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Deus nobiscum: Per l'Impero di Roma
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E-book924 pagine14 ore

Deus nobiscum: Per l'Impero di Roma

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Info su questo ebook

V secolo d. C., l'Impero romano d'Occidente si dimena fra guerre, pestilenze, secessioni, scontri religiosi, lotte per il potere. Gli intrighi e i tradimenti sono all'ordine del giorno. Fra gli uomini e le donne che cercano di assurgere al potere supremo, si dibatte Bonifacio. Invischiato fra conflitti politici e militari, dovrà lottare anche contro la propria interiorità, scontrandosi con i tormenti che lacerano il suo animo costantemente combattuto fra cielo e terra, fra sincera fede, servizio all'Impero ed egoistico desiderio di gloria personale.
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2024
ISBN9791221482508
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    Anteprima del libro

    Deus nobiscum - Gaspare Fioretto

    Prologo

    Qualche anno prima dell’incalzare degli eventi di questa vicenda, sotto le mura dell'antica città greca di Massilia, fondazione di mitici coloni focesi, una grande battaglia, così grande che, forse, sarebbe stata immortalata, insieme ai suoi protagonisti, nei libri di storia.

    Placidamente e riccamente adagiatasi fra il pingue Rodano e l’opulento Mare Nostrum, la città, in virtù della sua felice posizione che l’aveva ben presto resa uno snodo commerciale di vitale importanza, si era rapidamente sviluppata, al punto da mantenere, all’arrivo dei Romani, piena autonomia e identità. Come se non bastassero i fattori economici, Massilia, insieme al suo antico emporio Arelate, si fregiava di una posizione strategica anche dal punto di vista militare: chi possedeva quelle perle incastonate tra mare e fiume, controllava, direttamente o indirettamente, tutte le vie di comunicazione che, attraverso la Gallia Narbonense, conducevano dall’Italia alla Spagna e viceversa. Ricca e prospera, Massilia era prossima e strettamente connessa ad Arelate, che, per volontà dell’imperatore Costantino, ospitava una delle zecche imperiali. Con il passare del tempo, Arelate aveva poi visto crescere sempre più, in concorrenza con la madrepatria, il suo ruolo politico, divenendo addirittura sede annuale del consiglio delle province della Gallia, dove si discutevano fondamentali affari pubblici e privati, tanto da convenirvi, unitamente ai più ricchi e influenti possidenti, i vertici dell’amministrazione gallica sia civile sia militare. Era divenuta, insomma, capitale della diocesi di Gallia, soppiantando in tale ruolo addirittura Treviri.

    Erano esattamente queste le ragioni per cui, in particolare negli ultimi anni, le due città partecipavano da protagoniste, loro malgrado, a importati eventi politici e militari. Ed erano esattamente queste le motivazioni per le quali, al momento in cui comincia questa storia, Massilia, proprio come Arelate appena un paio d’anni prima, era stretta d’assedio da un grosso esercito. Prendere Massilia, affacciata sul mare e lambita dal Rodano, significava sbloccare l’afflusso di grano dall’Africa, di cui gli assedianti, in quel momento, avevano un disperato bisogno.

    Nell’anno in cui erano consoli Flavio Lucio ed Eracliano, era sorta una contesa, che in realtà, pur in alcuni periodi sotterranea, perdurava da decenni. La contesa riguardava due popoli interi e, in quel momento, era personificata dai loro massimi rappresentanti: Ataulfo e Flavio Costanzo. Come si sarà intuito, i due popoli in questione erano i Visigoti e i Romani.

    Ataulfo, cognato del saccheggiatore di Roma Alarico, alla morte di quest’ultimo aveva preso le redini del potere e si era messo in testa, una volta occupata la Narbonense Prima, fulgidi progetti per sé e per i suoi. Fallito il tentativo di Alarico di giungere in Africa, Ataulfo non aveva infatti potuto far altro che attraversare l’Italia da nord a sud. Dal Bruzio, percorrendo tutta la penisola, aveva infine deciso che la Gallia poteva fare al caso suo e del popolo che guidava. Soluzione obbligata, ma dalla quale sperava di trarre il massimo vantaggio. Innanzitutto aveva preso a reclamare il rifornimento di grano promesso ad Alarico da Onorio, e mai concesso. Era questa una delle ragioni che aveva indotto il conquistatore di Roma a tentare di spostarsi in Africa. Il grano doveva arrivare infatti proprio da lì. Ma c’era stato un piccolo intoppo: il comes d’Africa, Eracliano, aveva pensato bene di ribellarsi all’autorità imperiale e, addirittura, di sbarcare in Italia con il fior fiore delle sue truppe. Inevitabile che il primo atto del ribelle fosse stato bloccare qualsiasi afflusso di grano. Nonostante fosse stato rapidamente disfatto, Eracliano, con la sua estemporanea secessione, non aveva fatto altro che inasprire la tensione. Dalla corte di Ravenna, per ovvie ragioni, era stato impossibile tener fede al patto con i Visigoti. Per Ataulfo, la cui posizione poteva da un momento all’altro deteriorarsi, non era però più tempo di indugiare. Per puntellarsi di fronte al popolo dei Visigoti e accrescere il suo potere contrattuale nei confronti dei Romani, aveva dapprincipio appoggiato la secessione di Giovino, proclamato imperatore nella Germania Superiore; ma poi aveva preso a giocare su due fronti, cercando di capire dove potesse raccogliere il frutto più succulento. Contemporaneamente, non a caso, aveva preso contatti anche con la corte di Ravenna. Fra momenti di diplomazia alternati a minacce, andava dicendo in giro, tutto gioviale ed espansivo, soprattutto dopo qualche bicchierino, di voler cancellare il nome stesso di Roma e fare di tutto il territorio romano un impero gotico di nome e di fatto. Al posto della Romània sarebbe sorta la Gotia e lui, Ataulfo, sarebbe divenuto il Cesare Augusto di questo nuovo impero. Così rinnovato il fatiscente Impero romano, anni gloriosi avrebbero atteso i Goti e i Romani insieme. Potrà apparire programma ambiziosetto, ma Ataulfo aveva le sue buone ragioni per essere ottimista. Teneva ancora presso di sé Attalo, innalzato alla porpora quattro anni addietro per volontà di Alarico in concorrenza con l’imperatore d’Occidente Onorio, e prontamente rispolverato. E poi, tesoro di ancor più inestimabile valore, Galla Placidia, sorella di Onorio. Non è difficile immaginare cosa ne volesse fare il re goto: trasformarla in sua sposa. Sarebbe stato il suggello all’unione fra i due popoli e la premessa, soprattutto se fosse nato un figlio maschio, dell’ascesa di Ataulfo ai vertici dell’Impero. Onorio, infatti, non aveva eredi. C’era però un problema: Flavio Costanzo, appunto. Elevato al grado di magister militum, massima carica militare, per volontà dello stesso Onorio, Costanzo, in appena tre anni, anche con l’aiuto dei Visigoti, aveva liberato l’imperatore d’Occidente da ben tre usurpatori: Massimo, Costantino e Giovino, le cui teste mozzate avevano elegantemente adornato i palazzi imperiali di Ravenna. Chiusa la partita con gli usurpatori, ora si volgeva alle popolazioni barbariche che scorazzavano liberamente fra Spagna e Gallia saccheggiando e devastando mezzo Impero, anche quando formalmente foederati, ovvero alleati di Roma. Si sarà a questo punto intuito che Costanzo non condividesse troppo enstusiasticamente i programmi di Ataulfo. Fra i primi verso cui aveva indirizzato la sua attenzione, guarda caso, proprio i Visigoti, anche perché Costanzo, ambizioso com’era, aveva lui pure messo gli occhi su Galla Placidia. Un vero affronto quello di Costanzo, che, fra le altre cose, non teneva in alcun conto l’impegno spontaneamente preso da Ataulfo contro Giovino, puntualmente fatto fuori, come grazioso omaggio, per conto dell’Impero d’Occidente. Non tenendo nella dovuta considerazione un simile servigio né quelli precedenti, il magister militum passava ora all’attacco. Dell’arrivo di grano e della concessione di terre in Gallia si parlava, ma a patto che prima fosse restituita Placidia. Di restituirla Ataulfo non aveva però alcuna intenzione. Ipocritamente, da entrambi i fronti, per una simile intransigenza si adducevano ragioni di Stato. Di un matrimonio con la principessa, sebbene fosse di dominio pubblico quanto entrambi la desiderassero come consorte, guai a farne cenno. Il re goto dunque, a conclusione di tutte queste considerazioni, aveva preso abbastanza male i segni di ostilità del magister militum romano e aveva reagito non solo occupando Tolosa e Narbona ma anche ponendo l’assedio a Massilia, da cui appunto siamo partiti.

