si sarebbe opposto ad ogni tipo di risarcimento così avrebbe avuto la scusa per risolvere la faccenda con la guerra. I rappresentanti di Alba invece se la presero comoda: furono ricevuti con amabile cortesia da Tullo e parteciparono senza prescia al banchetto offerto dal Re. Nel frattempo gli ambasciatori Romani avevano presentato le loro richieste a Cluilio. Di fronte al secco rifiuto da parte dell’Albano, si erano sbrigati a minacciare di usare l’esercito dopo trenta giorni: era la formula di allora per dichiarare guerra.

    Tornati a Roma alla svelta riferirono l’esito dell’incontro a Tullo. Era quello che sperava: allora invitò i delegati di Cluilio a chiarire il motivo della loro visita. Ignari di quanto accaduto, gli Albani cominciarono un lungo discorso, formale. In sostanza, si scusarono di dover usare parole spiacevoli per le orecchie di Ostilio ma gli ordini erano ordini: esigevano la consegna del bestiame sottratto ai loro contadini, in caso di risposta negativa, annunciavano che avrebbero usato le armi per riavere indietro il maltolto. Al che Ostilio replicò:

    Andatevene, tornate dal vostro Re e ditegli che Tullo Ostilio, Re di Roma, chiama a testimoniare gli Dei su chi dei due è stato il primo a scacciare con sdegno i delegati inviati a reclamare quanto razziato, in modo tale che gli Onnipotenti riversino sul suo popolo tutte le disgrazie della guerra, ormai inevitabile, che ci sarà tra noi.

    I rappresentanti di Alba se ne tornarono indietro a riferire la risposta a Cluilio.

    Primavera del 667 avanti Cristo: i due i popoli si prepararono al conflitto. Era come affrontare una vera e propria guerra civile, addirittura quasi uno scontro tra padri e figli. Avevano avi in comune: i Troiani di Enea, anzi, i Romani discendevano addirittura da Alba Longa. Inoltre, i rapporti interpersonali tra i giovani delle due città erano molto frequenti e amichevoli.

    Gli Albani aprirono le danze: invasero il territorio romano con un grosso esercito, forte e agguerrito. Sistemarono l'accampamento a non più di 8 chilometri da Roma e scavarono tutta intorno una trincea, per alcuni secoli chiamata Fossa Cluilia dal nome del Re, fino a quando, con il passare del tempo, scomparvero fossato e nome. Qualche giorno dopo, però, Cluilio morì e gli Albani nominarono Dittatore Mezio Fufezio. Se mai ce ne fosse stato bisogno, la scomparsa del Re avversario infervorò il già battagliero Ostilio: disse che la vendetta divina aveva cominciato a colpire gli Albani iniziando proprio dal comandante, responsabile di aver scatenato la guerra. Così, certo della vittoria, di notte, non visto, bypassò l'accampamento ed entrò nel territorio di Alba. Una mossa abile: costrinse Mezio a sloggiare in fretta per guidare le truppe, il più velocemente possibile, a bloccare i Romani.

    Fece giusto in tempo.

    Gli eserciti stanno prendendo posizione in pianura, guidati dai rispettivi comandanti: a quei tempi Re e Dittatori partecipavano di persona ai combattimenti, in prima linea, spada in pugno.

    C’è tensione nei due schieramenti ma ecco uscire dalle linee Albane un soldato con i simboli della pace. Vuole parlamentare.

    Si avvicina e dice a Tullo Ostilio che, prima dello scontro, Mezio Fufezio ritiene opportuno avere un colloquio a quattrocchi con lui: ha una proposta da fargli. Anche se pensa siano vane ciance, che l’incontro si sarebbe concluso con un nulla di fatto, Ostilio accetta d’incontrare Mezio, intanto, però, sistema le truppe in formazione di battaglia.

    Gli Albani si piazzano di fronte.

