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Le Demenze: Manuale di Diagnosi e Trattamento
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E-book415 pagine4 ore

Le Demenze: Manuale di Diagnosi e Trattamento

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Info su questo ebook

Questo volume costituisce una trattazione sistematica dei vari aspetti di questa patologia: siamo consapevoli del fatto che nell’epoca della comunicazione elettronica e dell’inarrestabile evoluzione del sapere scientifico i contenuti necessiterebbero di essere riveduti e aggiornati forse ogni mese. Riteniamo tuttavia che il volume, discutendo appunto in modo sistematico i vari aspetti delle demenze, possa trovare una sua collocazione ed utilità come contenitore per organizzare le varie conoscenze sul capitolo, conoscenze cui oggi spesso capita di accedere in modo disordinato e spesso contradditorio.
Il libro si rivolge ad un pubblico vasto, non necessariamente di soli specialisti neurologi e geriatri, ma anche a medici di Medicina Generale, a medici in formazione o ancora a studenti che affrontano l’argomento delle demenze per la prima volta.
Gli esempi e le figure a colori inserite consentono, grazie all’articolata spiegazione, una piena comprensione degli argomenti trattati.
Gli Autori: Alfredo Costa e Elena Sinforiani.

LinguaItaliano
EditoreMnamon
Data di uscita26 gen 2024
ISBN9791280296047
Le Demenze: Manuale di Diagnosi e Trattamento
Autore

Alfredo Costa

Alfredo Costa è Professore Associato di Neurologia presso l’Università di Pavia, dove presiede il Corso di Laurea in Tecniche di Neurofisiopatologia. E’ inoltre Responsabile dell’Unità di Neurologia del Comportamento dell’Istituto Neurologico Nazionale Mondino di Pavia.Si occupa da anni di metodiche neuroendocrine, neurochimiche e neurofisiologiche nello studio delle demenze. Su questo capitolo, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e membro del board editoriale di diverse riviste, e ha partecipato a vare manifestazioni a corsi di aggiornamento nazionali ed internazionali, in alcuni casi collaborando all’organizzazione.

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    Anteprima del libro

    Le Demenze - Alfredo Costa

    Alfredo Costa - Elena Sinforiani

    LE DEMENZE

    Manuale di diagnosi e trattamento

    logo nems

    PRESENTAZIONE

    Le demenze rappresentano un argomento di crescente interesse ed in continua evoluzione; negli ultimi 10-15 anni si è registrato infatti un incremento significativo delle nostre conoscenze, e la letteratura sul capitolo è ormai amplissima ed in costante aggiornamento.

    Questo volume vuole essere una trattazione sistematica dei vari aspetti di questa patologia: siamo consapevoli del fatto che nell’epoca della comunicazione elettronica e dell’ inarrestabile evoluzione del sapere scientifico i contenuti necessiterebbero di essere riveduti e aggiornati forse ogni mese. Riteniamo tuttavia che il volume, discutendo appunto in modo sistematico i vari aspetti delle demenze, possa trovare una sua collocazione ed utilità come contenitore per organizzare le varie conoscenze sul capitolo, conoscenze cui oggi spesso capita di accedere in modo disordinato e spesso contradditorio. Il libro si rivolge ad un pubblico vasto, non necessariamente di soli specialisti neurologi e geriatri, ma anche a medici di Medicina Generale, a medici in formazione o ancora a studenti che affrontano l’argomento delle demenze per la prima volta. Pertanto, è stato concepito come uno strumento di facile consultazione, seguendo una impostazione classica di tipo didattico. Senza la pretesa di rispondere a tutti i possibili quesiti, il libro vuole essere occasione per riflessioni ed approfondimenti, in rapporto alle diverse esigenze e curiosità.

    Con l’auspicio che esso possa rispondere agli obiettivi che ci siamo prefissati, rivolgiamo un ringraziamento caloroso a tutti coloro che con entusiasmo ed impegno hanno contribuito in varia misura alla sua realizzazione.