    A Massilia, ovviamente, era di presidio una guarnigione, comandata da un giovane prefetto di venticinque anni, comandante della flotta lì stanziata. La titolatura completa, per chi volesse essere zelante in un’epoca in cui più altisonanti erano i titoli onorifici più si godeva di considerazione sociale, era praefectus militum musculariorum. Accanto alla funzione di prefetto, in realtà, svolgeva anche quella di tribuno in virtù delle truppe di terra generosamente concessegli da Costanzo in persona. Era proprio a tale prefetto a cui si rivolgeva un soldato di mezza età di nome Macrobio.

    Sono troppi, non possiamo resistere: l’unica possibilità è arrenderci.

    Il prefetto si sfilò il ricco elmo, abbassò il capo, si tenne il mento fra pollice e indice, e disse:

    Non se ne parla!

    Ma sono almeno seimila! Noi qui non più di mille! Se entrano, metteranno la città a ferro e fuoco, faranno una strage.

    Non accadrà! Il modo di vincere c’è: faremo una sortita!

    Una sortita? Siamo troppo pochi e la qualità degli armamenti e delle truppe…

    Dal mare! Quante navi ci sono alla fonda?

    Cinque navi da guerra: quattro triremi e una quinqueremi con le sue quattro picati.

    Sono poche!

    Appunto!

    Dobbiamo usare anche quelle mercantili!

    Mercantili? chiese perplesso il soldato: Ma per far cosa, esattamente?

    Li aggireremo! Di notte, li coglieremo di sorpresa. Presto diramerò l’ordine.

    Il soldato, ancora perplesso, ritornò da dove era venuto. Il giovane prefetto con cui aveva interloquito si chiamava Bonifacio. Uomo ricchissimo, era originario della Tracia. In Oriente aveva mosso i primi passi della carriera militare, per poi spostarsi in Occidente, dove, con la situazione estremamente intricata, paradossalmente le prospettive di ascesa erano più rapide e lusinghevoli. Sul momento, trovatosi lì quasi per caso, non aveva badato troppo al fatto che le cadute risultavano altrettanto rapide: a rotta di collo, viste le vertiginose altezze raggiunte in poco tempo. Era stato fra quelle truppe inviate quattro anni prima in Occidente per volontà del piccolo Teodosio II al fine di dar manforte a Onorio contro Alarico. Lì, in Occidente, dopo l’eccidio perpetrato contro Stilicone e i suoi seguaci, si erano aperti molti spiragli ai vertici della carriera civile e militare. Flavio Costanzo, assurto rapidamente al rango di magister militum, ne era un fulgido esempio. Aveva ottenuto tale carica nonostante fosse risaputo il suo legame con Stilicone, di cui condivideva pienamente la linea politica. Ciò non toglie che, in caso di necessità, fosse in grado di adattarsi di volta in volta alla situazione contingente. Era questo uno dei motivi dei suoi successi. Originario di Naisso, una di quelle aree dell’Impero in cui da secoli si attingevano abbondanti e valenti truppe, Costanzo non poteva che essere un autentico soldato. Nelle processioni pubbliche era sua abitudine tenere lo sguardo basso e starsene cupo e imbronciato. Aveva occhi perennemente spalancati, la testa grossa che, quando a cavallo, ciondolava pesantemente lungo la criniera dell’animale. Il suo sguardo, attento, vagava incessante a destra e a sinistra con la coda dell’occhio. Ai banchetti mutava radicalmente: si presentava allegro e affabile, tanto da gareggiare in lazzi e goliardie con i buffoni che spesso frequentavano la sua tavola. Uomo coraggioso, Costanzo era esperto di intrighi e di arte militare. Era frugale, parsimonioso, rifuggiva agi e trattamenti di favore. Non disdegnava la compagnia dei soldati, con i quali era sempre a proprio agio, né di prender parte in prima persona agli scontri. Era per tali ragioni molto amato dai militari, un po’ meno dalla raffinata corte di Ravenna con tutta la sua pletora di dignitari, ancelle ed eunuchi. Non pochi, per tutte queste qualità, lo vedevano adatto, prima o poi, a ricoprire il ruolo di imperatore, un imperatore soldato, esattamente ciò che non era Onorio. Bonifacio, nonostante la sua indole molto differente, aveva deciso di legarsi a tale uomo, anche perché ne condivideva la visione a proposito dei barbari e della linea religiosa: integrazione dei barbari, anche se con più moderazione rispetto a Stilicone e Teodosio; tolleranza in ambito religioso, evitando di immischiarsi nelle accese dispute fra cristiani e pagani, ma anche fra cristiani e altri cristiani. Anche per questo Costanzo aveva finito per apprezzare le sue qualità pur in buona parte così diverse dalle sue e, fidandosi, gli aveva affidato proprio a Massilia il primo incarico di un certo prestigio. Considerando quanto la città fosse strategica ed esposta ad attacchi, poteva rappresentare un trampolino di lancio per Bonifacio, ben conscio, per tutte le ragioni sopra esposte, di non poter fallire e perdere una grande occasione.

    Intanto l’assedio proseguiva.

    Bonifacio si infilò nuovamente l’elmo e, incontrati un paio di centenarii, fece comunicare che per la serata tutti i sottoufficiali erano riuniti nel suo quartier generale, un’appariscente dimora dall’aspetto di una arcaizzante domus dei tempi d’oro dell’Impero. Sebbene si fosse sul calar del giorno, il nemico continuava l’assalto con immutata foga. Avevano fretta. Sapevano che i veri assediati erano loro. Non essendo in grado di bloccare il porto della città, volevano prenderla d’assalto. I rifornimenti continuavano ad arrivare, sebbene, a dire il vero, la situazione fosse meno rosea di quanto i barbari immaginassero. Le azioni piratesche, ridottasi notevolmente la forza navale dell’Impero, erano sempre più intense e audaci, creando non pochi problemi al commercio. Via terra, poi, se possibile, era anche peggio: banditi, briganti e rivoltosi, si facevano giorno dopo giorno più audaci, tanto da arrivare perfino ad aggredire reparti dell’esercito. Per fortuna, grazie a Costanzo, le cose sembravano migliorare: l’autorità dello Stato stava tornando a farsi sentire. Apparivano però ancora significativi gli effetti della ribellione di Eracliano, ucciso da appena qualche mese dai suoi stessi seguaci una volta rientrato sconfitto dalla sciagurata impresa in Italia. Di questo Ataulfo e i suoi Goti non potevano avere contezza, se non in modo vago. Bonifacio, invece, costantemente informato da Ravenna, sapeva tutto benissimo. Per questo lui pure aveva fretta. Non solo i Goti di Ataulfo lì fuori rischiavano la fame, ma anche i Romani di Bonifacio ben rinchiusi dentro le mura.

    Il combattimento infuriava. I barbari, con onagri rudimentali, battevano le mura. Gli arieti percuotevano le porte sul lato nord e ovest. Grazie alle scale, alcuni si erano issati sugli spalti, ingaggiando una furibonda lotta. D’un tratto, un suono acuto echeggiò nell’aria. Si ritiravano! Le perdite erano state eccessive. Bonifacio emise un sospiro di sollievo. Il tempo di verificare i danni alle mura e fare un computo delle perdite e si procedette all’incontro.

    I centenarii e ducenarii, come i due sottoufficiali superiori che li accompagnavano, il pricimerius e il senator, per un totale di quindici, apparivano piuttosto stanchi e demoralizzati. L’assedio durava già da una settimana e gli effetti si facevano sentire. I loro visi, al chiarore delle lucerne, apparivano emaciati, flosci e appesantiti. Bonifacio ne fu ancora più rinforzato nella convinzione che si dovesse spezzare l’assedio al più presto. Pose su un tavolo di marmo, sorretto da piedi a forma di colonne in stile ionico, una carta spiegazzata. Era la pianta della città e delle zone circostanti. Indicò con un dito il porto.

    Partiremo da qui, imbarcheremo la maggior parte delle truppe comitatensi, ma anche limitanee.

    Come intendi procedere? chiese accigliato il senator Merogaiso, un esperto soldato figlio di genitori franchi.

