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Breve storia di Roma
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E-book389 pagine5 ore

Breve storia di Roma

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Info su questo ebook

Tutta la lunga storia dell’Urbe: da piccolo villaggio a Città Eterna

Sono numerosi i nomi con cui conosciamo Roma ma il più iconico è Città Eterna. La sua storia è infatti antica e imponente. In circa trenta secoli l’Urbe è stata attraversata da cambiamenti politici, sociali e culturali che hanno lasciato segni e definito la Roma attuale. Accogliendo la non facile sfida di raccontare “in breve” ciò che è “eterno” per antonomasia, queste pagine ripercorrono in maniera puntuale e avvincente l’intero vissuto della città, dalle origini preistoriche alle guerre puniche, dall’incendio di Nerone al dominio dei papi, dai lanzichenecchi al fascismo, fino ad arrivare al giorno d’oggi. In questa sintesi ragionata, il passato e il presente di Roma costituiscono una crasi utile a capire quale potrebbe essere il futuro della città.
È un viaggio che passa tra l’evoluzione urbanistica e artistica dell’Urbe, che descrive la sua popolazione e i personaggi più importanti delle varie epoche: un libro indispensabile per assaporare Roma e comprendere le cicatrici che l’hanno resa indimenticabile.

Roma. Urbe. Città Eterna. Un avvincente sguardo sulla città che non smette mai di stupire

Tra gli argomenti trattati:

Romolo, Remo e le altre leggende
Roma e le sue forme di governo: dalla monarchia alla repubblica all’assolutismo imperiale
Lotta di classe nell’antica Roma
Mare nostrum
Saeculum obscurum: Il secolo buio del papato
Lanzichenecchi e altre disgrazie
Roma contemporanea: Cronache del terzo millennio
Piero Santonastaso
In 30 anni al «Messaggero» si è occupato di cultura, spettacoli, web, sport e cronache. Oggi segue la comunicazione di USB, Unione Sindacale di Base. Ama la storia, le lingue e il giardinaggio.
Alessandra Spinelli
Al «Messaggero» coordina i supplementi settimanali «Molto», dopo essersi occupata di sport, politica e cronaca. Ama il mare, l’arte e i viaggi.Con la Newton Compton i due autori – marito e moglie – hanno pubblicato C’era una volta Roma, Guida curiosa ai luoghi insoliti di Roma e Breve storia di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2022
ISBN9788822758019
Breve storia di Roma

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    Anteprima del libro

    Breve storia di Roma - Piero Santonastaso

    LE LEGGENDE

    Nel 1995 l’inglese Timothy Peter Wiseman si è preso la briga di enumerare le variazioni sul mito della nascita di Roma: sono 61. Il primo posto appartiene stabilmente alla fondazione romulea, nonostante gli antichi fossero pienamente consapevoli della sua leggendarietà, neppure tanto originale: i gemelli che scampano alle persecuzioni di un re malvagio e la loro rivincita sono infatti temi universali, così come l’intervento di una fiera salvatrice.

    Nel iv secolo avanti Cristo è stata data alla leggenda una forma scritta, divulgata da Diocle di Pepareto (l’odierna Skopelos), storico greco del iii secolo citato da Plutarco e, soprattutto, dal contemporaneo politico romano Fabio Pittore i cui Annales (perduti) costituirono la fonte primaria per molti studiosi. Il mito, nel 296 a.C., ha preso le celebri fattezze bronzee della lupa che allatta i gemelli e l’abito di gala è stato infine cucito in età augustea da Virgilio. Il che non ha impedito al suo contemporaneo Tito Livio di esprimersi in modo molto netto:

    Non ho intenzione né di confermare né di respingere quelle leggende precedenti la fondazione – o il progetto della fondazione – di Roma, più consone ai discorsi dei poeti che a resoconti affidabili di fatti realmente accaduti.

    Sia concessa questa scusa all’antichità, di rendere, mescolando le vicende umane a quelle degli dèi, più sacri gli inizi delle città; e se a qualche popolo è giusto concedere di rendere sacre le proprie origini e di rimandare agli dèi come capostipiti, il popolo romano ha una tale gloria di guerra che, innalzando il potentissimo Marte a padre suo e del suo fondatore, i popoli della terra sopportano pazientemente anche questa convinzione tanto quanto ne sopportano il dominio.