    Gli autori

    EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO

    Elena Sinforiani

    INTRODUZIONE

    L’aumento dell’aspettativa di vita, dovuto a un miglioramento delle condizioni generali grazie al progresso sanitario e tecnologico, sta comportando in questi ultimi decenni un progressivo invecchiamento della popolazione sia nei paesi industrializzati sia soprattutto in quelli in via di sviluppo. Sulla base dei dati del rapporto Mondiale Alzheimer 2015[1] ci sono attualmente in tutto il mondo 900 milioni di persone di età superiore ai 60 anni; fra il 2015 ed il 2050 si prevede che il numero di persone anziane che vivono nei paesi ad alto reddito crescerà del 56%, nei paesi a reddito medio-alto l’aumento previsto è del 138%, in quelli medio-basso del 185% e a reddito basso del 239%. Se nel 1990 il 58% della popolazione anziana viveva nei paesi in via di sviluppo, nel 2050 oltre i 2/3 degli anziani di tutto il mondo saranno concentratati in questi paesi. Questa rapida crescita numerica si associa all’aumento della prevalenza di malattie croniche quali la demenza.

    La demenza è il più frequente disordine neurologico dell’età senile; nella popolazione ultra 65enne si stima che il 10% sia affetto da demenza e un altro 15% da condizioni di declino cognitivo non ancora inquadrabile come demenza, ma ad elevato rischio di evolvere nel tempo in una condizione dementigena. È responsabile di una quota rilevante di morbilità e mortalità nell’età avanzata e il suo peso in termini di vita attiva persi a causa di morte prematura e disabilità è stimato pari all’8.7% del totale fra gli ultra 60enni affetti da malattie non trasmissibili. Essa rappresenta la 4a causa di morte dopo i 75 anni; il trend nell’aumento della mortalità per demenza osservato negli ultimi 20 anni non è paragonabile a nessuna altra causa di morte (malattie cardio-vascolari, stroke, traumi, neoplasie), cosi che l’impatto, non soltanto in termini sanitari, ma anche socio-assistenziali ed economici, è notevole. La demenza infatti, al pari di altre patologie neurodegenerative che causano disabilità, si caratterizza per un profilo di assorbimento di risorse sotto più aspetti (sanitario, economico, socio-assistenziale) che si modifica continuamente nel corso dell’evoluzione della malattia, passando appunto dall’alta specialità medica delle prime fasi (fase diagnostica della malattia e delle sue complicanze specifiche) verso un sempre crescente bisogno di assistenza non solo più strettamente medica.

    Il compito dell’epidemiologia è quello di fornire stime per quanto possibile precise sulla dimensione del problema demenze; i dati di prevalenza e incidenza, unitamente a indici attendibili di gravità e disabilità e all’identificazione dei fattori di rischio possono contribuire a una pianificazione più mirata degli interventi sanitari e socio-assistenziali oltre a fornire nuove possibili ipotesi patogenetiche utili ai fini diagnostici e terapeutici.

    PREVALENZA

    Studi effettuati negli anni ’90 in diversi paesi industrializzati mostravano dati di prevalenza discretamente omogenei, mediamente intorno al 5%, oscillanti dal 3.4% del Lundby Study al 6.7% dell’Hysayana Study, con una crescita quasi esponenziale fra i 65 e gli 85 anni. In Italia secondo lo studio ILSA (Italian Longitudinal Study on Aging, 1997) veniva riportata una prevalenza del 5.3% nei maschi e del 7.2% nelle femmine ultra 65enni. La malattia di Alzheimer (AD) è risultata in tutti gli studi la forma più frequente di demenza, con una maggiore prevalenza nelle donne. Era inoltre emerso come le diverse forme di demenza presentassero una differente distribuzione geografica; la demenza vascolare infatti risultava essere la prima causa di demenza nei paesi asiatici. Le differenze di frequenza nei diversi paesi potrebbero dare indicazioni utili su possibili fattori di rischio sia genetici sia ambientali, anche se in realtà i diversi risultati ottenuti potrebbero essere in parte spiegati da differenze metodologiche.