    "Dobbiamo agire questa notte stessa, così da evitare qualsiasi fuoriuscita di notizie. Prenderemo il largo per un paio di leghe, poi convergeremo. Si trovano fra noi e una laguna, lo Stagnum Mastromela. Useremo anche navi da carico. Sono più lente, ma faremo loro percorrere un tragitto più breve. Di notte il rischio di perdere qualche nave potrebbe esserci, ma noi lo eviteremo legandole fra loro. Sbarcheremo di notte, una parte sulla costa, un’altra, con piccole imbarcazioni, risalirà per la laguna e attaccherà da dietro. Contemporaneamente, con dei fuochi intensi, daremo segnale alle truppe che stanno dentro. Saranno i pochi cavalieri ad agire; i limitanei che avanzano, duecento in tutto, resteranno dentro. Equilibreremo le forze: trecento per ogni gruppo. Ci coordineremo. I primi ad attaccare saranno gli uomini sulla costa, da sud. Poi dalla laguna e dalla città. Attaccheremo alle prime luci dell’alba. Saranno presi del tutto di sorpresa, su più fronti. Non se lo aspetteranno di certo, soprattutto di notte. Saranno sopraffatti dal panico".

    Siamo già pochi… dividere le truppe potrebbe accrescere ancor più il divario. Bisognerà coordinare alla perfezione i tre reparti. È piuttosto complesso, soprattutto di notte constatò il primicerius Elpidio, sottufficiale addetto a verificare le liste delle unità.

    Una dose di rischio c’è, ma, se riesce, la vittoria sarà completa. Il cibo comincia a scarseggiare, ben presto il nemico se ne renderà conto. Potrebbe inoltre mettere in mare delle navi per rendere completo il blocco. Da quanto so, ci stanno provando. Il fatto che negli ultimi giorni non stiano premendo fino in fondo ne è la conferma. È possibile che ci vogliano sviare. Il fatto che attaccheremo su più fronti farà loro credere che siamo molti di più, contribuendo a gettarli nel panico.

    Merogaiso si attorcigliava attorno all’indice la folta barba bionda. Il suo massiccio viso appariva teso in uno sforzo di concentrazione. Elpidio, un romano alto e snello dalla mente acuta, teneva fissi gli occhi sul mosaico del grosso tablinum. Vi si poteva intravedere, grazie al chiarore delle lucerne, un’aggrovigliata scena di battaglia, dai contorni alquanto irregolari. Al centro, un cavaliere, trapassava da parte a parte un soldato appiedato. Dalla ferita sgorgava un lungo rivolo di sangue. Tutto intorno all’intrepido guerriero, protetti dai loro scudi, una ridda di uomini a lance protese contorti nello sforzo della battaglia. Molti nemici, sospinti verso i margini, giacevano a terra o si apprestavano alla fuga. Sullo sfondo, di un verde inteso, si scorgevano alti alberi rigogliosi.

    Elpidio sollevò il capo.

    Penso che in fondo sia una buona idea. Rischiosa, ma geniale.

    Gli altri quattordici emisero un sospiro di sollievo.

    Bene! Allora è deciso! Se avete osservazioni…

    Nessuno aprì bocca.

    Allora ci muoveremo subito. Macrobio, tu comanderai le truppe che restano in città. Elpidio, tu gli uomini sulla costa che sbarcheranno per primi. Resterete sulla spiaggia e poi, appena sbuca il primo bagliore, vi muoverete. Dobbiamo sfruttare al massimo la semioscurità. Merogaiso, tu sarai a capo della cavalleria. Io sarò con le truppe che risaliranno la laguna. Ognuno di noi avrà a disposizione trecento uomini. Macrobio invece ne terrà duecento.

    Diramati gli ordini, le truppe cominciarono a muoversi. Oltre alle cinque navi da guerra, ne erano a disposizione altre sette. Bonifacio, armato di tutto punto, dal molo osservava le truppe sfilare. Dal mare fluttuante, sul quale si specchiava la luna, saliva su uno sfavillio dorato, che si riverberava sulle corazze dei soldati. Bonifacio, salito sulla sua imbarcazione, si fece cullare dal dondolio sommesso della quinquereme. Era a prua. Da lì, in alto, appoggiato con i gomiti al parapetto, osservava più distintamente lo sciamare dei suoi uomini. Un indefinito senso di malinconia lo pervase. Sospirò flebilmente. Si staccò. Passeggiò a passi pesanti per la tolda, scricchiolante sotto i suoi piedi. Andò dal navarco, a cui già sulla terraferma aveva fornito dettagliate istruzioni. Il ruolo dei navarchi, costretti a navigare al buio, era fondamentale. La loro perizia poteva segnare il discrimine fra un memorabile successo e un disastroso fallimento. Il suo navarco era un tipo esperto e sagace. In più di trent’anni di esperienza, aveva solcato il Mare Nostro in lungo e in largo, eludendo, con la sua perizia, le sempre crescenti aggressioni piratesche.

    Appena saranno ultimate le operazioni, gli annunciò prenderemo il largo. È quasi tutto pronto. Confido in te, sarà la nostra nave a fare da guida.

    Il navarco, sebbene anziano, appariva ancora prestante. Annuì energicamente attraverso il viso bruciato dal sole. In effetti quasi tutte le truppe si erano posizionate. I trecento di Elpidio erano distribuiti fra le sette navi da carico. Erano, quelle navi, alte sul livello del mare, munite di due soli remi, a poppa. Al centro una vela quadrata; a prua, legata con funi alla polena, un’altra vela, più piccola, di supporto alla prima, sulla quale comunque gravava quasi tutto lo sforzo della navigazione. Poppa e prua apparivano accentuatamente ricurve verso l’alto. A poppa era presente anche una piccola cabina, alloggio riservato al comandante. Tali navi, chiamate onerariae, con la loro fisionomia tozza ricordavano, seppur vagamente, dei gusci di noci. Niente a che fare con le fattezze eleganti e snelle, l’incedere agile e veloce delle liburnae, le navi da guerra. Così dipendenti dal vento raccolto dalla vela centrale, sarebbero state piuttosto lente, con il rischio di mandare a molte tutta quanta l’operazione. Bonifacio ne era consapevole, ma ormai aveva deciso di giocarsi tutto in quell’operazione.

    Erano pronti. Sciolti gli ormeggi, le navi si mossero. Il mare era calmo, la luna, piuttosto luminosa, insieme al cielo limpido e stellato agevolava il compito di orientarsi. Attorno alla quinquereme, come consuetudine, si muovevano le picati. Le picati erano piccole imbarcazioni da ricognizione, con in tutto non più di venti rematori. Con le picati, agili e veloci, era spesso possibile sferrare rapidi e repentini attacchi, individuare e catturare convogli nemici. Ricoprivano quindi un ruolo di supporto molto importante e, anche in questa circostanza, si sarebbero rivelate molto utili scandagliando il mare. Tutte le navi avevano vele e funi dipinte di blu, colore delle onde del mare. In questo modo potevano più facilmente mimetizzarsi. Un trucco ormai noto da tempo. Anche i marinai indossavano divise blu. Purtroppo però non era stato possibile distribuirle a tutti i soldati terrestri.

    Bonifacio era accanto al navarco.

    Allora, come procede?.

    Tutto per il meglio, prefetto. Il cielo ha il colore giusto. Se fosse stato rosso, si sarebbe annunciato vento, azzurro pioggia, e la mistione dei due colori pioggia e temporali violenti. La superficie serena e chiara promette bel tempo. La luna non appare rossastra con le estremità smussate, o offuscata da una cappa di umidità. Insomma, tutto è perfetto. Pare che gli dei… oh, scusa prefetto…

    Bonifacio sorrise bonariamente a quell’uomo semplice. Non poteva imputargli alcuna colpa per quelle ingenue parole. Che credesse ancora agli dei pagani, o semplicemente quel modo di dire fosse retaggio di antiche superstizioni da uomini di mare, a lui non poteva di certo indispettire. Si sentì anzi confortato: quel vecchio marinaio conosceva bene il suo mestiere.

    Le navi procedevano avvolte da una spuma bianca che gorgogliava sommessamente. Il rollio, tenue, pareva quasi voler cullare rassicurante le imbarcazioni con il loro carico umano. Quando finalmente, dopo tre ore di navigazione, cominciarono a convergere verso la costa, i due gruppi, già distanti per la differente velocità, si separarono definitivamente. Le onorariae, lì dietro, indirizzarono decise la prua verso la costa, le liburnae, pur dirigendosi anch’esse verso il litorale, lo fecero alla larga, puntando più ad ovest. Dopo un’altra ora di navigazione, la foce del fiume, scintillante dei riverberi della luna, fu visibile. In lontananza, il lucore generato dai bivacchi e dalle torce del campo nemico si disperdeva, lieve, verso l’alto, come avviluppato dall’incombere delle tenebre.

    Spegnete tutto! ordinò Bonifacio: Non devono scorgerci!

