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La doppia vita di Amy Bensen. Fuga dalla realtà
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E-book250 pagine3 ore

La doppia vita di Amy Bensen. Fuga dalla realtà

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Info su questo ebook

Dall’autrice bestseller di New York Times e USA Today

Infinite possibilità…
Infinita passione…
Infinito pericolo…

Sento il suo tocco su di me, caldo e dolce, malizioso e bollente. Non devo fidarmi di lui. Non devo raccontargli i miei segreti. Ma come faccio se lui è l’aria che respiro? È ciò di cui ho bisogno.

Alla giovane età di diciotto anni, una tragedia e un oscuro segreto costringono Lara a scappare da tutto ciò che conosce e ama e a iniziare una nuova vita. Anni dopo, con la nuova identità di Amy, finalmente inizia a pensare di essere stata dimenticata, anche se lei non potrà mai dimenticare. Ma non appena abbassa la guardia, i fantasmi del passato tornano ad assediarla, costringendola a fuggire di nuovo. Su un aereo, disperata per aver di nuovo perso tutto, Amy incontra Liam Stone, un miliardario cupo, affascinante ed estremamente riservato, che è anche un brillante architetto di fama mondiale. Un uomo che sa quello che vuole e sa come prenderselo. Ed è Amy che vuole. Non accetta un rifiuto e la trascina in una relazione appassionata, spingendola ai limiti. Vuole possederla. Vuole che lei desideri essere posseduta. Liam vuole tutto da lei, non accetta nulla di meno. Ma se lei fosse così devastata dalla tragedia da non essere in grado di capire se lui le sta chiedendo troppo? E se Liam nascondesse qualcosa?
Lisa Renee Jones
è autrice dell’acclamata Inside Out Series, che sarà presto una serie TV. Con le serie Tall, Dark and Deadly e La doppia vita di Amy Bensen è stata diversi mesi in classifica su New York Times e USA Today. Da quando ha iniziato a scrivere nel 2007, ha pubblicato più di 40 libri tradotti in tutto il mondo..
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854196896
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    Anteprima del libro

    La doppia vita di Amy Bensen. Fuga dalla realtà - Lisa Renee Jones

    Capitolo 1

    Amy

    C’è soltanto il mio nome sulla busta bianca fissata col nastro adesivo allo specchio. Non c’era quando sono entrata nel bagno delle donne del Metropolitan Museum of Art di Manhattan.

    Il divertimento e il piacere della festa di beneficenza di stasera svaniscono, mentre la paura e il terrore s’impossessano di me. Vengo travolta dall’adrenalina che mi scorre nelle vene. No. No. No. Non sta succedendo… eppure è così.

    All’improvviso la stanza comincia a svanire, e tutto intorno a me diventa sfocato. Sono anni che non ho un flashback, e cerco di combatterlo, ma ci sono già dentro. L’odore di fumo mi brucia le narici. Il suono delle urla agghiaccianti mi lacera i nervi. E tutto il dolore, la profonda tristezza, la perdita di tutto ciò che avevo e mai più riavrò, minaccia di sconvolgermi fino all’inverosimile.

    Cercando con tutta me stessa di non crollare, deglutisco a fatica e scaccio lontano i ricordi strazianti. Non posso permettere che accada. Non qui, in un luogo pubblico. Non quando sono sicura che il pericolo è imminente.

    Con gambe tremanti, impacciata sui tacchi dieci che fino a un minuto fa mi facevano sentire sensuale, mi avvicino al lavandino e appoggio le mani sul piano. Non riesco ad allungare il braccio per prendere la busta, e il mio sguardo cade sulla mia immagine riflessa nello specchio, sui lunghi capelli biondo platino che stasera ho tenuto sciolti in onore dell’eredità della mia mamma svedese che sono stanca di negare. Non indosso neanche gli occhiali con la montatura nera che uso spesso per nascondere gli occhi azzurri dei miei genitori. Tanto che adesso è persino troppo semplice vedere il guscio vuoto che sono diventata. Se sono così a ventiquattro anni, come sarò a trentaquattro?