    Ma di certo io non terrò in grande considerazione queste cose e quelle simili a queste, in qualunque modo possano essere considerate e valutate: ciascuno di per sé, per favore, rivolga puntualmente l’attenzione a ciò, quale sia stato il tenore di vita, quali i costumi, grazie a quali uomini e capacità in pace e in guerra il dominio [di Roma] sia sorto e si sia sviluppato; ponga poi ancora attenzione a come, man mano che il rigore morale veniva meno, i costumi dapprima si siano infiacchiti, poi come siano sempre più degenerati, infine come abbiamo iniziato a precipitare, finché si è giunti a questi tempi in cui non possiamo tollerare né i nostri vizi né i loro rimedi.¹

    ROMOLO E REMO

    Riassumiamo la leggenda nella versione di Diocle e Fabio Pittore, fissata in età augustea da Dionigi di Alicarnasso e Varrone. La chiameremo per comodità versione latina, perché della fondazione di Roma esiste un’antecedente lettura greca. Il primo in assoluto a operare l’accostamento Enea-Romolo è infatti, nel iv secolo a.C., Alcimo, storico siceliota, secondo il quale Romolo è figlio del principe troiano, non ha un fratello gemello ed è il padre di Alba, madre del vero fondatore di Roma, il misterioso Rhodius.

    Altre varianti greche attribuiscono la fondazione direttamente a Enea: il principe fuggiasco sbarca in Italia insieme a Ulisse e fonda Roma, così chiamata in omaggio a Rhome, una schiava che, stanca di peregrinazioni, brucia le navi troiane. Enea, uomo pio e comprensivo, invece di farla scorticare viva la onora dedicandole la futura Urbe. Ma anche qui le variazioni sul tema non si contano: secondo Plutarco, Rhome non era una schiava ma una nobile troiana. E il non meglio identificato Cefalone di Gergis arriva ad affermare che non da sconfitti troiani è composto quel gruppo di esuli, ma da vittoriosi achei che una tempesta sbatte sulle coste di Latinion, dove le prigioniere troiane danno fuoco alle navi.

    Ma torniamo al mito latino. Nel 1184 a.C. Enea fugge da Troia portando sulle spalle il padre Anchise – che lo ha generato amando Venere – e per mano il figlioletto Ascanio avuto da Creusa, la figlia di Priamo scomparsa nella città in fiamme.

    Enea arriva a Cartagine, ama ricambiato la regina Didone ma dopo un anno se ne va e lei per il dolore si uccide. Il principe troiano vaga per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio: prima al Circeo, dove muore la sua nutrice Caieta, seppellita là dove sorgerà Gaeta, poi alla foce del Numico².

    Incontra Latino – figlio di Pico e Circe, fratello di Fauno – re dei Tirreni che gli concede in sposa la figlia Lavinia, scatenando l’ira di Turno, il re di Ardea cui era già promessa. Costui si allea con il sovrano etrusco di Cerveteri, Mezenzio. Enea risponde unendosi agli Aborigeni, ponendo così le basi per la nascita del popolo dei Latini. La guerra che segue termina con la sconfitta di Turno e Mezenzio e la pace tra Latini ed Etruschi. Il Tevere segna il confine tra i rispettivi territori.

    Da Enea e Lavinia nascono un figlio, Silvio, e una città, Lavinium. Dopo quattro anni di regno, Enea viene assunto in cielo, anche se in un’altra versione scompare dopo aver ucciso Turno.

    Trent’anni dopo Ascanio – detto anche Iulus per meglio collegare la gens Iulia alla nascita di Roma – fonda Alba Longa e alla sua morte gli succede il fratellastro Silvio dal quale origina la dinastia dei Silvii che attraverso undici re latini³ porta a Numitore.

    Quest’ultimo viene spodestato dal fratello minore Amulio, che ne uccide i figli maschi e obbliga la figlia Rea Silvia – avuta dalla dea Pales – a farsi vestale, destinata in quanto tale a rimanere vergine.

    Rea Silvia però si congiunge a Marte e mette al mondo i gemelli Romolo e Remo, dei quali Flavio Eutropio fornisce addirittura la data di nascita: 24 marzo 771, perché Romolo avrebbe fondato Roma all’età di 18 anni.

    Amulio ordina quindi di eliminare Rea Silvia affogandola nel Velabro – zona paludosa che ricopre la valle tra Palatino ed Esquilino, sfiorando le pendici del Campidoglio – e di gettare i gemelli nell’Albula, nome primigenio del Tevere che gli Etruschi identificano invece come Rumon. La cesta in cui sono pietosamente deposti i due fratelli si arena in un’insenatura (ruma) al Velabro, sotto il fico ruminale (cioè della dea Rumina), dove una lupa allatta i neonati con le sue mammelle (rumae), aiutata dal picchio Pico.

    Il pastore Faustolo trova Romolo e Remo e li cresce insieme alla moglie Acca Larenzia – la vera lupa, nel senso di prostituta – e al fratello Plistino.