    Le navi, giunte nei pressi della costa, gettarono l’ancora, così che soldati e marinai potessero calare in acqua i piccoli natanti. Pur con le difficoltà dovute alla scarsa visibilità, le manovre procedettero abbastanza speditamente. Si poté dunque proseguire. Dopo un’ora erano sulla costa. Navigarono lungo un angusto canale che conduceva direttamente nel cuore dello Stagnum Mastromela, opera dell’ingegno umano. Ogni tanto, fra espressioni di terrore dei soldati, si sentiva la chiglia raschiare il fondo. La laguna era placida. Solo di tanto in tanto un anelito di vento increspava la superficie delle acque. Costeggiando dappresso il litorale sud appena distinguibile, procedettero verso est fin quando non giunsero alla riva. Discesero dalle scialuppe. L’acqua arrivava fino alla cintola. Qualcuno, incautamente tuffatosi prima dell’approdo alla riva, fu inghiottito dai flutti. Un grido soffocato, e svanì nel nulla. Impossibile soccorrerlo. Servì da monito. Ultimato senza altri intoppi lo sbarco, ci si mise in attesa, in ginocchio o riversi per terra. Adesso erano proprio dietro le linee nemiche. A breve avrebbe albeggiato. Elpidio con i suoi doveva già essere in posizione da tempo. Tutta l’operazione aveva richiesto undici delle dodici ore notturne.

    Finalmente cominciava ad albeggiare. Il cielo, mentre la luna e le stelle perdevano luminosità, si tinse di varie tonalità. Insieme alle nuvole lattiginose, sfavillava sempre più iridescente via via che si levava il sole.

    Bonifacio invitò i suoi a tenersi pronti. Scrutò lontano, dritto davanti a sé. Una distesa pianeggiante, da cui si levavano fiochi fumi, segno di bivacchi morenti. Bisognava far presto! Cosa aspettava Elpidio! Si guardò intorno. Alla sua sinistra un draconasius levava alta la sua insegna. Fra le fauci dorate del drago si insinuava il vento mattutino, il quale poi, proseguendo la sua corsa lungo il tessuto che ne costituiva il corpo sinuoso, emetteva come un gemito lamentoso e incessante. Al fianco del draconarius, il più tradizionale aquilifero, fieramente impettito mentre teneva l’asta sormontata dall’aquila, simbolo delle legioni di Roma fin dai tempi di Gaio Mario. Bonifacio si volse anche a destra. Notò, proprio accanto a lui, un giovane limitaneo allampanato. Il suo viso, bianco cadaverico, tradiva, insieme al tremore delle mani, il terrore che lo pervadeva nell’imminenza della battaglia.

    Bonifacio gli sorrise, poi chiese:

    Da dove vieni, ragazzo?

    "Da un villaggio non lontano da Spalatum, domine".

    E come mai ti trovi qui?

    "I signori dei villaggi del mio Capitulum hanno scelto me per il servizio militare. Ci sono più di mille coloni… e hanno scelto me! Perché non sono come gli altri… perché non mi piego ad ogni desiderio del mio signore terriero… Ha voluto farmela pagare! E adesso sono costretto a fare il soldato, per vent’anni! Non hanno nemmeno voluto pagare la tassa sostitutiva! Non potrò vedere la mia famiglia e il mio paese per vent’anni… sempre se ne esco vivo!"

    Bonifacio sospirò.

    Ti capisco… Purtroppo è la legge. Roma ha bisogno di soldati e, per averli, è necessario anche obbligare i proprietari terrieri a fornire una parte dei loro coloni. Di volontari ce ne sono sempre meno, proprio mentre di soldati c’è sempre più bisogno, visti i tristi tempi che corrono. La tassa sostitutiva spesso non viene accettata per più motivi. In molti casi ufficiali e politici corrotti intascano buona parte della somma. Anche quando la somma arriva, da dove reclutare? Gli unici disposti a farsi arruolare sono i barbari. È anche questo uno dei motivi per cui il nostro esercito si è così barbarizzato.

    Si volse completamente in direzione del legionario. Il vento, levatosi più intenso, gli scarmigliava i folti capelli.

    Non preoccuparti, resta al mio fianco gli disse, poggiandogli una mano sulla spalla ossuta non ti accadrà nulla.

    Il legionario deglutì sonoramente e si affrettò a fare un cenno di approvazione con il capo. Bonifacio, rinfrancato, sorrise, poi, rivoltosi a tutta la schiera dei suoi, disse:

    Muoviamoci, silenziosamente: niente corni e buccine!

    Le truppe si misero in moto, le insegne ben alte. D’un tratto, dritto davanti a loro, fu visibile il campo nemico. C’era agitazione. Evidentemente l’attacco di Elpidio era già in atto. Come loro abitudine, i Goti avevano fortificato il campo predisponendo tutto intorno i carri delle salmerie.

    Presto, dobbiamo affrettarci!

    Bonifacio si fece il segno di croce, levò una breve preghiera, si segnò di nuovo, infine diede l’ordine. Poterono finalmente risuonare buccine e corni. Il drappello di Bonifacio si slanciò in avanti come un uomo solo. Rimpinzato dal vento, il draco, attraverso le fauci spalancate, sibilando ruggiva come belva famelica pronta a piombare su una preda impotente.

    I Goti, intravistili, furono presi dal panico. Un andirivieni frenetico pervase ancor più l’accampamento. Intanto Bonifacio e i suoi continuavano la corsa, urlando, strepitando, battendo le aste sugli scuta. D’improvviso, quando erano a non più di qualche passo dai carriaggi, si arrestarono, allineati. I barbari, le lance spianate, pur a maglie larghe e scompaginati, erano a ridosso dei carri.

    "Plumbatae!" urlò Bonifacio.

    I legionari si passarono l’asta dalla destra alla sinistra, sfilarono uno dei dardi incastonato all’interno dello scutum, puntarono tendendo il braccio indietro, scagliarono. Il primo sciame di dardi, nero, turbinoso, si abbatté sui barbari. Molti si diedero alla fuga, ma, sospinti da altri che sopraggiungevano, furono rigettati all’indietro.

    "Plumbatae!" strillò di nuovo Bonifacio. I legionari si posizionarono ancora, ripresero la mira e scaraventarono giù una nuova bordata.

    I Goti ne furono sommersi. Le plumbate, pesanti, si conficcarono negli scuta, nelle corazze, nelle carni. I carri, inzaccherati di sangue, ricoperti di dardi romani, furono abbandonati. Fuggivano scompaginati, sopraffatti dal panico.

    È il momento! Avanti! All’attacco!

    Corni e buccine emisero il loro acuto richiamo, le insegne, guida visiva, si protesero in avanti.

    Bonifacio indirizzò un’occhiata rassicurante al limitaneo, sempre al suo fianco. Il soldato, il viso madido di sudore, i lineamenti contratti, ammiccò con forzata convinzione.

    Le truppe avanzavano con ardore, macinando la distanza che le separava dai carri. Arrivati in loro prossimità, cominciarono a rimuoverli, fin quando non si aprirono dei varchi sufficientemente ampi per irrompere dentro. Emisero un fragoroso urlo di guerra, travolgendo chiunque, alla spicciolata o in piccoli gruppi, cercasse di pararglisi di fronte. D’improvviso scorsero un aggregato più consistente.

    Lì, lì, dobbiamo attaccare lì!

    Bonifacio fremeva per tutte le membra.

    La massa travolgente si mosse, puntò nella direzione indicata. I Goti, repentini, cercarono di opporre un argine. Si disposero in linea, d’una sola fila, oltre la quale un brulichio, uno strepitare intenso.

    Forza! Forza! Non facciamoci perdere quest’occasione! sbraitava ancora Bonifacio.

    Le aste da impatto protese, si abbatterono sulla scarna linea. I barbari lottavano accanitamente. Non poterono evitare, tuttavia, che in più punti il fronte cedesse. I Romani si insinuarono. Bonifacio sfondò, irruppe. Si trovò di fronte, a non più di una decina di passi, un uomo alto, robusto, i cui occhi, di un azzurro intenso, erano sgranati in un’espressione di angoscioso terrore. Era affiancato da un paio di imponenti guerrieri. Altri due, tutti trafelati, conducevano uno stallone purosangue.

    Eccolo, eccolo! È lui!

    Bonifacio si buttò verso l’ultimo baluardo nemico. Era seguito da una decina dei suoi, a stento in grado di reggere il passo.

    La distanza dal bersaglio si riduceva sempre più. Sguainata la spatha, il prefetto si avventò sul primo guerriero che gli capitò a tiro. Fu subito soccorso da un legionario, e poi ancora un altro. Ben presto la proporzione fu impari. Bonifacio piantò la spatha nel ventre di un guerriero barbaro. Mentre attorno a sé ancora vorticavano i corpi in una aggrovigliata lotta, il comandante romano si trovò viso a viso con il suo obiettivo. Levò la spatha mentre il Goto, non ancora resosi pienamente conto del pericolo, teneva ostinatamente immobile la mano sull’elsa. Il Romano inferse il colpo; il barbaro, tirato per il mantello da mani leste, fu preso di striscio, giusto fra il petto e l’addome. Gli occhi di Ataulfo, stralunati mentre veniva portato via e issato di peso sul focoso stallone, gli si appuntavano addosso con ottusa fissità. Mentre il re goto levando zolle di terreno si allontanava al gran galoppo, Bonifacio ebbe un moto di stizza. Scalciò il manto erboso, imprecò fra i denti.