    Sento delle voci fuori della porta, così strappo la busta dallo specchio e mi rinchiudo in una cabina. Entrano due donne, e ignoro i loro pettegolezzi su un uomo che hanno adocchiato dall’inizio della festa. Appoggiando la schiena al muro, apro la busta sigillata e tiro fuori un biglietto bianco, mentre una piccola chiave cade a terra. Maledicendo le mie mani tremanti, mi chino e la raccolgo. Per un attimo, sembra che non riesca neanche a reggermi in piedi. Mi costringo ad alzarmi e sbatto le palpebre più volte per scacciare la sensazione di bruciore agli occhi e riuscire a leggere le poche e brevi frasi scritte sul biglietto.

    Ti ho trovata, e possono farlo anche loro. Vai dritto all’aeroporto jfk. Non passare da casa. Non perdere tempo. Nell’armadietto 111 troverai tutto ciò che ti servirà.

    Il cuore minaccia di schizzarmi fuori dal petto quando vedo la firma: un triangolo con una scritta all’interno. Lo stesso simbolo tatuato sul braccio dello sconosciuto che mi salvò la vita, aiutandomi a iniziarne una nuova, e che si assicurò di farmi capire che se vedo quel simbolo significa che sono in pericolo e devo fuggire.

    Serro gli occhi, combattendo contro le ondate di emozioni che mi travolgono. Ancora una volta, la mia vita sta per essere stravolta. Ancora una volta, perderò tutto… e anche se è molto meno di prima, è tutto ciò che ho. Accartoccio il biglietto, desiderando di far sparire tutto questo. Dopo sei anni di fuga, mi ero azzardata a credermi al sicuro… ma è stato un errore. Sotto sotto l’ho sempre saputo, da quando ho lasciato il mio vecchio lavoro due mesi fa come assistente ricercatrice alla biblioteca centrale per lavorare al museo. Essere qui vuol dire tenersi a galla.

    Sento le due donne uscire dal bagno, sul quale ripiomba il silenzio. La rabbia prorompe dentro di me all’idea che la mia vita mi sta per essere rubata un’altra volta. Dopo aver fatto un respiro profondo, strappo il biglietto in minuscoli pezzetti, che lascio cadere nella tazza. Poi tiro lo sciacquone e getto la busta nel cestino della carta. Vorrei buttare via anche la chiave, ma una parte di me me lo impedisce.

    Infilo la chiave nella borsa. Rimarrò alla festa fino alla fine. E forse finirò anche la mia vita qui a New York. Il biglietto non diceva che mi avevano trovata, mi avvertiva soltanto che avrebbero potuto trovarmi. Non voglio fuggire di nuovo. Ho bisogno di tempo per pensare, per elaborare la cosa, e non lo farò prima della fine della festa.

    Dopo aver preso questa decisione esco dalla cabina, evitando di guardarmi allo specchio. Non voglio vedere il mio riflesso, perché adesso non ho idea di chi sono, né di chi sarò domani. Usando il distacco dalla realtà come mezzo di sopravvivenza – come ho già fatto in passato ogni volta in cui cercavo di capire il significato del simbolo sul biglietto – seguo il lieve ronzio della musica per orchestra, rientrando nel salone con un soffitto alto e ovale, decorato con affreschi stupendi. Ripeto a me stessa di perdermi nella ressa di ricconi in giacca e cravatta e di camerieri che servono champagne e tartine, ma non lo faccio. Me ne sto semplicemente qui in piedi, addolorandomi per la nuova vita che ho appena iniziato, e che so che adesso è sparita. Il mio distacco è sparito.

    «Amy, ma dov’eri?».

    Chloe Monroe, l’unica persona che negli ultimi anni mi sono permessa di considerare un’amica, mi compare davanti con espressione accigliata. Dai riccioli castani che le ondeggiano intorno alle spalle al carattere spigliato, fino a quel suo atteggiamento divertente e sensuale, è il mio opposto, una cosa che adoro di lei. Adesso la perderò. Adesso perderò me stessa, di nuovo.

    «Be’?», sollecita quando non rispondo immediatamente, mettendosi le mani sui fianchi. «Dov’eri?»

    «Ero un attimo al bagno. C’era la fila». Non sopporto di riuscire a mentire in modo così naturale. Le bugie ormai mi definiscono alla perfezione.

    Chloe si acciglia ancora di più. «Uhmm. Non c’era nessuno quando ci sono andata io. Avrò avuto fortuna». Scaccia via quel pensiero con un gesto della mano. «Sabrina sta dando di matto per via di alcuni documenti per le donazioni che non riesce a trovare, e dice che ha bisogno di te. Pensavo ti occupassi di ricerca… quando hai cominciato a consegnare i moduli per le donazioni?»