    Romolo e Remo tornano ad Alba Longa, dove Amulio cattura Remo; Romolo con un gruppo di pastori libera il fratello, uccide Amulio e rimette sul trono il nonno Numitore, che dà ai nipoti il permesso di fondare una nuova città, fornendoli di saggi consigli, bestiame, armi e ricchezze varie.

    Romolo traccia il solco della città. Incisione di Fulvia Bertocchi da B. Pinelli.

    Giunti al Tevere, i gemelli si uniscono agli abitanti di Pallante – il villaggio fondato sul Palatino dagli arcadi di Evandro – e a quelli di Saturnia, che vivono invece sul Campidoglio.

    Si arriva così alla contesa tra i due fratelli, a colpi di auspici⁴, su chi avesse il diritto di scegliere il luogo della fondazione, di dare il nome alla città – Roma oppure Remoria – e di regnarvi.

    I gemelli salgono sull’Aventino e Remo per primo scorge sei avvoltoi in volo; Romolo, in un secondo momento, ne avvista dodici. I partiti dei due fratelli si scontrano: uno rivendica la primazia nell’avvistamento, l’altro il maggior numero di uccelli. Nella mischia Remo viene ucciso, così come Faustolo e Plistino.

    Nella versione più nota l’uccisione di Remo avviene molto tempo dopo la presa degli auspici. Romolo scaglia dall’Aventino una lancia intagliata nel corniolo sanguinello – lo stesso legno del cavallo di Troia – che va a infiggersi sul Germalo – l’affaccio sudoccidentale del Palatino – e mette radici. In quel punto il fondatore traccia con l’aratro in senso antiorario il pomerio, confine sacro e inviolabile. Remo però lo scavalca perché contrario all’idea di una città consacrata (templum) separata dalla campagna, e per tale oltraggio è ucciso dal gemello. Compiute tutte le molteplici imprese di cui viene accreditato, nel 715 (o 717), Romolo è infine rapito in cielo durante una tempesta, trasformandosi nel dio Quirino.

    E se avesse vinto Remo? Avrebbe fondato Remoria, i Romani si chiamerebbero remorani e il pomerio racchiuderebbe non il Palatino ma lo scomparso Monte della Creta, altura anch’essa fronte Tevere, ma posta molto più a ovest rispetto a Palatino e Campidoglio, nell’area oggi compresa tra la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, il laghetto dell’Eur e il Collegio Massimo. Lì, secondo Strabone e Dionigi di Alicarnasso, Remo progettava di far sorgere la sua città, in posizione strategica proprio come il guado dell’isola Tiberina, per controllare cioè i traffici nord-sud e costa-interno. E lì, durante i lavori per l’E42 sono riemersi i resti di un tempio e di ville risalenti al vi secolo a.C., trattati però con estrema disinvoltura: tutto distrutto, a parte alcune antefisse conservate al Museo Nazionale Romano.

    Non mancano idee alternative sulla collocazione di Remoria: nel 2003 l’archeologo Filippo Coarelli ne ha proposto l’ubicazione sulla riva destra del Tevere, al Monte delle Piche, nei pressi della moderna stazione Magliana della Roma-Fiumicino

    A ricordare Remo rimane il Saxum Remorium sull’Aventino, che da allora e per molti secoli porterà con sé la fama di colle maledetto.

    SATURNO, ERCOLE E LE ALTRE ROME

    Un mito parallelo a quello dei gemelli, cantato anche da Virgilio, racconta del principe Evandro in fuga dalla Grecia che su indicazione del dio Tiberino⁵ si stabilisce sul Palatino con i suoi ventisette Argei⁶, dando vita a Pallanteum (Pallante) così chiamata in omaggio alla loro città di origine, Pallantion. Lì accoglie Ercole reduce dall’uccisione di Caco, reo di avergli rubato i buoi di Gerione, lo purifica e gli dedica l’Ara Maxima nei pressi del porto fluviale sul Tevere. Non bastasse, aiuta anche Enea schierando al suo fianco il figlio Pallante.

    Ma di mitiche città preesistenti a Roma sono pieni i testi antichi. Né sarebbe potuto essere diversamente, viste le molte narrazioni sull’avvicendarsi di popolazioni nella zona, così schematizzato da Dionigi di Alicarnasso⁷: in origine erano i Siculi, veri nativi del luogo, sui quali regnava Caco, figlio di Vulcano e fratello di Caca, antesignana di Vesta; i Siculi furono scacciati verso la Sicilia (o la Liguria) dagli Aborigeni provenienti dall’Appennino centrale, che avevano in un gigante a tre teste, Tricaranus, la loro arma letale; ma prima della cacciata dei Siculi, l’unione con gli Aborigeni dà origine ai Prisci (primi) Latini; poi sarebbero arrivati, nell’ordine, i Pelasgi dalla Tessaglia, gli Arcadi di Evandro, gli Elei e i Feneati dal Peloponneso – con Ercole al seguito – e buoni ultimi i Troiani di Enea.