    Un ducenarius gli si accostò.

    Prefetto, dobbiamo continuare a premere, prima che fuggano!

    Avete notizie di Elpidio e Merogaiso?

    I Goti qui erano pochi e male organizzati perché loro avevano già cominciato l’attacco. Anche loro sono andati bene: li hanno colti di sorpresa. Adesso però sono in difficoltà a causa della netta inferiorità numerica.

    Dobbiamo prenderli alle spalle! Forza, prima che qualcuno li avverta della nostra presenza!

    Avanzarono rapidamente. Ben presto furono in vista della mischia. I Romani cominciavano a ripiegare, pressati da forze preponderanti.

    "Spathae pronte! All’attacco!"

    Visto che le aste da impatto di molti erano danneggiate, era d’obbligo sfoderare la spatha fin da subito. I Romani si scagliavano a perdifiato contro i Goti impegnati in un duro corpo a corpo, proprio nel momento in cui erano presi da una trepida eccitazione: lo sfondamento delle schiere romane era vicino. Alcuni, resisi conto del pericolo incombente alle spalle, presero a sbraitare e a gesticolare frenetici. Troppo tardi! I Romani si abbatterono su di loro come una valanga che, staccandosi dalle vette dei monti, travolge incontenibile ogni ostacolo in cui si imbatte nella sua sfrenata corsa a valle. I barbari, presi fra due fronti, accerchiati proprio in mezzo, si ammassavano, si congestionavano, si schiacciavano tanto maggiormente quanto più pressante si faceva la morsa romana. Alcuni, quelli più lesti a cogliere il pericolo, erano riusciti a darsi a una fuga precipitosa. Altri, facendo pressione, riuscivano, di tanto in tanto, ad aprirsi qualche varco e a sgattaiolare via. I più però, sempre più pressati, non avevano alcuna possibilità di scampo. I Romani affondavano le spathae senza possibilità di mancare il bersaglio e, ogni colpo, si trasformava in una ferita mortale. Il manto erboso spiaccicato da migliaia di piedi in tumultuoso movimento, ben presto, intriso di sangue, si tinse di rosso. I morti, compressi com’erano nella brulicante ridda di corpi, continuavano a tenersi in piedi come a voler ancora combattere a fianco dei propri compagni.

    Bonifacio, il viso acceso, il fiato corto, seguitava a sferrare fendenti e stoccate. La spatha gocciolava sangue, il suo viso era striato di sangue, la vista annebbiata dal sangue misto a sudore che gli grondava sulle palpebre e lungo le tempie. Le membra gli dolevano, le braccia, le mani gli tremavano per lo sforzo.

    D’improvviso, com’era cominciato, tutto cessò. Non c’era più niente da fare a pezzi. Si fermarono, madidi di sangue, sulle spathae, sugli scuta, sulle corazze, sul viso, sulle mani. In basso, il carnaio. Braccia e mani troncate, volti sfigurati in una cornice scarlatta. Da quel carnaio si levavano lamenti queruli, versi di dolore, invocazioni di aiuto.

    Bonifacio guardò il basso. La vista gli si ottenebrò per un attimo. Si coprì gli occhi con una mano, ma ottenne solo di insudiciarsi con quel rosso vivo. Si sentì come marchiato a fuoco.

    Da lontano gli giungeva qualche voce, un bisbiglio sconnesso e remoto.

    Prefetto! Prefetto! La battaglia è vinta! Cosa facciamo?

    Prefetto! ancora un’altra voce.

    Si ridestò.

    Cosa facciamo?

    Bene, bene! Cercate i feriti, sia barbari sia Romani. Curateli, poi vedremo il da farsi.

    Si guardò intorno. Dov’era? Dov’era! Scandagliò il campo. Mentre portavano via dei corpi, gli parve di riconoscerlo.

    Fermi!

    Perché, prefetto?

    Ho detto fermi! Lasciatelo lì!

    I soldati obbedirono. Riverso a terra, la testa fracassata da una scure, il giovane limitaneo a cui aveva dato rassicurazioni, a cui aveva detto che, se si fosse mantenuto sempre al suo fianco, tutto sarebbe andato bene. Si inginocchiò Bonifacio, e pianse, sommessamente. Si trattenne vicino a quel corpo esamine e martoriato. E dire che non aveva voluto conoscere il nome di quel giovane. Aveva sperato, così facendo, di non sentirsi coinvolto emotivamente. Si era illuso. In fondo lo aveva sempre saputo che non sarebbe servito a nulla. Nessuno avrebbe più dovuto attendere per vent’anni il suo ritorno. Si sollevò. Un senso di malinconia si impadronì di lui. Tirò su il capo, si asciugò con il palmo della mano le guance rigate. Verso di lui avanzavano due uomini. Erano Elpidio e Merogaiso.

    Non poteva andar meglio, esordì Merogaiso li abbiamo sorpresi, con tutte e tre le azioni. Per fortuna che siete arrivati! Giusto in tempo! Cominciavano ad essere troppi.

    Non poteva andar meglio ripeté meccanicamente.

    Sono in fuga, prefetto intervenne Elpidio Ataulfo è ferito seriamente, le perdite sono consistenti. Non hanno le forze per tornare. Non sono più una minaccia.

    No, constatò il prefetto non torneranno.

    Poi si chinò, sfilò l’elmo al limitaneo lì a terra e cominciò ad osservarlo attentamente.

    Elpidio e Merogaiso si guardavano perplessi.

    È un buon elmo, prefetto cercò di intuire i suoi pensieri Elpidio di semplice e rapida costruzione, e abbastanza economico. Offre una buona protezione, per giunta. Certo, non è paragonabile a quello delle truppe comitantensi o degli ufficiali, né tantomeno a quelli del passato, però…

    Bonifacio osservò l’oggetto metallico che teneva fra le mani. Constava di due semicalotte tenute insieme da una semibanda assiale. Era sormontato da un cresta metallica per rendere il soldato più alto, accorgimento tuttavia non sempre presente. Dietro, una protezione mobile per la nuca. Sui lati i due paraguance, tendenti a restringersi via via che si scendeva. Per non indebolire la percezione dei suoni, vi erano praticati dei fori all’altezza delle orecchie. Davanti, due occhi incisi nel metallo. Era un modo per esorcizzare il male. Si sperava, irrazionalmente ma forse per questo con un ancor più forte slancio fideistico, che quegli occhi, appena al di sopra dei propri, potessero aiutare a scorgere ogni pericolo e così scongiurarlo. Era il segno del persistere, con bonaria condiscendenza dello Stato stesso, nelle cui officine erano prodotti, di ataviche e arcane credenze, a cui i soldati, gente semplice e superstiziosa, non era in grado di rinunciare. Un conforto razionalmente inutile, ma illogicamente potente.

    Certo, un buon elmo.

    I

    In una grossa sala con un lustro pavimento in marmo illuminata a giorno da una pletora di lucerne, lampade e candele e lussuosamente decorata da ricchi mosaici parietali, un poeta declamava i suoi versi:

    "Ascolta, regina bellissima

    del mondo che è tuo,

    Roma, nel cielo

    accolta fra le stelle,

    ascolta madre degli uomini,

    madre degli dei;

    i tuoi templi ci avvicinano al cielo.

    Te cantiamo sempre,

    finché concedano i fati;

    nessuno, che viva,

    potrà essere immemore di te.

    Potrà più facilmente un colpevole

    oblio far dimenticare il sole,

    prima che dal nostro cuore

    esca l’amore che ti dobbiamo,

    poiché tu concedi i tuoi doni

    eguali ai raggi del sole,

    fino al limite dove corre l’Oceano,

    circondando la terra.

    Lo stesso Febo, che domina ogni cosa,

    si volge a te: da sponde

    romane si muove e nel tuo mare

    trova riparo.

    Con i suoi deserti

    non ti arrestò la Libia;

    non ti respinse col suo gelo

    il forte dell’Orsa;

    un paese così

    vitale agli uomini

    diede la natura

    che la terra ti

    vede combattere.

    Tu hai reso una sola patria

    i popoli più diversi;

    giovò anche ai malvagi essere dominati da te,

    poiché offri la compartecipazione

    al tuo diritto.

    Rendesti città ciò che prima era mondo".