    «La scorsa settimana, quando non riusciva più a fare tutto da sola», rispondo, e mi rianimo al pensiero che il mio nuovo capo ha bisogno di me. Ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, anche se soltanto per stasera. «Dov’è adesso?»

    «Al banco informazioni». Mi prende a braccetto e mi costringe a seguirla. «E io vengo con te. Ho un vecchietto che da semplice ammiratore si sta trasformando in persecutore. Devo filarmela prima che mi dia di nuovo la caccia».

    Le sue parole toccano un tasto dolente. Sono io quella a cui danno la caccia. Pensavo di essere al sicuro… e invece non lo sono, né lo sono le persone vicino a me. L’ho vissuto in prima persona. Ho provato il dolore della perdita, e anche se essere da soli fa schifo, perdere qualcuno a cui tieni è un miliardo di volte peggio.

    Mi fermo di colpo e attiro Chloe vicino a me. «Di’ a Sabrina che prendo i moduli e arrivo subito».

    «Oh. Va bene, certo». Chloe mi lascia andare il braccio, e per un breve attimo sento l’impulso di abbracciarla. Ma farlo la renderebbe importante, e qualcuno potrebbe osservarmi. Mi volto e corro verso l’uscita del salone, sentendo una forte nausea al pensiero che non la rivedrò mai più.

    Dopo poco esco da un’uscita secondaria in un’afosa serata d’agosto e mi dirigo verso una fila di taxi, sforzandomi di non correre e di non guardarmi intorno. Ho imparato un sacco di trucchi per non dare nell’occhio. Decidere di lavorare in un posto che ha un collegamento diretto col mondo che mi ero lasciata alle spalle non è uno di questi, e adesso ne pago le conseguenze.

    «All’aeroporto jfk», dico al tassista sistemandomi nel sedile posteriore e massaggiandomi il collo nel sentire un familiare formicolio. Una sensazione frequente durante il mio primo anno trascorso da sola, quando ero sicura che il pericolo fosse in agguato dietro ogni angolo. Una preda. Mi danno la caccia. Negarlo non cambierà le cose.

    Arrivo all’aeroporto trenta minuti più tardi, e me ne occorrono altri quindici per trovare l’armadietto 111. All’interno trovo un trolley e una borsa di pelle marrone, da cui fuoriesce una busta gialla. Non volendo farmi vedere mentre esamino quello che mi è stato lasciato, prendo i bagagli e vado nel bagno delle donne.

    Di nuovo in una cabina, esamino il contenuto della busta gialla. All’interno trovo un raccoglitore, una carta di credito, un cellulare, un passaporto, un biglietto e un’altra busta sigillata. Prima di tutto leggo il biglietto.

    Ci sono dei soldi nel conto corrente collegato alla carta di credito. Il pin è 1850. Ne aggiungerò altri finché non sarai sistemata. Troverai un codice fiscale, una patente, e anche un passaporto. Hai una storia da memorizzare, un cv e un passato lavorativo che supererebbe i controlli se venisse indagato. Getta via il tuo cellulare. Quello nuovo è registrato sotto il tuo nuovo nome e indirizzo. Ci sono anche un biglietto aereo e le chiavi di un appartamento. Getta via tutto ciò che può identificarti e non usare le tue carte di credito. Sii sveglia. Non aver alcun contatto col tuo passato. Sta’ lontana dai musei stavolta.

    Un nome nuovo. È la cosa che mi dà più fastidio. Avrò un altro nome. No. No. No! Il cuore comincia a battermi all’impazzata. Non voglio un altro nome. Ancora una volta, perderò una parte di me. Dopo aver vissuto nella menzogna per anni, perderò l’unica cosa della mia identità falsa che ormai ero arrivata a considerare davvero mia.

    Prendo il passaporto e lo apro, e mi tremano le mani non appena vedo la foto. Come ha fatto lo sconosciuto che ho incontrato solo una volta ad avere una mia foto così recente? Un tempo lo consideravo il mio angelo custode, ma adesso ne sono spaventata. Mi ha sempre tenuta d’occhio per tutto questo tempo? Mi viene un brivido al solo pensiero.