    Dagli anni 2000 in poi lo scenario si è progressivamente modificato, ed è stata rivolta una crescente attenzione ai paesi in via di sviluppo [14]. Nel 2010 [2] sono stati calcolati 36.5 milioni di persone di età superiore a 60 anni con demenza in tutto il mondo, di cui la maggior parte in queste regioni; nel 2015, secondo le stime del rapporto Mondiale Alzheimer 2015 [1], gli ultra 60enni con patologia dementigena sono passati a 46.8 milioni. Tale cifra è destinata quasi a raddoppiare ogni 20 anni fino al 2050 e le stime risultano più elevate del 12-13% rispetto a quelle del precedente Report del 2009. Il previsto incremento della prevalenza è proporzionalmente più elevato per i paesi in via di sviluppo con una popolazione ancora giovane rispetto ai paesi occidentalizzati e Stati Uniti, dove esiste già una quota elevata di anziani. Infatti le previsioni variano dal 4.6% nei paesi dell’Europa Centrale all’8.7% in Nord Africa e Medio Oriente, in tutte le altre aree del pianeta si attesta fra il 5.6% e il 7.6%. Se il 58% di tutte le persone con demenza vive attualmente in paesi in via di sviluppo, questa percentuale è destinata ad aumentare raggiungendo il 63% nel 2030 e il 68% nel 2050. Dati dagli studi sulle popolazioni asiatiche suggeriscono un passaggio dalla demenza vascolare, in precedenti studi indicata come la più comune forma di demenza, all’AD; cambiamenti negli stili di vita, maggiore attenzione a fattori di rischio vascolare e non ultimo anche l’impiego di differenti criteri e metodologie diagnostiche potrebbero in parte spiegare tali rilievi [5].

    INCIDENZA

    Gli studi di incidenza risultano più complessi rispetto a quelli di prevalenza, sono generalmente più costosi e richiedono un’osservazione più prolungata nel tempo, campioni di popolazione numerosi, accurate valutazioni diagnostiche.

    L’aumento dell’incidenza della malattia con l’età è riportato in tutti gli studi; si va infatti dall’1% nei soggetti di età superiore ai 65 anni al 3% nei soggetti ultra 80enni. Lo studio ILSA (1997) in Italia mostrava un tasso medio annuale dell’1% per i maschi e dell’1.3% per le femmine, si confermava l’aumento con l’età con un rischio maggiore di sviluppare una demenza vascolare per gli uomini. Nel 2010 [2] si stimavano 7.7 milioni di nuovi casi/anno, con un nuovo caso ogni 4 secondi, nel 2015 su scala mondiale sono stati stimati circa 9.9 milioni di nuovi casi di demenza all’anno, cioè un caso ogni 3.2 secondi. È stato confermato il dato dell’aumento esponenziale con l’incremento dell’età, che raddoppia progressivamente ogni 6.3 anni, passando dai 3.9 casi/anno ogni 1000 abitanti nelle persone con età compresa fra 60 e 64 anni a 104.8 casi/anno ogni 1000 soggetti oltre 90 anni. Per quanto riguarda la distribuzione regionale, sono stati calcolati 4.9 milioni (49%) in Asia, 2.5 milioni (25%) in Europa, 1.7% milioni nelle Americhe e 0.8% milioni (8%) in Africa. Rispetto a precedenti dati del 2012, si evidenzia una maggior proporzione di nuovi casi in Asia, Americhe e Asia. Dati recenti [3,4,6,7,8,9,10] sembrano suggerire una tendenza ancora da verificare verso una riduzione dell’incidenza di nuovi casi nei paesi europei.

    FATTORI DI RISCHIO

    Numerosi fattori di rischio sono stati identificati, confermando quindi il dato che le demenze, e l’AD, riconoscono un’eziologia multifattoriale; nell’ottica di una possibile prevenzione primaria, una riduzione cioè della comparsa di nuovi casi di demenza, e dell’utilizzo di strategie per ritardarne l’esordio clinico si è soliti dividerli in fattori modificabili e non modificabili.

    FATTORI DI RISCHIO NON MODIFICABILI

    Età. L’età è il fattore di rischio più rilevante, come documentato dagli studi di prevalenza e incidenza sopra riportati. Studi epidemiologici recenti sembrano tuttavia suggerire una tendenza, comunque da verificare, verso una riduzione dell’incidenza e della prevalenza della demenza almeno in alcuni paesi occidentalizzati; fra la popolazione ultra 65enne quelli nati dopo avrebbero un rischio più basso [6-10]. Come verrà spiegato più avanti questi dati sono stati interpretati alla luce di un miglioramento degli stili di vita.