    Prima ancora di Pallante i miti raccontano però di Saturnia, una cittadella fortificata (oppidum) fondata e governata sul Mons Saturnus – antico nome del Campidoglio – dal dio Saturno, che era stato accolto nel Lazio dall’antichissimo dio italico Giano (Ianus). Costui, dio del passaggio, con la sorella-moglie Camesena governava Ianiculum – detta Antipolis in opposizione a Saturnia – sulla vetta del Gianicolo, mentre il possesso del Campidoglio passava da Saturno a Ercole e ai suoi compagni di avventure.

    C’è infine Valentia, la più antica di tutte, fondata anch’essa sul Palatino ma dagli Aborigeni. Le loro origini sono incerte: per Dionigi di Alicarnasso sono esuli ateniesi, per altri autori sono originari della Sabina, per altri ancora il frutto della tredicesima fatica di Ercole, giacere con le cinquanta figlie del re greco Tespio. Non è naturalmente un caso che Valentia voglia dire forza, e il suo equivalente greco sia ρώμη (rome). Come non è un caso, osserva lo storico e archeologo Massimo Pallottino, che di questo vorticare di dèi, eroi e popoli, sia Virgilio a tirare liberamente le somme: nell’Eneide (viii, 355-358) Evandro mostra a Enea, dal Palatino, le rovine di Ianiculum e di Saturnia. Il minestrone dei miti è servito.

    Questo bailamme di popoli fuggiaschi serve a nobilitare le radici non solo dei Romani, ma dell’intera popolazione laziale, identificando Roma e la sua regione come il rifugio multietnico per antonomasia, si tratti di divinità decadute o di umani alle prese con nobili missioni. Una città aperta prima ancora di diventare città.

    Ai ventisette Argei di Evandro è legata anche una delle prime celebrazioni dell’antica Roma: a maggio le vestali – dopo una processione lungo i sacrari dedicati agli Argei in tutte le ventisette curie cittadine – lanciavano nel Tevere dal ponte Sublicio ventisette fantocci di giunco con le mani e i piedi legati, alla presenza del pontefice massimo e di una selezionata rappresentanza di cittadini romani.

    Su quel rito si arrovellano gli studiosi, poco aiutati dalle fonti classiche, ognuna delle quali offre una spiegazione diversa: si va dal ricordo del numero di compagni perduti da Ercole nel Lazio, alla rievocazione dei sacrifici umani a Saturno, alla prescrizione per gli Aborigeni di liberarsi dei sessantenni gettandoli nel fiume (sexagenarios de ponte), per finire con i sacrifici di prigionieri greci nel periodo delle guerre puniche.

    La spiegazione del filologo svizzero Fritz Graf appare la più attendibile: è il rito finale della purificazione che inizia nel mese di marzo con le cerimonie ai ventisette altari dedicati agli Argei; prosegue con la purificazione delle case il 9 maggio con la festa dei Lemuria; e si conclude con il lancio dei fantocci nel Tevere a scopo propiziatorio per tutta la città. Un chiaro riferimento ai tempi arcaici in cui si praticavano sacrifici umani. Il lancio dei fantocci è insomma l’equivalente romano del sacrificio del toro bianco a Giove Laziare, che sul monte Albano sostituiva l’offerta di vite umane agli dèi, proprio come si faceva sul Campidoglio.

    ____________________________________________

    ¹ Tito Livio, Ab Urbe condita, Proemio.

    ² Il Rio Torto nei pressi di Ardea, secondo Antonio Nibby.

    ³ Enea Silvio, Latino Silvio, Alba, Atys, Capys, Capeto, Tiberino Silvio, Agrippa, Romolo Silvio, Aventino, Proca.

    Auspicium: composto di avis, uccello e specĕre, guardare o osservare il volo degli uccelli, che annuncia il volere degli dèi.

    ⁵ Figlio di Giano e della ninfa Camesena, o Camena. Da non confondere con le Camene, le quattro divinità delle sorgenti: Egeria, Carmenta, Antevorta, Postvorta.

    ⁶ Gli esuli del Peloponneso provenienti dall’Arcadia; il capo della loro flotta, Catillo, sarebbe il fondatore di Tibur (Tivoli).

    ⁷ Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane.

    LA PREISTORIA

    L’epicentro di queste vicende è la Valle del Tevere, realtà fisica di cui abbiamo perduto cognizione dopo millenni di colmate, sbancamenti, tagli e accumulo di sedimenti. Colli e monti si sono arrotondati e ristretti, valli e bassure sono state riempite e livellate, alcuni rilievi completamente spianati. Innumerevoli i corsi d’acqua deviati e tombati, molti gli stagni e le paludi prosciugati. Il risultato è che il moderno piano di calpestio si trova tra i dieci e i venti metri più in alto rispetto all’antichità.