    Al termine delle manovre, i due capi, scortati da un pugno di nobili, avanzano verso il centro del campo. Il primo a parlare è l'Albano:

    Questa guerra è stata causata, a detta del nostro Re Cluilio, dalle vostre razzie nel nostro territorio e dal bottino non restituito, nonostante le esplicite richieste. Anche per te, Tullo, credo che i motivi non siano diversi. Ma se vogliamo dirla tutta e non fare inutili giri di parole, è la sete di potere che ha spinto voi due, Re vicini con vincoli di consanguineità, quasi fratelli, ad impugnare le armi. Non è mia intenzione giudicare chi abbia torto o ragione, chi abbia provocato la guerra e chi risposto. Non sono un giudice, sono soltanto il generale scelto dagli Albani per portare avanti le operazioni belliche. Però, c’è una cosa che vorrei farti notare: la potenza dei vicini Etruschi. Li conosci meglio tu che vivi ai loro confini. Nelle battaglie terrestri sono molto forti, in quelle di mare non hanno, addirittura, rivali. Quindi, valuta con attenzione quello che ti dico: nel momento in cui daremo inizio alla battaglia, gli Etruschi se ne staranno tranquilli ad aspettare che i nostri eserciti si massacrino, poi ci azzanneranno non appena saremo usciti dalla guerra con le ossa rotte. Assaliranno e sconfiggeranno sia i vincitori che i vinti. Che senso ha correre il rischio di perdere il potere e sprofondare nella schiavitù degli Etruschi? Non ne abbiamo a sufficienza di libertà? Vediamo, dunque, di trovare un modo incruento, senza inutili spargimenti di sangue, per stabilire tra Albani e Romani chi governerà sull'altro: in fondo siamo popoli fratelli.

    Discorso lungimirante, assennato: l’idea non dispiace a Tullo, nonostante per indole sia più propenso alla battaglia, anche perché è certo di vincere. Mentre i due discutono su come risolvere la questione, la fortuna fornisce loro una soluzione.

    Per una bizzarra volontà del destino, in entrambi gli eserciti ci sono tre fratelli gemelli, pressappoco della stessa età e di pari forza: gli Orazi, Romani, e i Curiazi, Albani. Tullo Ostilio e Mezio Fufezio ne discutono e si accordano di confinare la guerra ad un duello a tre: la città della parte vittoriosa avrebbe governato sull’altra.

    I gemelli accettano, orgogliosi, i comandanti stipulano l’accordo, lo sigillano con un solenne giuramento e stabiliscono il tempo e il luogo dello scontro.

    Ora, la parola alle armi. I sei si preparano a combattere un duello inedito, con una posta in palio altissima: il destino di due città, di due popoli.

    Da ambo le parti i soldati incitano i loro campioni. Gli ricordano che gli Dei, la patria, i genitori e i concittadini presenti e, perfino, quelli rimasti a casa hanno gli occhi puntati sulle loro armi e sulle loro braccia. E i fratelli, già focosi di carattere, si esaltano, eccitati dalle urla di chi li sprona. Muti gli eserciti piazzati di fronte agli accampamenti, gli uomini sono in ansia, non per un pericolo imminente che li minaccia, ma per l’importanza del duello e per la loro impotenza: la prestazione di tre soldati avrebbe deciso il futuro di tutti, anche del loro, che non possono partecipare alla sfida, se non con le urla d’incoraggiamento. Tesi, inquieti, attenti, si concentrano sul confronto che sta per iniziare.

    Finalmente, viene dato il segnale, i sei giovani avanzano nello spazio in mezzo agli schieramenti, compatti come battaglioni pronti allo scontro: nel loro animo c’è lo spirito di due interi popoli. Né i gemelli Romani né i tre Albani si preoccupano per quello che gli potrebbe capitare, pensano al domani di Roma e di Alba Longa: dipende solo dalle loro capacità, dalla loro forza dominare o essere dominati.

    Appena al primo contatto risuonano le armi e scintillano le lame agli spettatori si gela il sangue nelle vene: nessuna delle due parti ha avuto la meglio. I soldati trattengono il respiro, muti, sudano freddo. Il combattimento prosegue: esito incerto. Grande spettacolo i gesti atletici dei corpi, il rapido agitare dei giavellotti, il movimento degli scudi, le spade vibrate in aria e il sangue dai primi tagli. Poco dopo, però, la svolta: due Orazi, dopo aver ferito i tre Curiazi, cadono in rapida sequenza, uno a fianco dell’altro, colpiti a morte.