    Fattori genetici. La predisposizione dell’AD è in parte geneticamente determinata. Nel 95% circa dei casi la malattia è sporadica, cioè senza ereditarietà fra le diverse generazioni, nel restante 5% è presente una mutazione genetica che viene trasmessa con una modalità di tipo autosomico-dominante per cui il 50% dei figli della persona portatrice della mutazione ha la possibilità di ereditarla. Nelle forme familiari a esordio precoce sono coinvolte mutazioni in almeno 3 geni diversi situati sui cromosomi [1,14,21]. Questi geni sono responsabili della produzione di 3 proteine: presenilina 1 (cromosoma 14), presenilina 2 (cromosoma 1) e proteina precursore dell’amiloide (cromosoma 21). La mutazione del gene della presenilina 1 è la più frequente e da sola sembra responsabile del 50% delle forme familiari a esordio precoce. Per quanto riguarda le forme a esordio tardivo sia familiari sia sporadiche, risulta ben documentata l’associazione con l’Apoliproteina (APOE); l’APOE è una proteina plasmatica, coinvolta nel trasporto del colesterolo che si lega alla proteina amiloide, e della quale esistono tre forme: APOE2, APOE3, APOE4, codificate da tre diversi alleli (ε2, ε3, ε4). La presenza del genotipo ε4 (cromosoma 19) determinerebbe un aumento di circa tre volte il rischio di sviluppare AD, mentre il genotipo APOE2 avrebbe un effetto protettivo nei confronti della malattia. La genotipizzazione dell’APOE, tuttavia, fornisce un dato solamente indicativo e non basta da solo a elaborare la diagnosi: infatti, quasi la metà delle persone affette non possiede questo allele, che d’altra parte può essere presente anche in una piccola percentuale di persone sane. In generale si può dire che il grado di associazione fra ApoE ε4 e Malattia di Alzheimer è particolarmente elevato quando il soggetto affetto presenta casi di demenza nella storia familiare. La forma allelica ε4 e genotipica ε4/ε4 non sono però condizione necessaria e sufficiente affinché insorga la Malattia di Alzheimer; il gene APOE può essere quindi considerato non un fattore causale ma un fattore di suscettibilità per la malattia in grado di modificare la penetranza di altri geni nelle forme sia familiari sia sporadiche. Studi di genoma-wide association hanno poi identificato almeno 20 loci associati con il rischio di AD; i geni identificati sono implicati nelle risposte infiammatorie e immunitarie, nel metabolismo del colesterolo e dei lipidi e nel trasporto endosomiale. Alcuni sono etàrelati, altri potrebbero avere un ruolo protettivo nei confronti della malattia; le interazioni con i meccanismi patologici della malattia non sono stati tuttavia ancora completamente chiariti [4].

    FATTORI DI RISCHIO MODIFICABILI

    Livello di istruzione. La relazione fra livello di istruzione e demenza è stata estesamente esaminata negli ultimi anni con risultati talora non concordanti; la maggior parte degli studi longitudinali, più attendibili degli studi retrospettivi, sono tuttavia concordi sul ruolo protettivo di un elevato grado di scolarità, nel senso soprattutto di una posticipazione dell’esordio dei sintomi [11]. I possibili meccanismi di azione si basano sui concetti di riserva cerebrale (brain reserve), cioè la capacità del cervello di compensare insulti di varia natura per poter funzionare in modo adeguato, e di riserva cognitiva (cognitive reserve), ossia la capacità di ottimizzare o massimizzare le prestazioni attraverso il reclutamento differenziale di reti cerebrali e/o strategie cognitive alternative; nel primo caso si fa riferimento a un modello anatomico, vi sono cioè a disposizione più neuroni e più sinapsi efficienti, mentre nel secondo si tratta di un modello di efficienza funzionale [12]. I pazienti grazie a questi meccanismi sarebbero in grado di mascherare più a lungo i sintomi della malattia, giungendo quindi più tardi alla diagnosi [13]. Come altro possibile meccanismo, da parte di alcuni autori viene inoltre suggerito che individui con un più elevato livello di istruzione e quindi con un più elevato livello socio-economico conducono stili di vita più sani, riducendo la possibilità di insulti cerebrali di varia natura. Il grado di istruzione non è comunque l’unico fattore che contribuisce alla formazione della riserva cognitiva, anche il tipo di professione, lo stile di vita e le attività svolte durante il tempo libero giocano un ruolo importante come verrà spiegato più avanti. La relazione esistente fra grado di istruzione e demenza è in ogni caso complessa e non lineare e va valutata alla luce del processo di sviluppo cognitivo nel corso dell’intera vita del singolo individuo [14].

    Fumo. Dopo iniziali osservazioni di un’associazione negativa fra fumo di sigaretta e AD, interpretata come legata a un possibile effetto protettivo della nicotina che potrebbe produrre una up-regulation dei recettori nicotinici dell’acetilcolina favorendo così i processi di memoria e apprendimento, vi è ora un accordo generale sul dato che il fumo si correla a un aumentato rischio di sviluppare l’AD. I possibili meccanismi con cui il fumo agisce comprendono lo stress ossidativo, l’infiammazione e i processi aterosclerotici [15].