    Improvviso si protese in avanti, levò alto il tono della voce fin quasi a gridare, e recitò con fervore:

    "Te dea celebra il mondo,

    romano fin nei luoghi più remoti,

    e tiene volentieri il collo libero sotto

    il tuo giogo pacifico.

    Tutte le stelle che si muovono

    in eterno, non videro mai

    un Impero più bello".

    Bellissimi versi! Uno struggente canto d’amore rivolto a Roma! Si nota che sono fortemente sentiti. La tua fama, Rutilio Namaziano, è ben meritata.

    "Ti ringrazio, dux. Mi fa piacere che tu abbia apprezzato. Ho cominciato a scriverli appena iniziato il viaggio e, quindi, l’opera ancora non è completa. Va ampiamente rivista. Appartiene al genere odeporico, di viaggio. Ho tenuto presente Lucilio e Orazio, ma c’è molto di originale".

    Il poeta, Claudio Rutilio Namaziano, era un uomo sui trentacinque anni, di statura media, magro, con capelli che, ricci e neri, gli incorniciavano disordinatamente il viso scarno. Quando declamava la fronte alta gli si aggrottava espressivamente, le labbra sottili si arcuavano conturbanti, i grandi occhi si sgranavano o si riducevano a piccole fessure in base all’intensità e alle emozioni che i suoi versi, insieme alla musicalità magistralmente riprodotta dall’alternarsi di sillabe lunghe e brevi, volevano veicolare.

    Il dux era proprio di fronte a lui, adagiato su uno scranno d’olmo ricercatamente istoriato.

    È un grido d’amore rivolto a Roma e alla sua missione universale ed eterna. Peccato che negli ultimi anni, in virtù di quanto accaduto e sta accadendo, parecchi comincino a dubitare di questa funzione civilizzatrice e salvifica di Roma. Molti la mettono in discussione e, alcuni, addirittura, preconizzano un’imminente fine del suo grande impero. Possibile… in questo mondo nulla è eterno. Tutto ciò che è umano, è caduco, destinato a finire, anche i grandi imperi.

    Tutto questo perché ci si è progressivamente allontanati dai valori tradizionali che hanno reso grande Roma! affermò deciso il poeta mentre riavvolgeva il rotolo di papiro su cui erano vergati i suoi preziosi versi.

    Il dux sollevò inavvertitamente un sopracciglio. Si mise a scrutare attentamente il poeta in piedi di fronte a lui, si fece mescere del vino in una coppa e, mentre sorbiva a brevi sorsi la dolce bevanda, disse:

    Vorrei conoscere meglio il tuo pensiero a riguardo. Il perché della crisi dell’Impero, intendo.

    Rutilio si accese in volto, sollevò una mano tesa a pugno.

    Lo faccio subito annunciò: "La grandezza di Roma, la sua capacità di affermarsi, di dominare e civilizzare mezzo mondo, è stata possibile grazie ad una serie di valori peculiari della civiltà romana, a cui si sono perfettamente miscelati elementi della raffinatissima cultura greca. La virtus, il mos maiorum, l’humanitas, la pietas, il rispetto della tradizioni religiose, sono state la base su cui si è poggiato il successo di Roma. Tutti questi valori fornivano un’identità, un sentire comune; inducevano a muoversi in difesa di Roma e, nella consapevolezza della giustezza di tali valori, nella loro capacità civilizzante, ad esportarli. Pensa all’età di Augusto, capace di far rivivere tali valori. Non a caso non esiste epoca più florida dal punto di vista economico e più ricca di capolavori letterari e di fermenti culturali. La solidità dell’Impero era massima, le sue truppe vittoriose e temute".

    E cosa avrebbe allontanato da questi valori? Cosa ha messo in crisi Roma a tuo avviso?

    I barbari, che con la loro presenza massiccia hanno alterato valori secolari. Ma, ancor più, il cristianesimo. Pensa, nel corso di questo viaggio ho fatto tappa presso l’isola di Capraia. Ho intravisto dei monaci… così si fanno chiamare… Isolati dal mondo, così credono di poter combattere il male. Ma come si può combattere il male se da esso si fugge? Come si può operare il bene senza invischiarsi nel mondo? Isolandosi, rinchiudendosi lontano dal mondo, non mettono a disposizione le loro energie per il bene della collettività, per il bene di Roma e, quindi, del mondo intero. Gli antichi dei invece davano forza, robustezza, intraprendenza, erano coerenti con il sentire naturale di un popolo. Fornivano un’identità comune, consolidavano il legame all’interno della comunità. Per questo, anche quando ero prefetto di Roma, ho sempre dato sostegno alle battaglie del senatore Simmaco e del suo gruppo votato alla restaurazione della cultura tradizionale. Bene hanno fatto a lottare per far restare dov’era la statua della Vittoria nel Senato. Grazie a quel culto, grazie a quella statua e alla visione del mondo che essa rappresentava, Roma è diventata forte, Roma ha conquistato il mondo. Purtroppo, a causa di quell’Ambrogio, nessun imperatore ha dato ascolto alle sagge raccomandazioni di Simmaco.

    Il dux rifletté per qualche istante, indeciso, infine espresse il suo punto di vista:

    "Penso che il problema sia più profondo. I barbari sono questione seria, certo: non sono più quelli descritti nella Germania di Tacito. Sono diventati più ricchi, più numerosi, si danno capi stabili e ambiscono a migliorare le loro condizioni di vita venendo da noi, che la ricchezza gliel’abbiamo fatta prima intravedere e poi acquisire. Le loro terre originarie non sono più sufficienti per contenerli, non ne hanno le risorse e, se anche le avessero, ormai hanno assaporato la ricchezza del mondo romano. Alle popolazioni germaniche si aggiungono poi i Sarmati, gli Alani, gli Iazigi, gli Unni… Sono così tanti e così popolosi, che l’unico modo per arginarli, da Adrianpoli in poi, è stato stabilire dei foedera, con i quali si è cominciato ad assegnare loro delle terre in cui praticamente sono indipendenti, tanto da avere leggi e capi loro. L’unico vincolo è prestare servizio militare quando Roma lo richiede, dovere che tra l’altro spesso riescono ad eludere. Spesso scorazzano liberamente per l’Impero, almeno qui in Occidente. Gli stessi foederati, dediticii che vivono entro i nostri confini, si trasformano in saccheggiatori e si alleano con altre popolazioni barbariche. Prima, fino a due-tre secoli fa, erano piccoli gruppi che, in virtù dello spopolamento di ampie porzioni dell’Impero, era possibile integrare. Adesso sono troppi. Lo stesso esercito ‘romano’ di romano ha sempre meno: metà degli effettivi è costituita da barbari perché reclute a sufficienza non se ne trovano, almeno non quante ce ne vorrebbero per i bisogni dell’Impero".

    Rutilio lo osservava accigliato.

    Per quanto riguarda il cristianesimo, riprendeva incurante l’alto ufficiale romano "credo che abbia dato il colpo mortale ad una cultura pagana ormai in irreversibile decadimento. La cultura tradizionale non dava risposte, non era rassicurante. Gli dei erano lontani, estranei, non rispondevano al desiderio di sollecitudine di ogni singolo uomo. La gente, già durante le guerre civili, aveva perso ogni certezza, sentiva quei valori caduti, cercava nel privato una risposta. Con l’Impero le cose non sono poi cambiate. Augusto ha portato una finta restaurazione, ma in realtà ha affermato un potere assoluto: il Senato di fatto non aveva più alcun potere. Questo è ben analizzato negli ‘Annales’ di Tacito. Con i suoi successori la mancanza di libertà è apparsa ancora più evidente e il desiderio di un riscatto in un'altra vita sempre più forte. Quando poi sono cominciate le grandi invasioni e le lotte per il potere fra vari pretendenti al soglio imperiale, tale ricerca è divenuta affannosa, spasmodica. I culti tradizionali si trascinavano stancamente. Ci si è volti alla filosofia: stoicismo, epicureismo, neoplatonismo… e a nuovi culti, soprattutto fra il popolo semplice. I soldati hanno importato dall’Oriente il Mitraismo, i culti di Cibele, di Iside e Osiride… I culti misterici sembravano dare risposte. Finalmente qualcosa di rassicurante, qualcosa che forniva la prospettiva di una vita migliore non solo in questo ma anche nell’altro mondo. Ma tali culti non erano destinati a trionfare, perché riservati a pochi: erano culti misterici, appunto. Il cristianesimo invece no, era aperto a tutti, anzi si rivolgeva preferibilmente ai diseredati, agli oppressi, ai poveri; arriva perfino a predicare l’amore anche verso chi ci odia. Il paganesimo, morente, non poteva reggere alla portata di una simile rivoluzione, non aveva alcuna risposta. Anche ora, dove ancora sopravvive, si ripiega, si accartoccia su sé stesso. Non si può tornare indietro. Ogni volta che si è provato a farlo non si è arrivati a niente. Catone il Censore nel suo tempo contro la cultura greca, Sallustio e Cicerone di fronte allo sgretolarsi della Repubblica, non ritenevano che la crisi fosse dovuta ad un allontanamento dai valori tradizionali? E quale è stato il risultato? È stato forse realmente possibile ritornare al passato? Quella di Augusto, come già detto, è stata una farsa. Giuliano, detto l’Apostata, ingenuo nostalgico, non poteva che fallire. Io credo che il cristianesimo, poggiandosi sulla cultura precedente, possa rinnovare Roma, darle un nuovo vigore con cui poter sopravvivere".

