Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Caporetto Management: Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni
Caporetto Management: Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni
Caporetto Management: Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni
E-book225 pagine2 ore

Caporetto Management: Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

“Caporetto management” non è un libro storico e neanche una descrizione basata solo sull’empirismo. Non si limita a raccontare ciò che è stato, ma fa un triangolo, punto per punto, tra gli accadimenti successivi alla disfatta di Caporetto, le esperienze in qualche modo analoghe del presente e i necessari riferimenti al lavoro che, sui singoli temi, è stato realizzato a livello accademico.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2018
ISBN9788829534876
Caporetto Management: Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni

Correlato a Caporetto Management

Ebook correlati

Gestione per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Caporetto Management

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Caporetto Management - ANTONIO IANNAMORELLI

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.yndy.it

    ISBN 978-88-99663-79-7

    Immagine di copertina a cura di Mosaico Studio http://www.mosaicostudio.com/

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2018 

    presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    CAPORETTO

    MANAGEMENT

    di

    Antonio Iannamorelli

    PREFAZIONE

    di Giuliano Frosini*.

    Spesso, quando parliamo di crisi cadiamo nel luogo comune della descrizione della crisi come opportunità, facendo ricorso all’abusatissima rappresentazione giapponese che rappresenta questo concetto con un unico segno.

    Il luogo comune è tale, però, perché chi lo cita, puntualmente, si dimentica di raccontare in concreto come fare di necessità virtù. Il pregio di queste pagine scritte da Antonio Iannamorelli è che prova ad andare oltre il luogo comune. Non con delle teorie astratte, ma recuperando un esempio dal grande bagaglio della storia nazionale.

    Caporetto management, però, non è un libro storico e neanche una descrizione basata solo sull’empirismo. Non si limita a raccontare ciò che è stato, ma fa un triangolo, punto per punto, tra gli accadimenti successivi alla disfatta di Caporetto, le esperienze in qualche modo analoghe del presente e i necessari riferimenti al lavoro che, sui singoli temi, è stato realizzato a livello accademico.

    La crisi è un’opportunità, innanzitutto, se il manager ha il profilo giusto per affrontarla, se è una persona concreta, non gelosa e non incline al protagonismo ed alla visibilità. Proprio queste caratteristiche si esaltano in due plus che Antonio mette in evidenza, rispetto all’agire di Armando Diaz.

    Le relazioni con il mondo esterno all’Esercito e la capacità di allestire una squadra fondata sulle competenze.

    Mi ha colpito il commento che fa l’assistente di Cadorna, dal cui diario Antonio attinge molte informazioni: Diaz? Ma non è un nome!. Ecco, meno un manager è un nome, più gli è facile governare situazioni che appaiono disperate. Perché può contare su un ambiente circostante più tranquillo. E penso che le pagine che seguono spiegano bene come Armando Diaz ci abbia consegnato una lezione importante nel tradurre il suo profilo basso anche in capacità di avere buone relazioni con le istituzioni e gli stakeholders.

    Quando sei in difficoltà hai bisogno di aiuto. Anzi, del massimo aiuto possibile. Un manager che ha una giusta dimensione di sé stesso è anche in grado di comprendere che ha bisogno di colmare le proprie mancanze con le competenze necessarie e che queste vanno ricercate anche al di là dei formalismi, con coraggio, essendo pronti a resistere ai contraccolpi che inevitabilmente arriveranno dall’esterno e dall’interno. Diaz in tal senso è stato un innovatore attento e senza retorica, ben prima che Aldo Moro definisse queste come le caratteristiche delle classi dirigenti che avrebbero guidato il domani. Le riforme organizzative interne dell’Esercito relative alla devoluzione alle unità minori della responsabilità dei comandi dell’artiglieria, sono un esempio di questa innovazione attenta, ma maggiormente rilevante è la strutturazione della rete degli Ufficiali P, non per grado ma per competenza. Più i tempi evolvono, più la dinamica della specializzazione assume importanza rispetto alla meccanicità dei cursus honorum basati sulla seniority.