    Quando i primi Sapiens popolano la zona, circa cinquantamila anni fa, il corso del Tevere ha da poco terminato le peregrinazioni tra Toscana, Umbria e Lazio, obbligato dalle eruzioni dei vulcani Sabatino e Laziale a cercare un alveo e una foce sempre diversi. Siamo nel pieno dell’ultimo massimo glaciale¹, quando le Alpi e parte degli Appennini sono incapsulati da calotte di ghiaccio e in pianura il paesaggio è un alternarsi di steppe e praterie, punteggiate da qualche quercia e da rari olmi e noccioli. Le uniche vere alberate sono costituite dai pioppi sulle sponde dei corsi d’acqua. Bisognerà attendere altri ventimila anni perché la vegetazione assuma l’aspetto odierno.

    La frequentazione umana dell’area romana è invece molto più antica. Lo testimoniano i reperti di homo Heidelbergensis risalenti al 325.000 a.C. ritrovati a Castel di Guido, nella Polledrara di Cecanibbio, dove allora scorreva il Paleotevere. Le prime tracce di neanderthaliani datano invece a 250.000 anni fa (Paleolitico medio): sono i due crani di Sacco Pastore, ritrovati nel 1929 e nel 1935 sulla riva sinistra dell’Aniene, a Montesacro. Della stessa era, ma di duecentomila anni posteriori, sono le tracce di insediamento nell’area di Monte Cugno, ad Acilia. Sempre al Paleolitico medio risalgono i rinvenimenti più antichi in area urbana, sotto il tempio della Vittoria sul Palatino: selci lavorate datate tra 100.000 e 35.000 anni fa.

    La presenza umana si infittisce nel Neolitico antico (5600-4000 a.C.), con un’occupazione diffusa del territorio testimoniata dal ritrovamento di ben dodici insediamenti, alcuni dei quali stabili: Casale del Pescatore, Casale di Valleranello, Casetta Mistici, Castiglione, Il Frasso (via Spencer), Grotta Perfetta, Pantano Borghese, Quadrato di Torre Spaccata, Tenuta di Torrenova di Tor Vergata, Tor Pagnotta, Torre della Chiesaccia, Torrino-Mezzocammino. Quest’ultimo risale al 6000 a.C. ed è il più antico.

    Il denominatore comune è una posizione rialzata, su piccoli terrazzamenti nei pressi di corsi d’acqua dalla portata modesta, quindi non in grado di provocare danni pesanti in caso di piena.

    Le abitazioni sono già elaborate: a Tor Pagnotta sono state ritrovate le tracce di una capanna rettangolare (11x4,30 metri), sorretta da quarantadue pali, divisa in ambienti, con un focolare centrale infossato, forse soppalcata, datata 5620 a.C.

    Dal 3800, inizio dell’Eneolitico (fino al 3500 a.C.), le comunità del Lazio intessono una rete di contatti con altri insediamenti, non solo della penisola ma anche dell’Egeo, dell’Anatolia e dei Balcani. Lo dimostrano un vaso a fiasco ritrovato a Lunghezzina, simile all’esemplare rinvenuto in una necropoli dell’isola greca di Lefkas; l’ossidiana del Quadrato di Torre Spaccata, arrivata da Palmarola, Lipari e Monte Arci (Oristano); l’argento proveniente dal Sulcis Iglesiente; e l’ascia in rame della tomba 8 di Casetta Mistici, di provenienza egeo-anatolica se non siro-palestinese, la stessa del suo possessore, un esponente di spicco della comunità, forse il capo: un maschio tra i trenta e i quaranta anni, seppellito con il più ricco corredo di armi metalliche finora ritrovato nella zona, vale a dire tre asce, un pugnale e uno spillone. L’analisi del dna mitocondriale ne testimonia la probabile provenienza dal vicino Oriente.

    Pochi, tuttavia, tra i nostri antenati vivono in insediamenti stabili. La maggior parte di loro si muove molto e i loro itinerari preferiti sono paralleli alla costa oppure seguono le valli dei fiumi principali: Tevere, Aniene, Sacco e Liri. Oltre ai beni materiali, tra questi gruppi seminomadi vengono scambiate conoscenze, tecniche e idee, i mattoni con i quali costruire alleanze e matrimoni. Nelle comunità si intravedono i primi processi di gerarchizzazione, che producono le prime diseguaglianze sociali in collettività fino ad allora strutturate su base egualitaria, anche tra generi: le donne sono armate esattamente come gli uomini.