    E tu credi realmente che il cristianesimo sia in grado di far questo? Non le vedi le continue contraddizioni, i contrasti interni, le lacerazioni fra loro. Porteranno sempre più tali lacerazioni all’interno dell’Impero, lo renderanno imbelle, fanatico e intollerante allo stesso tempo. Non oso immaginare quanti contrasti, quanti conflitti in nome di quel dio! Ma io voglio ancora credere nel destino eterno di Roma. Roma è una missione, è un’idealità, che non può venir meno, altrimenti verrebbe meno la civiltà stessa. Non posso neanche provare a immaginare cosa accadrà all’intera umanità qualora il cristianesimo dovesse vincere definitivamente e Roma cessare di esistere. Fin quando sarò in vita mi batterò, e così uomini come Simmaco, Vettio Agorio Pretestato, Virio Nicomaco Flaviano, e tanti altri.

    Il dux alzò le mani fino al petto, come per schermirsi, e sorrise forzatamente.

    Oh, ma eravamo qui per altro! Avendoti qui, Rutilio, considerando quanto si parlava dei tuoi versi, non ho resistito alla tentazione di ascoltarli… e ho fatto bene, ne è valsa la pena… Ma adesso torniamo alla questione principale. Com’è andato il viaggio?

    "Difficile… Per terra non era possibile: le strade sono sconnesse e insicure. La litoranea via Aurelia praticamente non esiste più, e i centri abitati situati lungo il percorso sono ridotti a cumuli di macerie o a deserti. Briganti e banditi pullulano, e agiscono incontrastati. Ho visto tanti luoghi, prima fiorenti e popolosi, spopolati e desolati. Le stazioni di posta, prive di personale, sono quasi tutte abbandonate. Ho optato quindi per il mare. Sono partito da Portus Augusti. Ho costeggiato il litorale. Ho fatto una sosta a Capraia e poi a Luni. Altre due soste a Genua e Albigaunum. Anche lì i barbari hanno fatto grossi danni: i Goti hanno saccheggiato e ridotto Albigaunum ad un cumulo di ruderi. Per fortuna Flavio Costanzo vi è passato per la sua campagna militare e ha ritenuto che fosse fondamentale che una città della sua storia e della sua importanza economica e strategica fosse ricostruita. In poco tempo ha fatto erigere delle mura imponenti! Infine sono arrivato qui. Per fortuna il tempo è stato clemente, considerando che siamo a inizio autunno. È stato un rischio, ma non si poteva fare altrimenti. È così angoscioso vivere in questi tempi! Flavio Costanzo sta rimettendo le cose a posto. Grazie a lui l’Impero si risolleverà, Roma risorgerà più forte di prima!"

    Già, grande comandante e grande politico… Mi è stato scritto che ti trovi qui in Gallia per una verifica dei danni che i barbari hanno causato.

    "È così. Unirò una missione ufficiale a questioni private. Sono originario dell’Aquitania. Lì ho dei possedimenti terrieri e vorrei verificare com’è la situazione. Sono diretto a Burdìgala".

    "Bene, capisco… La situazione da quelle parti non è però delle migliori. I Goti hanno messo a ferro e fuoco tutta la zona. Negli ultimi cinque anni Burdìgala è stata saccheggiata per ben due volte, la prima da parte dei Vandali, la seconda, appena qualche mese fa, dai Visigoti. Ataulfo si era rifugiato proprio lì, ma Costanzo gli ha bloccato tutti i rifornimenti. Così i Goti, prima di lasciarla, l’hanno saccheggiata e incendiata. Poi si sono mossi verso Narbona, ma anche lì sono stati bloccati, al punto da dover abbandonare anch’essa. Costanzo ha stretto sempre più il cerchio, fino a… Ma queste cose probabilmente già le conosci. Non voglio tediarti. Fatto sta che si prepara a un’azione finale e risolutiva. Fra non molto dovrò muovermi anche io… L’Aquitania è stata teatro di guerra e Burdìgala ha finito per esserne il centro. I Bagaudi poi si aggirano da quelle parti e potrebbero approfittare della situazione per farsi più intraprendenti. Attualmente non ci sono né Romani né barbari. È ancora rischioso…"

    Lo so, ma devo andarci, non posso tirarmi indietro.

    Capisco… Potresti muoverti con me, almeno per una parte del tragitto. Se pazienti qualche giorno… I preparativi sono già in corso.

    "Ti ringrazio, dux, ma devo muovermi al più presto: è della massima importanza".

    Di fronte all’ostinazione del poeta, il governatore militare ritenne che sarebbe stato del tutto inutile insistere. Sospirò, si tenne il mento fra pollice e indice, e disse:

    "Se le cose stanno così, allora ti fornirò una buona scorta. Ti farò accompagnare da una parte dei miei bucellarii. Te ne fornirò cento".

    "Ti ringrazio infinitamente, dux!"

    I due uomini, nonostante le divergenze di vedute, si lasciarono cordialmente.

    Il dux, rimasto solo, nuovamente adagiato sul suo scranno, si mise a riflettere, estraniandosi da tutto e tutti. Questo dux che si era allietato ascoltando i versi del poeta Rutilio Namaziano, che aveva discettato animatamente con lui sulle condizioni dell’Impero, che lo aveva messo a parte della situazione in Gallia e che infine gli aveva generosamente fornito cento bucellarii per consentirgli di compiere la sua missione più in sicurezza possibile, era lo stesso Bonifacio che si è visto brillantemente spezzare l’assedio di Massilia da parte di Ataulfo.

    Erano passati due anni da quel fatto. Grazie allo strabiliante successo di Massilia, per volontà di Costanzo in persona da prefetto era stato promosso direttamente a dux, massima carica militare di una provincia, senza neanche passare per il grado di praepositus, ufficiale a servizio del dux a cui era affidato un settore specifico dei confini provinciali.

    In quei due anni, oltre alla promozione di Bonifacio, erano accaduti in verità molti altri eventi degni di essere ricordati negli annali.