    Un urlo di gioia si libera tra le fila di Alba, mentre i Romani, persa ormai ogni speranza, seguono con lo sguardo, sbigottiti e increduli, il loro ultimo campione, il terzo superstite circondato dagli avversari: è la fine, pensano. In effetti, sebbene sia l’unico illeso, non può da solo fronteggiare i tre insieme, ma il Romano ricorre ad un’astuzia, inventa un espediente per affrontarli uno per volta.

    Scaltro, finge di fuggire, si mette a correre pensando che sarebbe stato inseguito ma l’avrebbero fatto ognuno a velocità diversa, quella consentita dalla ferita subita. Allontanatosi di corsa dal posto in cui ha combattuto, si volta, vede che gli avversari lo rincorrono, uno piuttosto distante dall’altro. Rallenta, il primo si avvicina, gli è quasi addosso, all’improvviso si ferma, aggredisce l’avversario con estrema violenza e mentre gli Albani urlano ai due Curiazi di accorrere in aiuto del fratello in difficoltà per la ferita, il Romano lo uccide e si catapulta ad affrontare il secondo. Si alza un boato, quello di chi passa dalla disperazione all’euforia. I compagni incitano il loro uomo e lui velocizza l’azione. Prima che sopraggiunga il terzo, peraltro abbastanza vicino, lo assalta. La lotta è breve: un colpo di spada trapassa da parte a parte pure il secondo. Ora la battaglia è uno contro uno, alla pari, però non con la stessa speranza di vincere né con uguale forza nelle gambe e nelle braccia. Il Romano, illeso, gagliardo ed eccitato dal doppio successo, ha l’energia necessaria per imporsi anche nell’ultima sfida, quella conclusiva. L’Albano, debilitato dalle ferite e dalla corsa, ha negli occhi il corpo trafitto dei fratelli appena caduti, si trascina, ormai vinto, verso l'avversario.

    In verità, l’ultimo non è un combattimento. L’Orazio, arrivato vicino all’avversario, grida esultando:

    Ho già immolato due vittime alle anime dei miei fratelli, la terza la voglio offrire a questa guerra. Che Roma possa regnare su Alba Longa!

    L'Albano riesce a malapena a tenere le armi in mano, il Romano, con un violento colpo dall’alto verso il basso, gli ficca la spada in gola, tra le urla di esultanza dei compagni. E mentre il vincitore spoglia il cadavere e quello degli altri due, i soldati capitolini lo acclamano con un’ovazione di immensa gratitudine, poi lo accolgono tra loro con una gioia molto più grande di quanto era stata la disperazione.

    Il singolare duello è terminato: ciascun esercito seppellisce i propri morti, con sentimenti molto diversi; ai Romani spetta la sovranità su Alba Longa; agli Albani la sottomissione ad un potere esterno, anche se di fratelli.

    Le tombe furono erette laddove ciascuno era caduto: le due romane in un sito più vicino ad Alba, le tre Albane verso Roma, però, distanti tra loro, dove si erano svolti i singoli combattimenti.

    Prima di lasciare il campo di battaglia, l’avvilito Mezio Fufezio chiese ad Ostilio se avesse qualche particolare compito da svolgere e il Re gli ordinò di tenere i suoi giovani in armi perché avrebbe avuto bisogno di loro in caso di guerra contro Veio. Quindi gli eserciti furono ricondotti prima nei rispettivi accampamenti poi nelle città.

    Nei libri di scuola del secolo scorso, il frammento di storia degli Orazi e dei Curiazi finiva qui, e così sembrerebbe, invece ha un seguito.

    Alla testa dell’esercito che rientrava a Roma marciava Orazio, vincitore, con il suo triplice bottino: armi, vestiti e armature dei soldati Albani sconfitti. Era al settimo cielo. Giunto fuori Porta Capena gli andò incontro una folla di gente in festa, tra cui la sorella ancora nubile, promessa sposa ad uno dei gemelli Curiazi. Appena la giovane riconobbe sulle spalle del fratello il mantello militare del fidanzato, che lei stessa aveva confezionato, si sciolse i capelli, pianse e, sofferente, pronunciò il nome dell’innamorato, più volte e in tono sommesso. Più Orazio si avvicinava, più i lamenti della sorella crescevano d’intensità, fino a che cominciò a gridare in lacrime. In quel clima di esultanza per la vittoria e di gioia della gente, proprio non ci voleva quel pianto accorato della sorella del vincitore. Già di per sé irascibile e impetuoso, Orazio lì per lì fu parecchio irritato dai singhiozzi poi, quando divennero disperati, perse del tutto la testa. Estrasse la spada e, in delirio di onnipotenza, trapassò da parte a parte la ragazza, gridandole parole di rimprovero:

    Vattene dal fidanzato con il tuo giovanile amore, tu che non pensi ai fratelli morti, a quello vivo e alla patria. Possa morire in questo modo ogni romana che piangerà i nemici.