    Affermare questo principio, anche oggi non è facile. Figuriamoci allora. Ed immagino le resistenze di allora perché in ogni organizzazione – anche oggi – la conservazione è sempre in agguato ed è pronta a reagire alle innovazioni. Questo conflitto si risolve solo in un modo: conseguendo i risultati.

    Ne abbiamo di esempi, passati ed attuali, di casi in cui, innovazioni che hanno fornito risultati appena al di sotto dei livelli attesi, hanno aperto la strada a poderose restaurazioni, con copiosa rivincita di chi le innovazioni le aveva subite.

    Buone relazioni con l’esterno e capacità di assemblare un team con cui fare squadra, rappresentano elementi sostanziali per trasformare la difficoltà in rilancio. Addirittura facendone un brand. Ovviamente da sole non bastano. Ma ne sono la premessa. Oggi come allora è fondamentale che la comunicazione sia autorevole e trasparente, basata più su contenuti efficaci e sulla loro gestione attenta che sulla costruzione di una rete di giornalisti al seguito. Più il settore in cui si opera è delicato, più ha a che fare con la sensibilità o con la vita stessa delle persone, più l’onere di autorevolezza e trasparenza è massimo. Iannamorelli ricorda come l’ENI abbia fronteggiato fake news e comunicazione ostile in maniera quasi strutturale e come il dividendo di questa azione sia stato utile, non solo nei momenti di crisi comunicativa contingenti, ma anche (e soprattutto) dopo.

    Diaz ci insegna che la prima fonte di conferma dell’autorevolezza comunicativa di una organizzazione sono i suoi membri e le persone che sono a contatto più stretto con loro, vuoi per ragioni fisiche che per ragioni di tipo familiare. Significativo l’esempio che Iannamorelli recupera dai titoli del Resto del Carlino, una testata emiliana, con lettori geolocalizzati subito al ridosso del Veneto, dove gli eventi tragici della rotta di Caporetto si andavano dispiegando. In quei titoli che, riprendendo i bollettini ufficiali, negano la realtà e l’evidenza dei fatti, si capisce quanto il popolo ben constatava, dalla viva voce dei protagonisti di ritorno, la diversa – diversissima! – trama degli eventi, e da qui possiamo rintracciare la ragione vera della diffusione delle fake news che colpiscono le aziende ed addirittura interi comparti produttivi.

    Una comunicazione seria, invece, che corrisponde ad un reale cambiamento delle condizioni operative che hanno determinato una crisi, è tanto più efficace se a diffonderla sono i lavoratori, le loro famiglie, le organizzazioni e le formazioni sociali di cui fanno parte o che ad essi rivolgono la loro attenzione. Questo può accadere se le strategie di engagement interne ed esterne funzionano. La correlazione tra effettivi meriti dei soldati in azione al fronte, gratificazioni per loro e sostegno per le loro famiglie è un esempio pratico eccezionale per chi dirige un’organizzazione di qualsiasi tipo, anche non necessariamente complessa. Non si otterrà nessun risultato positivo in fase congiunturale deprimendo la propria forza lavoro, sia essa fatta da dipendenti in sensostretto o da agenti o da concessionari o da affiliati. Essi rappresentano invece la vera leva della resurrezione della FEnice aziendale, che può avvenire se i terminali del processo produttivo sono adeguatamente motivati, se colgono cioè la corrispondenza tra il loro impegno ed il loro guadagno e, a contrario, tra il loro disimpegno e la loro caduta in disgrazia.

    Un amministratore che punta solo sulla minaccia della punizione o su quella del licenziamento farebbe, prima o poi, la fine di Cadorna del quale non vengono ricordate neanche le cose fatte per bene, come ad esempio l’organizzazione della ritirata. Perché si sa che la storia, vale per tutto, ma soprattutto per il business, la scrivono i vincitori.

    *Giuliano Frosini, attualmente in IGT,

    ha lavorato in Terna ed è stato

    membro del CdA di Ferrovie

    dello stato. E’ Adjunct Professor della

    Luiss Business School

    PREMESSA DELL’AUTORE

    Perché questo libro?

    Perché un manager dovrebbe studiare Armando Diaz? Chi dirige un’organizzazione ha chiaramente poco tempo, deve selezionare quello che legge e la scelta deve essere utilitaristica: deve cioè rispondere a criteri di reale incremento di capacità e qualità nell’ambito del suo lavoro.