    La mia unica consolazione è che dovrò cambiare solo il cognome: invece di Amy Reynolds, adesso sono Amy Bensen. Sono sempre Amy. È l’unica bella notizia in tutta questa faccenda e me la tengo stretta, per evitare il crollo che sento in arrivo. Devo solo resistere fino a quando sarò sull’aereo. Allora potrò sprofondare nella poltrona e perdermi nel mio distacco, che in questo momento non riesco proprio ad avere.

    Aprendo il raccoglitore, trovo un biglietto aereo. Andrò a Denver, e parto tra un’ora. Gli unici due posti in cui sono stata sono il Texas e New York. Di Denver non so niente, tranne che è una citta grande, fredda, e che sarà il prossimo luogo in cui farò finta di sentirmi a casa. Questo pensiero mi provoca una fitta al petto, ma la paura di quello che potrebbe attendermi se non fuggo mi spinge ad andare avanti.

    Spengo il cellulare in modo che non sia rintracciabile e lo metto nella busta gialla insieme a tutto il resto, a parte il mio nuovo passaporto e il biglietto aereo. Ho i miei soldi in banca, e non mi libererò dei miei documenti di riconoscimento e accesso a quelle risorse. Inoltre, l’idea di usare una carta di credito che permette di essere rintracciata mi disturba. Andrò in banca domani e preleverò più contanti possibile. Quando avevo diciott’anni, ingenua e sola, mi ero fidata ciecamente dello sconosciuto che mi aveva salvata. Potrei dovermi fidare di lui anche adesso, ma non lo farò ciecamente.

    Non senza difficoltà, faccio il check-in automatico e mi dirigo subito ai controlli di sicurezza. Alcuni minuti più tardi compro alcune cose che potrebbero servirmi. Sta andando tutto bene finché non arrivo all’imbarco e sento il mio nome dagli altoparlanti dell’aeroporto.

    «Mi dispiace, signorina Bensen», mi dice l’addetta. «C’è stato un disguido di tipo amministrativo, e il suo posto…».

    «No, io devo prendere questo volo», sibilo col cuore in gola. «Devo assolutamente prendere questo volo».

    «Posso farle avere un voucher e farla salire sul primo volo domattina».

    «No. Stasera. Dia a qualcun altro un voucher più sostanzioso e a me il posto».

    «Guardi…».

    «Parli con un suo superiore», insisto. Di solito evito di attirare l’attenzione, e infatti difficilmente sono così insistente, ma non ho alcuna voglia di morire giovane. Sono viva, e intendo continuare così.

    L’addetta esita, ma alla fine si avvicina a un uomo in uniforme. Parlottano tra di loro per qualche secondo, poi la donna torna da me. «La mettiamo in lista d’attesa e proveremo a farla salire su questo aereo».

    «Quante probabilità ci sono di poter salire?»

    «Ci proveremo».

    «Quanto ci proverete?»

    «Molto», dice dopo un attimo di esitazione.

    Faccio un sospiro di sollievo. «La ringrazio. E… mi scusi. Si tratta di un’emergenza. Devo arrivare a destinazione a tutti i costi». C’è un filo di disperazione nella mia voce che non riesco a nascondere.

    La sua espressione si addolcisce. «La capisco benissimo, e mi dispiace per l’inconveniente. Faremo il possibile. E perché non vada nel panico, sappia che dobbiamo imbarcare tutti i passeggeri prima di poter effettuare cambiamenti. Perciò è probabile che lei sarà l’ultima a salire a bordo».

    «Grazie», rispondo, un po’ imbarazzata. «Andrò ad aspettare». Agitata, vado verso la vetrata che si affaccia sulla pista dell’aeroporto, e sistemo i bagagli per terra. Appoggio la schiena contro il corrimano attaccato al vetro, in modo da poter vedere tutte le persone intorno a me ed essere pronta a qualsiasi evenienza. Ed ecco quando la sala d’attesa svanisce, quando il mio sguardo incrocia il suo.

    È seduto rivolto verso di me, nella seconda fila: i lineamenti sono stupendamente disegnati, e i capelli scuri arruffati una tentazione per le mie mani. Indossa un paio di jeans chiari e una maglietta blu scuro, ma potrebbe benissimo essere in giacca e cravatta. È più grande di me, probabilmente sulla trentina, ma c’è una mondanità, un senso di controllo e di sicurezza, che si irradia dalla sua persona che va oltre l’età anagrafica. Lui è denaro, potere e sesso, e se è vero che non riesco a definire il colore dei suoi occhi, è anche vero che non ne ho bisogno. L’importante è che lui è concentrato su di me al cento per cento, e io su di lui. Un attimo fa ero sola in mezzo alla folla, e all’improvviso sono con lui. Come se lo spazio che ci separa non esistesse. Mi dico di distogliere lo sguardo, che qualunque persona è una potenziale minaccia, ma il fatto è che… mi è semplicemente impossibile.