    Credeva che tutto gli fosse concesso dopo la prestigiosa vittoria.

    Eroe, salvatore di Roma ma il delitto era proprio atroce, ai Senatori e al popolo sembrò orribile, anche se la colpa era attenuata dal recente merito. Tuttavia, fu portato dal Re per essere processato.

    Questione molto delicata: un impiccio. Ostilio non voleva assumersi la responsabilità di emettere una sentenza impopolare con condanna a morte del valoroso soldato, per cui convocò l'Assemblea del popolo e disse:

    Nel rispetto della legge, nomino due cittadini i quali dovranno processare Orazio per lesa maestà.

    La norma legislativa per tale reato era severissima: I delitti di lesa maestà possono essere giudicati da due cittadini. Se l'imputato si appella al popolo, si dia luogo a un dibattito. In caso di condanna, si proceda a coprire il capo del punito, quindi sia appeso ad un albero secco, entro o fuori le mura, e frustato fino a morire.

    Lo stesso giorno, a quei tempi i processi erano rapidissimi, vennero nominati i duumviri incaricati del giudizio. C’era poco da fare, ai sensi della legge sembrava impossibile giungere ad un verdetto di assoluzione, anche di un eroe emerito. Infatti, lo giudicarono colpevole. Chiamarono l’imputato e uno di essi sentenziò:

    Orazio, ti condanno per lesa maestà. Vai Littore, incappuccialo, legagli le mani, appendilo ad un albero e fustigalo fino alla morte.

    I Littori erano i membri di una speciale classe di servitori civili, alti, grossi e muscolosi, che avevano il compito di proteggere i Magistrati. Gli camminavano davanti portando i fasces, un fascio cilindrico di verghe di betulla bianca, a simboleggiare la facoltà di punire, legate assieme da nastri rossi di cuoio in segno di sovranità e unione, con infissa un'ascia di bronzo che rappresentava il potere di vita e di morte. Insomma, erano gli odierni corazzieri, bodyguard delle Autorità, con un’arma piena di simboli.

    Il Littore gli si era avvicinato, stava per annodargli la corda quando Orazio, su sollecitazione del Re, indulgente con l’eroe nell'applicazione della severa legge, anche perché di carattere simile all’imputato, disse:

    Mi appello al popolo.

    E la condanna fu sospesa in attesa dell’Assemblea popolare.

    In una piazza strapiena, la mattina appresso si tenne il dibattito e la testimonianza del padre Publio Orazio fece scalpore, la gente ne rimase colpita. L’uomo sostenne che l’uccisione della figlia era stata giusta e aggiunse che se così non fosse stato, lui, in forza dell’autorità paterna, avrebbe già punito Orazio con le sue stesse mani. Poi supplicò il popolo di non privare anche dell'ultimo figlio un uomo che fino a poco tempo prima era circondato da una numerosa prole. E mentre parlava, Publio andò ad abbracciare il giovane eroe: lo strinse forte e, indicando le spoglie dei Curiazi appese nel punto che si chiama Trofeo di Orazio, esclamò ad alta voce:

    Ce la farete, o Quiriti, a vedere legato sotto una forca e frustato a morte, questo soldato vittorioso che ieri avete osannato con un'ovazione trionfale? Uno spettacolo che neanche gli Albani riuscirebbero a sopportare. Vai Littore, lega le mani del ragazzo che ha consegnato Alba Longa ai Romani. Vai, incappuccia la testa al salvatore del popolo e appendilo ad un albero rinsecchito qui a Roma. Oppure frustalo fuori città, tra le spoglie dei nemici vinti, vicino le tombe dei Curiazi. Ma ditemi, in quale posto potreste eseguire la sentenza senza che la gloria di questo giovane vi faccia capire l’assurdità di un simile verdetto?