    Qualunque organizzazione può trovarsi di fronte ad eventi drammatici, negativi, infausti. Per le cause più disparate. Le condizioni avverse possono essere determinate da eventi puntuali e deflagranti, oppure possono semplicemente essere croniche, sintomatologia costante di errori o mancanze riportate dal passato e non corrette con il tempo.

    Adottare strategie per il miglioramento della condizione dell’organizzazione, quale che sia, è senza dubbio la mission delle mission, di un manager. Non a caso, nelle job description, una costante delle attitudini richieste dai recruiter è quella al problem solving, che non significa necessariamente il mettere una pezza ad una situazione contingente.

    Che la problematica sia di breve o lungo periodo, acuta o cronica, esplosiva o latente, è fondamentale avere una strategia ed un ordine di priorità da affrontare per vincere la sfida della governance. Questo vale per il capo di una istituzione pubblica o di una organizzazione associativa privata, di una azienda complessa o di una piccola e media impresa.

    Per migliorarsi i manager guardano alle best practice e studiano i manuali dell’accademia. Tuttavia la mia esperienza concreta, di dirigente d’azienda e di studente – in tarda età, ma non è mai troppo tardi per esserlo – della XIV edizione del Master Comunicazione e Gestione dei Media dell’Università di Tor Vergata, mi ha dettato la convinzione che il modo migliore di approcciarsi alle nuove conoscenze per il cambiamento, sia una modalità blended, dove le pratiche di successo messe in campo in passato, siano lette attraverso categorie culturali aggiornate dalla teoria in costante evoluzione.

    Solo rileggendo fatti che accadono attraverso uno schema più sistematico e contenutisticamente solido, si possono capire a pieno i fatti che magari casualmente e senza un planning generale hanno determinato una strategia vincente e solo così, grazie ad una lettura complessiva, sono replicabili.

    E’ il caso degli eventi, raccontati e riletti, in questo libro: quelli accaduti all’Italia nel periodo tra la fine del 1917 e il 1918, subito dopo la rotta di Caporetto. Una crisi in senso tecnico ed accademico, con una dinamica che riscontra empiricamente – dai prodromi che la preannunciavano, fino alle modalità in cui si è sviluppata – la teoria della gestione e comunicazione di crisi.

    Allo stesso modo, le modalità di una inaspettata resilienza ripercorrono nei fatti la gestione accorta e complessiva di azioni che richiamano e quasi predicono quelli che oggi decliniamo con strumenti nuovi e tecnologici, che pianifichiamo, che insegniamo.

    Sono fatti di cento anni fa, su cui mancano studi sistematici in ambito di Scienza della Comunicazione e del Management. Moltissimi hanno trattato gli eventi che stanno alla base della mia analisi nell’ambito di manualistica e ricerca storica, altri si sono concentrati su singoli aspetti.

    Ho provato quindi a riannodare i fili dispersi, attraverso ricerche bibliografiche ed archivistiche, usando supporti cartacei e digitali, confrontandomi con esperti per rileggere gli avvenimenti del 1917-1918 come un unico mosaico ricostruito con l’occhio non dello storico, non del militare, non del giornalista, ma del manager.

    Storico non sono, sono manager. Ma la storia è una delle mie passioni. Forse inculcatami da mio nonno, internato militare Italiano in Germania dopo l’8 settembre 1943, o da quel regalo, fattomi dai miei genitori quando ero forse ancora troppo piccolo: La storia d’Italia a fumetti di Chiappori.

    Alla storia della prima guerra mondiale mi sono appassionato nel 2009. Allora svolgevo un ruolo pubblico che prevedeva anche la partecipazione alle processioni. Mi toccò quella del giorno dei morti, che nella mia città, a Sulmona, si conclude con la deposizione di tre corone commemorative nel cimitero comunale. La prima ai caduti Italiani nella seconda guerra mondiale, la seconda all’ossario pubblico. E la terza? La terza, in un angolo nascosto del campo santo, sotto un piccolo obelisco. Non ne conoscevo l’esistenza.

    Dove andiamo? chiesi al comandante dei Vigili Urbani, maestro di cerimonie.

