Socrate in azienda: Da manager a leader con l’aiuto dei grandi filosofi
Di Luca Barni
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‘‘Non bisogna essere degli intellettuali per filosofare. Lo testimoniano, nella storia aziendale, gli imprenditori che hanno praticato una visione imprenditoriale olistica, da Adriano Olivetti a Brunello Cucinelli. Non è necessario possedere il sapere quanto interrogarsi sul sapere. È una questione di approccio alla realtà, per cui una situazione ordinaria diventa un’occasione per affrontare una questione di fondo, e soprattutto per prendere posizione rispetto alla stessa.
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Anteprima del libro
Socrate in azienda - Luca Barni
Capitolo 1
In azienda ha senso chiedersi il Senso?
Situazione aziendale
Colazione di lavoro con i clienti, il metodo migliore per conoscere la persona e l’imprenditore, che è anche cliente. E sempre, davanti a un buon piatto, l’imprenditore racconta l’azienda ma in modi diversi. C’è chi fa riferimento alle caratteristiche del prodotto valorizzando il motivo per cui la clientela ne è soddisfatta, c’è chi magnifica la tecnologia del prodotto o del servizio che quasi anticipa le esigenze future della clientela, c’è chi ti parla della qualità dei dipendenti che lavorano in team e infine c’è chi, pochi, parlano della redditività aziendale. Ascoltare gli imprenditori mi ha fatto comprendere che nei loro discorsi c’è un’implicita espressione del senso della loro attività al punto che il pensiero, controintuitivo per la maggioranza, è che la redditività sia una derivata di un qualcosa più profondo, di qualcosa che ha senso.
E allora, ha senso porsi la domanda sul senso dell’attività aziendale? Se, d’acchito, si pensa che il fine di un’azienda sia il solo produrre reddito, potrebbe non aver senso porsi la domanda sul senso. Chi fa del reddito il proprio valore è un cantautore nei cui testi non si trovano tracce di esso.
Un senso di sfiducia potrebbe derivare anche dal fatto che alcune aziende gestiscono l’immagine non attraverso i propri valori, ma cavalcando mode temporanee: anni a parlare e scrivere di CSR (Corporate Social Responsibility), ora soppiantato dall’ESG Reporting (Environmental, Social e Governance). Aziende che producono profitti con la massima attenzione alle energie rinnovabili, all’efficienza energetica, al riciclo e alla lotta agli sprechi, agli stakeholder (dipendenti, fornitori, investitori, clienti), al buon governo che minimizza i rischi gestionali, la reputazione e la massimizzazione del valore nel medio-lungo termine. Chi trova un’azienda in cui ci sono tutti questi fattori al massimo grado dovrebbe perlomeno candidarla al premio come migliore azienda dell’anno.
Ma siccome la generalizzazione uccide la discussione, dico che molti imprenditori la domanda se la pongono, li ho incontrati nella mia vita professionale. Come detto poco sopra, sono quelli che a pranzo della loro azienda ti parlano di tutto meno che del reddito, anche se le loro performance sono le migliori del settore. Sono quelli che ti portano in produzione e ti spiegano come è stato progettato un macchinario dall’R&D, composto da persone giovani provenienti dalle migliori università. Da ultimo, ma forse per questo più importante, lo vedi dal sorriso dei collaboratori quando salutano il capo che tipo di capo sia colui con cui stai parlando.
Se poi volgiamo lo sguardo al Terzo settore, quello vero, la domanda sul senso se la pongono in molti.
Sono quelli che non solo sono attenti ai propri principi, ma ascoltano quelli dei collaboratori e ne verificano la coerenza con i valori aziendali.
Ho passato una vita dichiarando che siamo qui per fare reddito, perché ho lavorato una vita per aziende il cui nome, comprensivo della parola cooperativo
, è grondante di senso. Paradossale? Mica tanto, perché lì il problema a volte è il contrario, cioè il senso spesso impedisce (inconsciamente o consciamente) il cambiamento necessario a costruire un nuovo e diverso futuro, mantenendo fede alla mission originaria. Perché se cambia il contesto non cambia la mission e quindi il senso, ma le modalità per raggiungerlo sì.
Cosa significa porsi la domanda sul senso?
In filosofia la domanda è sempre stata riferita all’uomo, al suo interrogarsi sul senso della propria esistenza, passata presente e futura.
Gianfranco Giudice, autore di diversi saggi, sostiene che la risposta è porsi le domande giuste. Per il motivo semplice che una domanda mal posta non ha una risposta, o, se ce l’ha, è sbagliata. Domanda e risposta sono due binari paralleli di un unico percorso che ha un unico punto d’arrivo comune.