    E sbottò a piangere.

    Incapace di resistere alle lacrime del padre e al coraggio incrollabile del figlio di fronte al pericolo, il popolo non condannò Orazio, più per l'ammirazione suscitata dall’impresa compiuta contro i Curiazi che per senso di giustizia. Però, per espiare il delitto commesso in flagrante, venne ordinato al padre di purificare il figlio. Allora, Publio offrì dei sacrifici liberatori che da quel momento divennero una caratteristica degli Orazi. Poi, in una via pubblica, mise una trave di traverso e ci fece passare sotto il figlio a capo coperto, come si fosse trattato di un vero e proprio giogo. La struttura venne chiamata il travicello della sorella.

    Alla ragazza, costruirono un sepolcro di pietre quadrate nello stesso posto dove era caduta trafitta dal fratello.

    L'inflessibilità di Tito Manlio Torquato

    Qualche secolo più tardi, un altro padre romano si comporta in modo molto diverso da Publio Orazio.

    Nel 361 avanti Cristo, in una delle tante guerre tra i Romani e i Galli, i barbari si accamparono proprio alle porte di Roma, dalle parti del fiume Aniene. Le legioni uscirono dalla città per bloccarli. Passarono un paio di giorni di calma piatta, poi i Galli schierarono l’esercito in formazione di battaglia e il Dittatore Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino ordinò ai suoi soldati di sistemarsi di fronte ai nemici, in posizione favorevole.

    Silenzio in attesa del segnale di combattimento.

    Ma ecco che un Gallo di notevole prestanza fisica, alto, muscoloso e bene armato, esce dalla formazione, si avvicina alle legioni e, arrivato a portata di voce, urla:

    Romani! Se ne avete il coraggio, mandate a combattere contro me chi ritenete il più forte tra voi!

    Senza battere ciglio, il giovane Tito Manlio, Tribuno Militare (Ufficiale delle legioni) va dal comandante e gli dice:

    Ave Console, se mi autorizzi, voglio mostrare a quel barbaro la qualità di noi Romani.

    Il comandante glielo consente con un cenno della testa e aggiunge:

    Tieni alto l’onore di Roma!

    Inizia il duello.

    I due si avvicinano, il barbaro è imponente, gigantesco, sovrasta il Romano, lo guarda con disprezzo e sferra un fendente di taglio che va a vuoto. Allora Tito Manlio, veloce come una saetta e tenendo alta la punta della spada, colpisce con il proprio scudo la parte bassa di quello avversario, poi, con due rapidi colpi ravvicinati, sferrati uno dopo l'altro, gli trapassa il ventre e l'inguine facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua immensa mole. Ma non strazia il corpo ormai morto, né prende le spoglie, si limita a togliergli la collana (torque) e a mettersela al collo, coperta com’è di sangue.

    Da allora il giovane prese il soprannome di Torquato (da torque), trasmesso in seguito ai suoi discendenti.

    Quella prova di bravura del legionario fu così determinante che l'esercito dei Galli, la notte successiva, lasciò l'accampamento: si diresse nel territorio dei Tiburtini.

    Rientrate le legioni a Roma, Tito Manlio ormai diventato Torquato, fu accolto con tutti gli onori dal popolo festante.

    Per l’atto eroico e per le indubbie qualità, soprattutto in campo militare, Torquato venne in seguito nominato due volte Dittatore ed eletto tre volte Console.

    Ma veniamo al dunque: nel 340 avanti Cristo, durante il terzo Consolato, il Senato e il popolo dichiararono guerra ai Latini, cosicché i due Consoli, l’altro era Publio Decio Mure, arruolarono due legioni, attraversarono il territorio dei Marsi e dei Peligni e posero le tende dalle parti di Capua, nei pressi dell’accampamento degli avversari.

    Erano preoccupati i Romani per il fatto di dover combattere contro i Latini, un popolo che parlava la loro stessa lingua, aveva medesime tradizioni, identico tipo di armamenti e, soprattutto, un equivalente comportamento in battaglia e stessa esperienza militare, per cui i Consoli decisero di condurre la guerra con estrema inflessibilità e con una rigida disciplina militare, come quella dell’antica tradizione romana. Al fine di non commettere errori ordinarono che nessuno poteva abbandonare il proprio posto e assaltare i nemici senza un preciso ordine: pena la morte.