    Socchiude appena gli occhi, incurva le labbra in modo quasi impercettibile, e sono sicura di vedere la soddisfazione attraversargli il volto. Sa che non posso distogliere lo sguardo. Sono diventata la sua ultima preda – senz’altro l’ultima di una lunga lista –, e pensare che l’ho fatto senza neanche emettere un gemito di piacere.

    «Si invitano i passeggeri di prima classe a effettuare l’imbarco», dice un addetto tramite l’interfono.

    Sbatto le palpebre più volte mentre si alza in piedi e s’infila la sacca da viaggio a tracolla. I suoi occhi sono incollati ai miei, e contengono qualcosa che non riesco a interpretare fino in fondo. Sfida? Ma di che genere? Si volta e, in un battito di ciglia, sono di nuovo sola nella folla.

    Capitolo 2

    Tutti i passeggeri sono già sull’aereo, tranne me. Sono davanti al gate, da sola, a parte alcuni membri del personale della compagnia aerea, e mi sento vulnerabile ed esposta senza una folla intorno. Sto già pensando ad alcune opzioni su come passare la notte se non riesco a prendere questo volo, quando all’improvviso qualcuno mi chiama.

    «È il suo giorno fortunato, signorina Bensen», dice l’addetta mentre mi avvicino al banco informazioni. «È stata spostata in prima classe».

    Sbatto le palpebre dalla sorpresa, e non solo per essere stata chiamata signorina Bensen. «È sicura? Prima classe?»

    «Esattamente».

    «Quanto devo pagare in più?», chiedo, non sapendo quanti soldi ho sulla carta di credito nuova, e non potendo usare i miei risparmi per paura di essere rintracciata. Non sono neanche sicura che i lavoretti estivi mi permettano di coprire questa spesa.

    «Per lei niente», mi assicura con un sorriso. «Le stampo la nuova carta d’imbarco».

    «Grazie», rispondo velocemente.

    Mentre mi affretto a raggiungere l’aereo, e nonostante il mio sollievo per aver ottenuto un posto, il pensiero di dover lasciare New York mi colpisce come un pugno allo stomaco. Tutto ciò che ero arrivata a considerare il mio mondo è qui, e non mi sento così impotente da… be’, da molto tempo.

    Non posso ripensare a quello che successe. E non ci penso: punto. È così che iniziano gli incubi, e insieme a loro arriva la paura. E questo, decisamente, non è il momento di essere spaventati. Non ho idea di quello che dovrò affrontare nei prossimi giorni.

    «Benvenuta a bordo», mi dice con un sorriso l’assistente di volo quando raggiungo l’aereo, e in qualche modo lo ricambio e mi dirigo alla fila 7, dove ci sono solo due posti.

    Quello dal lato del corridoio è vuoto – anche se avevano detto che il volo era pieno –, così come quello accanto al finestrino. La speranza di poter essere da sola viene infranta quando vedo una borsa sotto il sedile. Sospiro tristemente. Vorrei sprofondare nella poltrona e chiudere gli occhi prima che chiunque sia accanto a me ritorni, ma non è un’opzione in questo momento. Devo sistemare i bagagli e studiare la mia nuova storia.

    Rassegnata, lascio cadere il bagaglio a mano sul mio sedile. Quando provo a sistemarlo, scopro che la cappelliera sopra di me è piena. A quanto pare niente di facile stasera. Alzandomi in punta di piedi, cerco di sistemare alcune valigie per far posto alla mia, e per me in questo momento è difficile quanto respirare.

    «Venga, la aiuto io».

    La calda e roca voce maschile mi fa voltare, e rimango intrappolata in uno sguardo familiare. Smetto di respirare. Non può essere. Ma è così. Mi sono messa in ridicolo fissando a bocca aperta quest’uomo stupendo, e adesso la pagherò cara in termini d’imbarazzo. Lo sconosciuto della sala d’attesa sovrasta il mio metro e sessanta di una trentina di centimetri, ed è così vicino che non devo indovinare il

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