    Ataulfo era sopravvissuto alla grave ferita infertagli proprio da Bonifacio. Ripresosi dopo un mese di convalescenza, il re dei Visigoti, vedendosi negato ogni tentativo di mediazione, aveva provocatoriamente sposato Galla Placidia. Il matrimonio, stando a quanto si raccontava, era stato celebrato con grande sfarzo e profusione di gesti simbolici. Le nozze si erano svolte a Narbona. Il romano Candidiano, un ricco e influente nobile locale, aveva provveduto all’organizzazione. La cerimonia si era tenuta in casa di Ingenio, il personaggio più in vista della città. Questi si era assiso solennemente al fianco di Galla Placidia, la quale era apparsa in tutto e per tutto come una vetusta sovrana. La futura regina dei Visigoti, nonché principessa dei Romani, ritrovatasi nel luogo più degno della domus, l’atrium, si era solennemente accomodata su un trono d’oro e d’argento. Indosso, lussureggianti vesti regali. Poco dopo era giunto anche lo sposo, agghindato con una clamide romana. Ogni paramento, morbido e luccicante, ostentatamente di foggia romana. Si era lui pure posto a sedere accanto a Placidia. A quel punto, si era cominciato con i doni nuziali. Fra gli altri, quelli che più avevano suggestionato l’immaginario dei presenti erano stati cinquanta fanciulli bellissimi tutti vestiti di raffinata seta, ognuno con in mano due vassoi, uno pieno d’oro, l’altro di pietre preziose. Erano solo alcune delle ricchezze che durante il sacco di Roma di Alarico erano state portate via dai Goti. Con un simile gesto Ataulfo aveva voluto dire, in modo nemmeno poi tanto velato, che, con tale restituzione, grazie al matrimonio suo con Placidia, si ponevano le basi per l’unione dei due popoli e la fine di ogni divergenza. Era stato infatti proprio durante la cerimonia che per la prima volta Ataulfo aveva formulato in modo sistematico e con tutti i crismi della solennità quel discorso sulla Gotia e sulla Romània a cui già altre volte, alticcio, in modo disconnesso e con la necessità di complesse esegesi, aveva accennato. Adesso avrebbe speso tutti i suoi sforzi per la difesa dell’Impero di Roma, che poi sarebbe diventato anche dei Goti. I Goti avrebbero difeso tale Impero comune, i Romani vi avrebbero dato le leggi e gli amministratori. Insomma un connubio perfetto! Poco dopo ci si era dati ai festeggiamenti. Fra una portata e l’altra erano stati recitati versi epitalami, componimenti matrimoniali tipicamente romani. Al certame poetico aveva voluto partecipare anche Attalo, che anzi aveva insistito per inaugurare la gara. Si era lasciato proprio prendere dalla vena poetica il senatore Attalo, tanto da abbandonarsi alla declamazione di reboanti versi celebrativi, con i quali salutava nei due novelli sposi i padroni di tutto il mondo civilizzato. Si erano poi esibiti Rustacio e Febadio, due poeti di origine gallica che godevano di una certa notorietà da quelle parti proprio per la produzione di componimenti d’occasione, scritti sul modello delle "Silvae di Stazio e degli Xenia e degli Apophoreta" di Marziale. Si era poi chiuso con giochi e spettacoli, fra scene di euforia di Romani e Goti, tutti felicemente affratellati. Alcuni, desiderosi di guadagnarsi il consenso dei nuovi padroni, si erano addirittura presi la briga di scomodare le Sacre Scritture, secondo le quali, stando ad una profezia di Daniele, un re del Nord avrebbe sposato una regina del Sud e da questa unione sarebbe nato il dominatore del mondo e, con esso, una nuova età di pace e prosperità. Non pago, Ataulfo aveva deciso di vestire di nuovo della porpora Attalo: a quanto pareva aveva particolarmente gradito le abilità versificatrici del nobile romano. Poco dopo, si era sparsa la notizia che Placidia aspettava un bambino. Ravenna però, chi se lo sarebbe mai aspettato, aveva rifiutato di riconoscere l’unione. Flavio Costanzo, d’altra parte, non aveva preso benissimo le mosse di Ataulfo, e, da far suo, si era immediatamente mosso. Innanzitutto, utilizzando i beni confiscati ad Eracliano, aveva festeggiato pomposamente il massimo riconoscimento che Onorio aveva deciso di concedergli a suggello dei suoi preziosi servigi: il consolato. Era il consolato una carica retaggio dell’età repubblicana. Perse le sue antiche funzioni, sarebbe stata del tutto svuotata di senso se non fosse stato per il fatto che l’elezione a tale carica rappresentava il massimo prestigio riconosciuto a un uomo politico, soprattutto quando poi si aveva la ventura di condividerla con uno dei due imperatori. Dopo il consolato, Costanzo si sentiva pronto ad affrontare Ataulfo e i suoi Goti e a prendersi Galla Placidia. Si era mosso rapidamente. Aveva posto, guarda caso, il suo centro operativo ad Arelate. Da lì aveva tagliato i rifornimenti ai Visigoti bloccando tutte le vie di comunicazione, via terra con l’esercito campale, via mare con la flotta. Li aveva sconfitti senza praticamente combattere, mantenendo quasi intatte le sue forze. Così i Goti, per sfuggire ai morsi della fame, erano stati costretti ad abbandonare prima Burdìgala, poi Narbona, ovviamente dopo averle rigorosamente saccheggiate. Di fronte a tali insuccessi gli alleati alani, grazie anche all’intrigante azione del procuratore Paolino di Pella, uomo di Costanzo, avevano abbandonato il re goto ed erano tornati alla vecchia alleanza con i Romani. Ataulfo, sempre ribadendo che altro non desiderava se non un accordo che potesse garantire la pace fra i Goti e i Romani, era stato costretto a ripiegare verso la Spagna. Durante il tragitto era nato il figlio che la principessa romana aveva portato in grembo. Il nome scelto per il bambino non poteva che essere Teodosio, come il celebre nonno, padre di Placidia. In questo modo, se possibile, Ataulfo, con il pieno sostegno della nobile consorte romana, aveva ribadito con ancora più determinazione la volontà di fusione fra i due popoli. Nato l’erede dei due sovrani, la funzione di Attalo aveva cessato di avere senso. Il povero senatore, imperatore d’occasione, panegirista per doverosa piaggeria, era stato abbandonato al suo destino. Mentre provava a darsi alla macchia imbarcandosi in un porto spagnolo, era stato scoperto. Prontamente messo agli arresti, era stato spedito alla corte di Ravenna, dove Onorio si sarebbe preso tutto il tempo necessario per escogitare la giusta punizione. Intanto i Goti erano giunti loro pure in Spagna, precisamente a Barcilona. Nelle province spagnole, ormai da anni, la situazione era caotica e l’autorità dell’Impero praticamente inesistente. Vi imperversavano Vandali, Svevi, Alani e Bagaudi, a cui avevano finito per aggiungersi anche i Visigoti. La situazione per Ataulfo si era fatta sempre più difficile e si era trasformata in drammatica dopo poco. Il piccolo Teodosio, cagionevole di salute, era spirato ad appena qualche giorno dalla nascita. I genitori, addolorati, avevano riposto il corpicino in una bara d’argento custodita in una chiesa della città. Non era passato molto tempo che un altro evento tragico si era abbattuto sui Goti. Mentre Ataulfo passeggiava, analizzando la sua stalla personale, un suo domestico, di nome Dubio, gli si era fatto vicino, deferente come al solito; poi però, d’improvviso, gli si era avventato addosso, gli aveva inferto una pugnalata al ventre, ed era fuggito via prima che potesse arrivare qualcuno a fornire soccorso. Il motivo di tale gesto non era difficile da intuire: Dubio aveva inteso vendicare la morte del suo vecchio padrone Saro, a cui si sentiva ancora molto legato. Era stato infatti proprio Ataulfo, per volontà di Alarico, ad ordire l’assassinio di Saro, capo della fazione avversa. Ataulfo aveva in seguito mostrato una clementia di cesariana memoria verso i membri del partito avverso e, proprio come Cesare, per tale sfoggio di clementia aveva finito per rimetterci la pelle. Dubio infatti non aveva agito soltanto per spirito di lealtà verso il suo vecchio padrone, ma anche perché sostenuto da Sigerico, fratello di Saro, prodigale nel promettergli laute ricompense. Ataulfo, mortalmente ferito, aveva fatto in tempo a raccomandare a suo fratello, a cui aveva sperato di lasciare il titolo regale, di continuare la politica di avvicinamento e di integrazione verso i Romani. Come segno di buona predisposizione, vista la sua imminente fine, sarebbe stato giusto restituire Galla Placidia ad Onorio. Solennemente rassicurato, aveva quindi esalato l’ultimo respiro con animo sereno. Il buon fratello non aveva però avuto modo di esaudire gli ultimi desideri di Ataulto, giacché, appena qualche giorno dopo, Sigerico l’aveva fatto fuori insieme ai figli di primo letto del suo acerrimo rivale, non fermandosi neanche di fronte al rischio di compiere un atto di empietà: il vescovo Sigesaro, che si era parato a difesa dei quattro fanciulli, convinto che i paramenti sacri potessero bastare a proteggerlo dalla furia vendicativa di Sigerico, era stato lui pure fatto fuori senza troppe cerimonie. Sigerico aveva a questo punto potuto finalmente dare sfogo alla sete di vendetta covata per vent’anni. Tuttavia, proprio perché ci erano voluti vent’anni, non si era sentito dissetato. Le bevande che aveva potuto gustare non avevano ancora estinto la sua arsura e, allora, aveva deciso di prepararsene un’altra, meticolosamente miscelandola con gli ingredienti più ricercati e succulenti. Aveva curato ogni particolare, amalgamando il tutto con ineguagliabile maestria. Divenuto ormai re incontrastato dei Visigoti, aveva deciso di sfilare solennemente per le vie della città in sella a un imponente baio. Davanti a lui, scalzi, macilenti, i prigionieri, fra cui, in prima fila, in bella mostra, Galla Placidia, con le vesti, un tempo eleganti e preziose, lacere e lise. Gli occhi della ormai ex regina erano apparsi a tutti affossati, il viso scavato, le membra smagrite. Ciononostante non aveva perso nulla della sua naturale solennità. Procedeva con la schiena ben ritta, il capo alto come a voler svettare su tutti nonostante la misera condizione nella quale aveva finito per trovarsi immersa. Il suo sguardo non aveva perso nulla della sua austera gravità, né il passo procedeva incerto, ma anzi rapido e deciso. I capelli, violati, tagliati corti, apparivano arruffati e stepposi, eppure non riuscivano in alcun modo a demolire l’austerità e la nobile

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