    Verso la fine del quarto millennio il clima di coesistenza più o meno pacifica cambia rapidamente. Intorno al 3300 a.C. (Eneolitico medio, fino al 2820), gruppi provenienti dal sud penetrano nell’area romana attraverso la Valle del Sacco, occupano con la forza gli abitati e ne fondano di nuovi, costringendo le popolazioni locali a spostarsi verso la costa.

    Le nuove comunità sono coese, impermeabili agli influssi esterni. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di una popolazione di origine indoeuropea, con radici nell’area del Mar Nero, giunta nella penisola seguendo due direttrici: dall’Anatolia e dall’Egeo via mare, dal Danubio via terra.

    A Roma le testimonianze più significative di questa occupazione sono l’abitato e la necropoli di Casetta Mistici, in zona Torre Angela, e la necropoli di Torre della Chiesaccia, al chilometro 10 della Laurentina, dove sono emerse tombe a carattere elitario, cioè riservate a pochi.

    Nella tomba 4 della Chiesaccia l’inumato, un maschio di circa venti o trenta anni (per l’epoca età di tutto rispetto), è ad esempio seppellito con un ricco corredo di ceramiche, completato da cinque pugnali e quarantadue punte di freccia, un armamentario che ne testimonia il rango elevato.

    È probabilmente ancora più elevato lo status dei due individui di sesso maschile della tomba 1٥, i cui corpi prima dell’inumazione vengono segnati con il prezioso cinabro. Accanto al primo, morto tra i venti e i trenta anni, due pugnali – uno dei quali in rame – sono conficcati in un pozzetto scavato nel terreno, il che fa del defunto probabilmente un capo. Per gli antichi infiggere un’arma nel terreno indica infatti volontà di conquistare e colonizzare un territorio, e chi meglio di un leader può compiere tale rituale?

    Quasi unico l’oggetto ritrovato accanto al secondo individuo, insieme al canonico set di armi: un vaso in ceramica a guscio di noce con i bordi forati, l’esterno levigatissimo e l’interno non rifinito. È la cassa armonica di uno strumento a corda, un primitivo liuto di cui è noto soltanto un altro esemplare, proveniente da Piano di Sorrento. Un oggetto la cui rarità qualifica l’individuo come un membro dell’élite dedito alle pratiche sciamaniche.

    Nell’Eneolitico recente (2820-2620 a.C.) i siti abitati si moltiplicano, generalmente nelle aree di fondovalle dei corsi d’acqua secondari. La presenza di quattro insediamenti molto vicini tra loro nell’area sudorientale – Piscina di Torre Spaccata, Osteria del Curato-Anagnina, Osteria del Curato-via Cinquefrondi e Tor Vergata-Unità Anagnina 2 –, lungo i fossi di Gregna e dell’Incastro, lascia ipotizzare l’esistenza di un unico agglomerato pre-urbano di ragguardevoli dimensioni. Altre comunità dell’area sudorientale – Romanina e Lucrezia Romana le principali – sembrano più ricche e pacifiche rispetto alle altre, vista la quasi totale assenza di punte di freccia nelle sepolture.

    Le capanne sono più elaborate: nell’insediamento di Osteria del Curato-via Cinquefrondi è stata individuata un’abitazione di forma ovale con una superficie superiore ai cento metri quadri dotata di un doppio portico di trenta metri quadri e un lungo corridoio di diciotto metri, anticipatrice delle capanne dell’Età del Ferro.

    Alcune aree interne dei villaggi sono pavimentate ad acciottolato, con funzione drenante. Gli abitanti allevano soprattutto ovicaprini e in misura minore bovini e suini, coltivano farro, orzo, fave e cicerchie e integrano sporadicamente la dieta con la cacciagione. La bevanda alcolica è l’idromele, molto usato a scopi rituali.

    Nonostante lo strenuo impegno per la sopravvivenza, la vita è breve. Uno studio compiuto sui resti di centoundici individui inumati in quella zona dice che nell’area la speranza di vita media è di ventiquattro anni, che solo un essere umano su tre supera i trenta anni e che appena l’1,8% del campione va oltre i cinquanta anni. Ancora più crudi i dati di una ricerca condotta su novantatré inumati a Lucrezia Romana: speranza di vita alla nascita, ventuno anni.

    Il miglioramento delle comunicazioni, grazie al carro trainato e alla navigazione, favorisce intanto i movimenti delle popolazioni, con relativi rimescolamenti: nel Centro Italia da questo momento e fino al 1000 a.C. arrivano genti via terra dal vicino Oriente e dalle steppe Ponto-Caspiane, mentre per mare giungono Greci, Fenici e Punici.