    Aveva voluto il destino che tra i Tribuni Militari dei vari squadroni inviati in tutte le direzioni a perlustrare i dintorni ci fosse Tito Manlio, il figlio del Console. Il giovane si era spinto con i suoi cavalieri al di sopra degli accampamenti Latini e si trovò a distanza di lancio di giavellotto dal posto di guardia più vicino. Il settore era presidiato dai cavalieri di Tuscolo agli ordini di Gemino Mecio, uomo famoso tra i compagni per i nobili natali e per il passato di valoroso combattente. Riconosciuti i cavalieri Romani e il figlio del Console alla testa del drappello - si conoscevano tutti tra loro, specie gli uomini più noti - gli disse:

    Mica vorrete davvero combattere la guerra contro i Latini con un solo squadrone di cavalleria? I Consoli e gli eserciti preferiscono non muoversi? Forse hanno paura?

    Non ti preoccupare, arriveranno a tempo debito - replicò Manlio - e con loro verrà anche Giove in persona, più forte e potente che mai, testimone degli accordi che avete violato. Se al Lago Regillo abbiamo massacrato tanti di voi fino alla nausea, anche qui faremo in modo che rimpiangerete di averci affrontato in battaglia.

    Udite queste parole, Gemino avanzò in sella poco oltre la linea dei compagni e domandò:

    Mentre aspettiamo che venga quel giorno, dimostra il tuo coraggio ora, battiti con me in modo che già dall’esito del duello la gente veda quanto sia superiore un cavaliere Latino ad uno Romano.

    Il carattere orgoglioso del giovane Manlio venne sollecitato dall’astio verso i Latini o forse dalla vergogna di rifiutare la sfida, o ancora dalla forza irresistibile del destino. E così, noncurante dell’ordine del padre Console, accettò di combattere un duello nel quale non avrebbe fatto molta differenza se avesse vinto o perso. Fecero allontanare gli altri cavalieri come per fare spazio allo spettacolo e i due sfidanti spronarono i cavalli l’uno contro l’altro, nel tratto di pianura davanti a loro. Andarono all’assalto con le lance distese, pronte a colpire. La punta dell’asta di Manlio sfiorò l’elmo dell’avversario, quella di Mecio finì oltre il collo del cavallo del Romano. Poi, girati i cavalli, nel secondo assalto Manlio piantò la punta del giavellotto tra le orecchie del cavallo del Tuscolano. L’animale, impazzito dal dolore, si alzò sulle zampe anteriori, scosse la testa con violenza e sbalzò di sella il cavaliere. Da terra, Mecio stava appoggiandosi all’asta e allo scudo, cercava di rimettersi in piedi dopo la caduta ma Manlio lo trapassò con il giavellotto. Gli entrò nella gola, uscì dal fianco e l’inchiodò a terra. Manlio vittorioso raccolse le spoglie, rientrò nei ranghi, accolto dai compagni di squadra con urla di gioia.

    Ritornarono nell’accampamento.

    Il giovane entrò immediatamente nella tenda del padre, senza sapere cosa il destino aveva stabilito per lui. Disse al Console che seduto, studiava una mappa poggiata sul tavolo.

    Padre, affinché tutti mi ritengano veramente tuo figlio, ti porto le spoglie di un cavaliere. Le ho strappate al corpo di Gemino Mecio del Tuscolo che mi ha sfidato a duello.

    Come il Console sentì queste parole, non guardò più il figlio, si alzò e ordinò al trombettiere di suonare l’adunata. I soldati si raccolsero in un baleno e il Console parlò in tono solenne:

    Tu, Tito Manlio, non hai avuto rispetto dell’autorità consolare né della patria potestà, hai trasgredito gli ordini, hai affrontato il nemico senza essere autorizzato. Con la tua iniziativa hai violato quella disciplina militare grazie alla quale la potenza di Roma è rimasta tale fino ad oggi. Ora mi costringi a scegliere tra lo Stato e me stesso, se io e te dobbiamo essere puniti per una tua colpa o piuttosto è l’Urbe a dover pagare un prezzo enormemente alto per una nostra negligenza. Oggi siamo costretti a creare un precedente molto penoso che però sarà d’aiuto ai giovani di domani. Quanto a me, sono addolorato non solo per l’affetto naturale che un padre ha verso i figli, anche perché sei un giovane valoroso, ma il tuo talento ti ha portato a cercare una falsa gloria. Visto che l’autorità consolare e la disciplina, messe in crisi dal tuo comportamento, devono essere ripristinate dalla tua condanna oppure del tutto cancellate dalla tua impunità e siccome penso che anche tu, se in te c’è una goccia del mio sangue, ti comporteresti allo stesso modo, venite Littori, legatelo al palo. Sia decapitato!

    Di fronte ad un ordine così spietato rimasero tutti senza fiato. Ogni soldato, ogni Tribuno, ogni Luogotenente fu bloccato più dalla paura che dalla disciplina. Tutti guardavano i Littori che legavano il ragazzo e la scure come fosse rivolta contro loro stessi. Ma quando si riebbero dallo stupore che li aveva tenuti immobili in silenzio, all’improvviso la mannaia troncò il collo del giovane: mentre il sangue sgorgava dal corpo reciso, dall’adunata esplosero voci in un lamento di dolore. Gemiti e lacrime.

    I soldati, in mesto corteo coprirono il corpo del giovane, costruirono una pira al di là della trincea e lo cremarono con tutti gli onori funebri che gli potevano offrire.

    Da quel giorno, e per l’avvenire, il rispetto degli ordini di Manlio rappresentarono un esempio di disciplina ma anche di crudele severità, eccessiva.

    Come prevedibile, la brutalità della punizione rese più ubbidienti i soldati, e non solo i servizi di guardia, i turni di sentinella e di picchetto vennero effettuati con maggiore attenzione, in più, quell’eccesso di rigore fornì un determinante aiuto nella fase conclusiva del conflitto, quando Romani e Latini arrivarono allo scontro in campo aperto.

    Alla fine i Consoli, portata vittoriosamente a termine la guerra e distribuite ricompense e punizioni in relazione ai meriti e alle colpe di ciascuno, rientrarono a Roma. Dicono che all’arrivo di Manlio Torquato gli andarono incontro soltanto gli anziani: i giovani, da quel giorno e per il resto della sua vita, lo odiarono per come si era comportato con il figlio.

    Il concepimento di Alessandro Magno

    Storici e scrittori dell’epoca sono sicuri che alla radice dell’albero genealogico di Alessandro poi diventato Magno, dal lato paterno, ci sia Giove, Amon per gli egiziani, o Ercole, comunque un Dio o un semidio. Da parte della madre Olimpiade, sostengono che discenda da Aiace: mica due genitori qualunque. Dunque, ottimo casato, che alla fine conta: antenati e famiglia danno una mano, non sempre ma spesso.

    Filippo Re dei Macedoni, il padre umano, o il ritenuto tale, insomma, quello che lo allevò, ancora giovane s'invaghì di Olimpiade, ragazza orfana, bella, molto religiosa e per questo ben vista dalle parti del Monte Olimpo. I due giovani s’incontrarono nell’isola di Samotracia, dove frequentavano gli esercizi misterici del culto degli Dei Cabiri, divinità della fertilità e protettori dei marinai, e s’innamorarono al primo sguardo, perdutamente, tant’è che decisero di sposarsi quasi subito, con il consenso di Aribba, fratello di Olimpiade.

    Forse si unirono in matrimonio nel 357 avanti Cristo, è certo, invece, che non fossero persone comuni e lo dimostrano alcuni eventi straordinari. Per esempio, la notte prima delle nozze, mentre la futura sposa riposava nella sua camera, a Palazzo sentirono il rimbombo di un tuono, un fragore molto forte e secco, subito dopo alla ragazza sembrò che un fulmine la colpisse in pancia, nel basso ventre, e da lì si accendesse un fuoco, diviso in più fiamme che si sparpagliarono in varie direzioni, poi si spensero. Un segno divino? Tuo figlio incendierà il mondo, le predissero i più famosi veggenti.