    Esposizione ambientale. I risultati degli studi sulle correlazioni fra fattori ambientali e rischio di demenza sono tuttora controversi. Un aumentato rischio dopo esposizione a collanti, pesticidi e solventi e anche a metalli pesanti (ad esempio elevato contenuto di alluminio nell’acqua potabile) è stato riportato da studi non recenti (anni ’90), ma non completamente confermato da successive meta-analisi, anche se gli studi in vitro hanno evidenziato sicuri effetti tossici. Più recentemente l’inquinamento atmosferico è stato segnalato come un importante fattore di rischio non solo per le malattie cardio-vascolari, per le quali esistono ormai evidenze certe, ma anche per l’AD [16]. Depositi di proteina tau e beta-amiloide simili a quelli osservati nei cervelli AD sono stati infatti riscontrati nella mucosa olfattoria, nel bulbo olfattorio e nella corteccia frontale di animali da esperimento esposti ad alti livelli di inquinamento ambientale, così come deposizione di proteina tau fosforilata e placche amiloidee sono presenti in cervelli di persone esposte a inquinamento. I possibili meccanismi patogenetici sarebbero rappresentati da un’accelerazione dei processi ossidativi età-relati, favorendo quindi la neuro-infiammazione e la neuro-degenerazione. Il legame non è tuttavia così chiaro e indubbiamente nel modulare gli effetti giocano un ruolo importante fattori individuali, quali l’età, la durata dell’esposizione, il tipo di attività svolta, lo stato di salute e addirittura le dimensioni delle narici.

    Estrogeni e farmaci antinfiammatori. Studi epidemiologici retrospettivi o trasversali degli anni ’80 avevano evidenziato una riduzione del rischio di AD nelle donne che avevano fatto uso di estrogeni nel periodo postmenopausale; fra i meccanismi attraverso i quali gli estrogeni possono esercitare un effetto positivo sulle funzioni cognitive erano stati ipotizzati un aumento dell’attività colinergica, una stimolazione della rigenerazione neuronale soprattutto a livello dell’ippocampo e una regolazione della funzione sinaptica. I risultati del Women Health Iniziative Memory Study pubblicati nel 2003 e una successiva revisione dopo 10 anni hanno invece confutato tali dati: la terapia estro-progestinica sostitutiva non solo non è efficace nel prevenire i disturbi cognitivi ma ne aumenterebbe anzi il rischio [17,18]. Sono stati anche condotti studi farmacologici randomizzati con estrogeni in donne con AD che non hanno dati risultati significativi [19]. Il momento di somministrazione degli estrogeni potrebbe avere un ruolo importante; è stata infatti ipotizzata una possibile finestra terapeutica, ossia un lasso temporale molto vicino alla menopausa in cui la somministrazione degli estrogeni potrebbe ridurre il rischio di AD [18,19].

    Un possibile ruolo protettivo è stato ipotizzato anche per i farmaci anti-infiammatori non steroidei sulla base di studi epidemiologici retrospettivi nei quali soggetti che avevano utilizzato per un lungo periodo queste molecole per condizioni comportanti dolore cronico come cefalea o patologie reumatiche presentavano un rischio ridotto di AD. L’importante ruolo rivestito dalla neuro-infiammazione nella patogenesi dell’AD ha fornito un solido razionale a tale ipotesi. Tuttavia studi clinici randomizzati (studio ADAPT pubblicato nel 2008 e successivo follow-up e altri studi successivi) non hanno confermato questi dati [20], pur sottolineando come il quadro sia complesso e influenzato da diverse variabili quali ad esempio l’entità della compromissione cognitiva.