Quanto è vero questo paradigma oggi nel tempo delle risposte a qualsiasi domanda che provengono dal web. Per ogni argomento si prende lo smartphone si googola
e si pensa di trovare la risposta corretta. Senza approfondimenti sull’autore e senza domandarsi se la risposta è appropriata veramente alla domanda; l’unica cosa che conta è la velocità di replica. Poco vale che essa non abbia profondità e quindi sia solo nozionismo, figurati se si pensa alla correttezza in base alla domanda. Troppo lento il processo, anche se decisamente superficiale.
Torniamo alla filosofia, e al passo indietro come metodo del filosofare, per dire che il processo inizia interrogandosi sulla correttezza della domanda, ergo è la domanda la genesi del pensiero. Estremizza Giudice dicendo che esistono solo domande e non risposte, a meno di non intendere quest’ultime come «provvisorie stazioni nel movimento del domandare e interrogare senza fine».
L’autore continua sostenendo che è la facoltà della domanda che fa di un animale un animale umano.
Affermazioni estreme, sì, ma estremamente efficaci nel significato. Sì, perché le domande implicano l’ascolto dell’interlocutore e l’accettazione del relativo pensiero, soprattutto quando è lo spessore dei contenuti a sostenerlo. E il contenuto della risposta convince gli altri quando regge alla forza d’urto di altre domande che tentano di contraddirla, integrarla o ampliarla. Se, invece, non regge alla forza d’urto, il dialogo deve continuare attraverso altre domande.
Concludendo, il dialogo ha un ipotetico termine quando la tesi dell’interlocutore ha la forza di sostenere ogni domanda che gli venga posta.
In azienda esistono sempre le condizioni perché ciò avvenga in modo fluido?
Non sempre. Ad esempio, l’organigramma aziendale può essere utilizzato come alibi per non andare oltre un confronto di facciata, aprendo così all’individualismo, fondato sul potere e non sul logos, in cui ogni pensiero è incentrato sulla sfera d’interesse del manager. Comportamento, quest’ultimo, il cui orizzonte è di breve termine, mentre la maggioranza delle decisioni aziendali ha nel medio-lungo termine l’orizzonte naturale. Ma, peggio ancora, la considerazione della sola sfera d’interesse del manager può sfociare nel delirio di onnipotenza, vero dramma per un’azienda che ha al vertice un manager di tal fatta.
Se il fine della filosofia è porre le domande giuste per avere le risposte giuste, quanto è utile nelle dinamiche aziendali? Direi tanto, perché se lavorare nel mercato significa cogliere le esigenze della clientela, devi porgli le domande giuste. E poi, se lavorare nel mercato significa anticipare le esigenze della clientela devi farti le domande giuste. Aggiungo che se lavorare nel mercato significa evolvere il prodotto/servizio, devi farti le domande giuste. E finisco dicendo che se l’azienda è un sistema dinamico, la domanda corrisponde al propellente del divenire.
Concludendo, anche per l’azienda vale il principio che per dare la risposta giusta al mercato devi prima porti la giusta domanda. E porsi le domande significa sottoporsi a un esame la cui etimologia deriva dalla parola latina examen, che significa ago della bilancia, strumento di pesatura.
Andiamo oltre. In azienda le domande rappresentano la genesi della conoscenza ma, anche e soprattutto per chi le pone, uno strumento potente di crescita delle persone che gli stanno accanto.
Sul tema della crescita delle persone, o meglio della loro valorizzazione, sovviene l’affermazione di Piero Pagnotta tratta dal libro Filosofia del Management: «Se per gestire bene le risorse umane di una organizzazione fosse sufficiente l’applicazione di parametri tecnici... non si spiegherebbero tante diffuse inefficienze e vere e proprie crisi». Affermazione propedeutica a un altro pensiero secondo cui le organizzazioni umane necessitano di competenze tecnologiche e amministrative, ma il fattore di maggiore difficoltà è rappresentato dalle persone, che devono essere comprese e positivamente coinvolte. Quale metodo migliore per comprendere e coinvolgere le persone del fare e farsi delle domande, cioè filosofare? Quale metodo migliore per stimolare le persone a nuove possibilità interpretative che sfociano in soluzioni operative, applicando così il pensiero del filosofo e pedagogista Paul Natorp: «Il pensiero non è mai in quiete, sempre al lavoro, sempre in questo lavoro trascendendo sé stesso, il pensiero trasforma il pensante, e lo trasforma in modo tale che al pensante diviene sempre più impossibile ripensare nello stesso modo a ciò che ha pensato in