    L’Eneolitico finale (2670-2130 a.C.) è l’età definita del villaggio diffuso, cioè piccole comunità riunite in abitati relativamente vicini tra loro: si sono contati finora ventotto siti, due dei quali – Sant’Omobono e Foro Romano –, in pieno centro storico. Nei villaggi spuntano magazzini e forni, la pastorizia si dota di stazzi per la stabulazione e la mungitura, pratiche che saranno tramandate sostanzialmente identiche fino ai primi del Novecento.

    L’Età del Bronzo antico (2300-1700 a.C.) è contrassegnata dall’aggiunta di insediamenti sul Campidoglio, nell’area sacra di Sant’Omobono (di fronte all’odierna Anagrafe), a Lucrezia Romana, Fosso di Torre Spaccata, Casale di Torre Spaccata, Ponte Linari, Fosso di Gregna. Si tratta di gruppi di capanne non fortificati, in posizione aperta. Significa che il livello di conflittualità dell’epoca, per la verità con una popolazione umana assai ridotta, è prossimo allo zero, e questo nonostante il territorio attraversi una fase arida che ne compromette la produzione agricola, favorendo quindi le possibilità di scontri per il cibo.

    La struttura sociale degli insediamenti è semplice: non si va oltre i rapporti di parentela tra pochi gruppi familiari. Ciascun componente ha un ruolo, legato a sua volta alla principale missione del villaggio: la sopravvivenza. Tradotto nei fatti, significa coltivare cereali e legumi, allevare bestiame, soprattutto di taglia medio-piccola, delegare pochi uomini e donne alla caccia, produrre artigianalmente l’indispensabile: ceramiche, vestiario e poco altro.

    Nel Bronzo medio (dal 1700 al 1300 a.C.), emerge netta la differenza tra i due territori separati dal Tevere: la riva sinistra è in ritardo rispetto a quella destra, dove nei grandi insediamenti etruschi lo sviluppo della cultura villanoviana produce progressi nell’agricoltura e nella metallurgia. I villaggi del Latium Vetus², fermi all’ancora primitiva cultura appenninica, sono invece impegnati con la pastorizia e la transumanza.

    Il fiume rappresenta dunque un confine anche culturale tra popoli che parlano lingue molto diverse tra loro, l’etrusco e il proto-latino, una variante del falisco in uso in un’enclave tra i Cimini e i Sabatini, del tutto estranea all’Etruria.

    A tale periodo risalgono i primi reperti in ceramica dell’area sacra di Sant’Omobono, tutti però ritrovati in giacitura secondaria. Vale a dire che provengono dal soprastante Campidoglio, sede di un nucleo abitato evolutosi dal xvi secolo a.C, e collegato al mito di Saturnia. Altri reperti coevi sono stati infatti ritrovati nell’area del Tabularium.

    Con l’espansione demografica i villaggi, che di solito non superano i cinque ettari di estensione, arrivano a contare alcune centinaia di abitanti. Esempi ne sono Ficulea, al chilometro 14 della via Nomentana – strada inizialmente denominata Ficulensis –, all’altezza del Torraccio di Capobianco, zona Sant’Alessandro; Fidenae, nel comprensorio della moderna Fidene; Gabii, al chilometro 19 della Prenestina; Nomentum, al chilometro 21,5 della Nomentana, nel comune di Mentana.

    Nell’area urbana reperti di ceramica attestano la presenza di insediamenti stabili sul Palatino così come nella Valle del Foro, parzialmente acquitrinosa e inizialmente utilizzata soprattutto per sepolture del tipo a cremazione.

    Al 1300-1200 a.C. (Bronzo recente) risale l’insediamento protostorico del Campidoglio, i cui resti sono venuti alla luce tra il Giardino Romano di Villa Caffarelli e il Palazzo dei Conservatori: si tratta di capanne, tombe infantili e di un’area destinata alla lavorazione dei metalli.

    Dal 1200 al 1000 a.C. (Bronzo finale) le piccole comunità autonome del circondario intensificano l’uso della necropoli nella Valle del Foro, nei pressi del futuro Tempio di Antonino e Faustina. Nel primo Novecento sono venute alla luce quarantuno tombe, quindici delle quali di bambini, a conferma che la Roma protostorica e dei primi re riservasse un’attenzione particolare ai piccoli defunti, nonostante l’elevatissima mortalità infantile inducesse Numa Pompilio a vietare le manifestazioni di lutto per i morti entro i tre anni³.

    Il ritrovamento sul Campidoglio di frammenti di ceramiche di tipo italo-miceneo testimonia che di fronte all’isola Tiberina è già presente uno scalo fluviale bene inserito nei traffici mediterranei. Verso il mare i Latini fondano sul Monte Cugno la città di Ficana, che sulla riva sinistra fronteggia la foce del Rio Galeria e il guado allora più in uso.