    Alla stele degli austroungarici, rispose.

    Io rimasi basito. Che ci facevano sepolti a Sulmona, dei soldati austroungarici, se la guerra si era combattuta all’estremo nord? La risposta stava, anche in quel caso, in un deficit di comunicazione, che aveva tenuto misconosciuto una storia drammatica e affascinante per tanti anni. Che nessuno mi aveva mai raccontato, che io non sapevo.

    Quella dei prigionieri dell’Impero portati in un campo di prigionia allestito proprio nella mia Città. Che tutti sapevamo essere stato il PG 78, durante la seconda guerra mondiale. Ma che molti, io in testa, ignoravamo fosse stato costruito nel 1916 per accogliere i sudditi di Francesco Giuseppe catturati in Trentino, sull’Asiago, all’Ortigara, sulla Carnia, nell’alto Isonzo, sul Carso. Uomini che a centinaia poi persero la vita ammalandosi di quella che la comunicazione volle chiamata influenza spagnola, ma che non era né influenza, né spagnola.

    Che mistero, la Grande Guerra. Mal comunicata, mal raccontata, un po’ sepolta nelle vergogne della storia nazionale in cui tutto si nasconde per non sbagliare.

    Di quella storia mi affascinò da subito la figura di Armando Diaz. Questo vincitore di cui non manca in nessuna parte d’Italia una strada che lo commemori come toponimo, ma che nessuna parte d’Italia ha onorato con una strada principale. Via Diaz è sempre un po’ nascosta, laterale. Cadorna no, Cadorna ha la stazione di Milano, una delle principali. Diaz, teniamolo da parte. Ricordiamolo eh. Ma da un lato, un po’ nascosto. Forse perché per tanti errori della nostra storia, abbiamo sempre avuto paura che celebrare un vincitore militare fosse sinonimo di una recrudescenza nazionalistica.

    Forse Cadorna, il crudele, l’esempio negativo, lo sconfitto, l’esautorato, dovrebbe, nei pensieri inconfessabili e mai detti di una larga parte delle élite nazionali, rappresentarci meglio come popolo, ed essere più pedagogico.

    Se la guerra è associata a un nome negativo, è forse più facile esorcizzarla? Se invece la tragedia dei conflitti armati si rappresenta con i vincitori, allora è possibile ricadere nella tentazione della prevaricazione, del militarismo, dell’imperialismo, del nazionalismo?

    Miopia. Perché Diaz fu tutt’altro che un semplice vincitore. E non aveva certo né il piglio, né il profilo del condottiero, del superuomo quasi nietzschiano il cui fantasma tipologico ci evoca militarismo, prevaricazione, cultura del più forte.

    Diaz vinse una guerra con pazienza, pacatezza, razionalità e capacità di comunicazione. Senza quasi mai attaccare. Sostanzialmente curando la propria linea in attesa di uno o più errori del nemico. Un vincitore dolce. Nudge, si direbbe oggi.

    Non voglio dire che quella di Diaz sia una tipologia di leadership da iconografare, con la stessa cautela che a lui era propria ho però sempre covato la curiosità di approfondire le modalità che mise in campo, nelle condizioni e nel contesto dato, per compiere quella che ai più sembrava una missione impossibile.

    Da questa curiosità la mia esperienza di lavoro mi ha generato qualcosa di più sistematico che si è scatenato a partire da un evento ben preciso.

    Nel 2017 la mia principale collaboratrice, che guidava una delle due aree in cui l’azienda che dirigo è organizzata, ha deciso di dare le dimissioni. Una manager preparata, precisa ed efficiente che riusciva a completare le mie mancanze. Il venir meno di quella efficienza, che per me era una certezza, rischiava di mettermi in crisi.

    Come sostituirla? L’ipotesi di chiamare una persona dall’esterno l’abbiamo valutata. Ma non sarebbe stata una buona scelta. Non sarebbe stata come lei e non avrebbe risolto i problemi che pure c’erano. Nessuna copia è uguale all’originale. Quindi occorreva un cambiamento.

    Bisognava fare di necessità virtù. Se qualche problema la fase che si era appena conclusa aveva

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1