    Altro avvenimento: non molto tempo dopo il matrimonio, Re Filippo sognò di chiudere l’utero della moglie con un sigillo a forma di leone. Alcuni indovini lo interpretarono con sospetto e consigliarono a Filippo di controllare con maggiore attenzione Olimpiade: c’era aria di corna a Corte. Aristandro di Telmesso, il massimo tra i veggenti, invece, percepì e lo dichiarò, che la donna era incinta. Disse:

    Non si sigilla un vaso vuoto.

    E concluse la previsione con:

    Porta in grembo un bimbo: partorirà un figlio coraggioso, forte come un leone.

    Aristandro, ritenuto molto esperto nell’arte divinatoria, in seguito accompagnò Alessandro nella spedizione in Persia e gli predisse quasi tutti gli eventi più importanti, azzeccandoci quasi sempre, almeno così si dice.

    E non furono solo questi gli eventi prodigiosi: una sera, mentre Olimpiade dormiva, Filippo sbirciò dalla porta e vide un grosso serpente disteso sul letto, a fianco della moglie. Il rettile sonnecchiava tranquillo.

    Raccontano che la cosa non deliziò Filippo, anzi, più di ogni altra raffreddò le sue tenerezze amorose verso Olimpiade, tanto che da quel giorno dormì di rado insieme a lei.

    Non si sa se temesse qualche filtro stregato della ragazza o di rimanere vittima d’incantesimi o volesse evitare di avere rapporti con la moglie perché si sentiva indegno, convinto che li avesse con qualche essere di natura superiore a quella umana: un Dio, un semidio o uno stregone. Alcuni hanno interpretato la freddezza di Filippo con Olimpiade in un altro modo: spesso il comportamento delle donne Macedoni, specialmente delle bigotte, metteva a disagio gli uomini, a dirla tutta, pure un po’ paura. Praticavano il culto di Orfeo e Dionisio, erano possedute dallo loro spirito, per questo soprannominate Clodone e Mimallone, che vuol dire furiose e guerriere.

    Nelle cerimonie si esaltavano allo stesso modo delle ragazze della Tracia, dalle quali deriva il termine tracizzare per indicare liturgie sacre esagerate, esasperate e parecchio superstiziose. Olimpiade, poi, era un’integralista, maniacale, amava più delle altre i riti per venerare Orfeo e Dionisio, vere e proprie manifestazioni di fanatismo religioso, e ci partecipava in modo selvaggio, come un’invasata. Nelle celebrazioni portava serpenti addomesticati, i quali a volte strisciavano fuori dai canestri, si avvolgevano addosso a lei e alle altre. Spesso, andavano tutte in trance, cadevano in un delirio mistico che spaventava gli uomini. Sembravano streghe in estasi e i maschi Macedoni avevano un misto di riverenza, soggezione e timore per quelle donne possedute da chissà quale spirito divino.

    Comunque, dopo la strana visione del grosso rettile disteso nel letto della moglie, Filippo inviò Cherone di Megalopoli a Delfi per avere una predizione dall’oracolo. Tornò con la risposta di fare sacrifici a Zeus, che poi sarebbe Giove per i romani e Amon per gli egiziani, e di venerarlo in modo particolare.

    Alcuni storici sostengono che il Re perse l’occhio con il quale, attraverso la fessura della porta, aveva sbirciato il Dio in forma di serpente giacere con la donna. In effetti, Filippo ad una certa età divenne monocolo ma non si sa con certezza se la causa sia stata l’occhiata data al serpentone infilato sotto le lenzuola di Olimpiade. Comunque sia ben inteso, era una scena vietata alla vista dei comuni mortali.

    Le notizie sullo straordinario concepimento non si fermano a queste rivelazioni. Sostiene Eratostene che nel momento della partenza di Alessandro per la grande spedizione in Persia, la madre gli svelò, e solo a lui, il segreto di com’era rimasta incinta e lo esortò a compiere imprese degne della sua origine paterna. Altri sostengono che, invece, la regina abbia sempre negato la fecondazione divina, diceva che era tutta un’invenzione del figlio, chiacchiere messe in giro apposta per apparire di discendenza celeste, e che doveva smetterla di calunniarla con quella storia perché temeva che Giunone potesse ingelosirsi e diventarle nemica.

    Ma cara Olimpiade devi sapere che i concepimenti miracolosi erano

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