    Intorno al 1000 a.C. si sviluppa la cultura dei Colli laziali (Cultura laziale), che nel corso di due secoli porta alla formazione delle città-stato e al contestuale aumento delle popolazioni residenti. I primi centri urbani sono Roma, Gabii, Ardea, Lavinium (nessuna corrispondenza con la moderna Lavinio), Anzio, Satricum. Tra il x e il ix secolo i Colli Albani raggiungono il massimo splendore, registrato nella leggenda di Alba Longa, fondata secondo un mito alternativo non da Ascanio ma da Pico⁴. Della città intesa come centro unitario non esistono però tracce, nonostante si sia scomodato persino Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia; i ritrovamenti sul Monte Cavo – l’antico Mons Albanus – ci parlano di una serie di piccoli villaggi popolati al massimo da un centinaio di persone. L’aggettivo longa potrebbe testimoniare la peculiare conformazione di concatenazione di piccoli abitati, il cui centro simbolico dovrebbe essere identificato in Castel Gandolfo.

    Di Alba, peraltro, parlano soltanto i miti di fondazione di Roma e di centri vicini, al punto che autori come Prisciano la ignorano, ponendo la capitale della lega latina ad Ariccia, sede del santuario della veneratissima Diana Aricina (oggi nel comune di Nemi). Al contrario, Plinio il Vecchio narra di una federazione di 30 populi Albenses devoti a Iuppiter Latiaris⁵ che abitano altrettanti centri del Latium Vetus, alcuni dei quali nell’area della futura Roma:

    • Albani (da Alba Longa);

    • Aefolani (da Aefula, l’odierna San Gregorio da Sassola);

    • Accienses (da Aricia, oggi Ariccia);

    • Abolani (forse Apiolae, tra Pavona e Albano);

    • Bubetani (ignoti);

    • Bolani (da Bola, forse l’odierna Labico);

    • Cusuetani (da Carventum, forse l’odierna Rocca Massima);

    • Coriolani (da Corioli, odierno Monte Giove, nei pressi di Genzano);

    • Fidenates (da Fidenae, odierna Fidene);

    • Foreti (forse nell’area centrale di Roma);

    • Hortenses (ignoti);

    • Latinienses (dall’area Campo Marzio-Parioli);

    • Longani (da Longula, probabilmente nel territorio di Aprilia);

    • Manates (ignoti);

    • Macrales (ignoti);

    • Mucienses (dal collis Mucialis, sul Quirinale);

    • Numinienses (da Nomentum, odierna Casali, frazione di Mentana);

    • Olliculani (ignoti);

    • Octulani (ignoti);

    • Pedani (da Pedum, odierna Gallicano nel Lazio);

    • Polluscini (da Politorium, l’Acqua Acetosa Laurentina);

    • Querquetulani (dal Celio);

    • Sicani (forse dall’antica Tibur, in antico oppidum Siciliae);

    • Sisolenses (da Sassula, nei pressi di Tivoli);

    • Tolerienses (da Toleria, oggi Colli di San Pietro, a Colleferro);

    • Titienses (ignoti);

    • Vimitellari (forse associabili al Viminale);

    • Velienses (dalla Velia);

    • Venetulani (ignoti);

    • Vitellenses (da Vitellia, forse l’odierna Bellegra);

    A questi Plinio premette un elenco di 20 clara oppida (famose città), collegate direttamente alla prima Roma:

    • Ameriola (forse Castelchiodato, frazione di Mentana);

    • Amitinum (forse sui Monti Cornicolani)

    • Antemnae (sul Monte Antenne, Roma);

    • Antipolis (sul Gianicolo);

    • Caenina (La Rustica, Roma);

    • Camerium (ignota);

    • Collatia (ignota);

    • Corniculum (Montecelio);

    • Crustumeria (Marcigliana, Roma);

    • Ficana (Monte Cugno, Acilia);

    • Medullum (ignota);

    • Norbe (Norma);

    • Pometia (forse nel territorio di Cisterna di Latina);

    • Politorium (l’Acqua Acetosa Laurentina);

    • Satricum (Le Ferriere, Latina);

    • Saturnia (Campidoglio);

    • Scaptia (forse nei paraggi di Tivoli);

    • Sulmo (Sermoneta);

    • Tellena (forse nei pressi di Politorium);

    • Tifata (forse nel territorio di Roma).

    Ancora aperto il dibattito se i trenta populi e i venti clara oppida pliniani siano una fotografia attendibile della situazione preesistente alla nascita dell’Urbe.

    Gli insediamenti sulle cime di colli e monti hanno la forma di piccoli villaggi, i cosiddetti pagi⁶, abitati da alcune decine di individui, un centinaio al massimo, imparentati tra loro. La gerarchia interna è data dall’età, dal sesso e dal ruolo nella comunità. Le

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