    Fattori di rischio cardio-vascolare e metabolico. Negli ultimi anni sempre maggiore interesse è stato rivolto alla possibile relazione fra fattori di rischio cardio-vascolare e demenza, AD in particolare, considerate sia l’elevata diffusione di tali fattori nella popolazione generale sia la reale possibilità di prevenzione e cura. La presenza di fibrillazione atriale è stata associata a un aumentato rischio sia per AD sia per demenza vascolare [21]; è nota infatti la correlazione fra fibrillazione atriale e patologia cerebro-vascolare e l’occorrenza di infarti cerebrali anche clinicamente silenti rilevati alla RM sono risultati fattori di rischio anche per AD. Per quanto riguarda l’ipertensione arteriosa, numerosi studi mostrano come sia correlata alle lesioni della sostanza bianca, alla atrofia cerebrale, ai grovigli neurofibrillari. Tuttavia, l’associazione tra ipertensione arteriosa e AD è complessa e varia considerando le diverse fasce d’età: l’ipertensione diagnosticata in età più giovane è correlata infatti a un aumentato rischio di AD, mentre sembra meno evidente una correlazione tra AD e ipertensione in tarda età [22,23,24]. L’ipertensione potrebbe inoltre agire anche favorendo i processi di neuroinfiammazione e quindi la deposizione di amiloide.

    Fra i fattori di rischio metabolico, similmente a quanto segnalato per l’ipertensione arteriosa, un controllo della colesterolemia sembra importante nella mezza età e non nell’età più avanzata [25]. Per quanto concerne il diabete di tipo II (DMT2), sono ormai consistenti le evidenze che confermano un aumento del rischio di demenza; addirittura sembra che anche i pazienti con intolleranza glucidica o in uno stadio pre-diabete siano più inclini a sviluppare AD. La patogenesi del declino cognitivo in caso di DMT2 sarebbe correlato non solo al danno microvascolare, ma anche alla neurotossicità indotta dall’incremento dei livelli di glucosio e di insulina. È infatti ampiamente noto che l’insulina non ha soltanto effetti periferici, ma svolge anche un’azione neuromodulatrice e neurotrofica a livello cerebrale. Il legame fra AD e DMT2 sarebbe rappresentato dallo svilupparsi in entrambi i casi di una resistenza all’insulina, con un conseguente aumento dell’espressione della proteina precursore della beta-amiloide e quindi all’accumulo di questa sostanza; un aumento inoltre della neuroinfiammazione e un’alterazione del metabolismo energetico cellulare costituirebbero altri meccanismi in grado di attivare la cascata neurodegenerativa [26,27].

    Attività fisica e stili di vita. Una relazione fra aumento dell’attività fisica e riduzione del rischio di demenza è emersa dai risultati del Rotterdam Study [28]; questa relazione è significativa tuttavia nell’arco di un follow-up non superiore a 4 anni. Questi dati sono stati confermati da un studio prospettico della durata di 5 anni effettuato negli stati Uniti, dove un basso grado di attività fisica era correlato con un più elevato rischio di declino cognitivo [29]. L’esercizio agirebbe incrementando la plasticità neuronale; un aumento alla RM del volume della sostanza grigia cerebrale in particolare nelle regioni fronto-temporo-parietali, nell’ippocampo e nei nuclei della base è stato riportato dopo attività fisica sia in anziani normali sia cognitivamente compromessi [30,31,32].

    Unitamente all’attività fisica vengono riportate sempre più numerose evidenze circa l’importanza di un corretto stile di vita nel ridurre il rischio di demenza. In particolare per quanto riguarda l’alimentazione, è interessante osservare come nei paesi occidentali si sia progressivamente venuta a creare negli ultimi decenni una situazione paradossale per cui si introduce un’eccessiva quantità di calorie, mentre si riduce l’attività fisica, si incrementa quindi il peso corporeo e aumentano le comorbidità metaboliche, ma allo stesso tempo la popolazione vive più a lungo; la combinazione di età più elevata e di patologie metaboliche è correlata a un rischio maggiore di malattie croniche età-relate quali appunto le demenze [33]. Numerosi studi hanno evidenziato come alcune componenti, ad esempio pesce, frutta e verdura che si ritrovano nella dieta mediterranea, possono avere un ruolo protettivo grazie all’elevato contenuto di antiossidanti e acidi grassi insaturi in grado di contrastare i processi infiammatori sottostanti [34], rallentando quindi il declino cognitivo e riducendo il rischio di sviluppare l’AD [35]; sono comunque necessari ulteriori studi longitudinali per meglio chiarire i meccanismi patogenetici sottostanti [36]. La Conferenza Internazionale su Nutrizione e Cervello tenutasi a Washington nel 2013 ha individuato sette indicazioni (riduzione di acidi grassi saturi, uso di verdura e frutta, apporto di vitamine in particolare E e B, limitazione di metalli nella dieta, fra cui ferro se non indispensabile, e infine attività fisica) utili per la prevenzione della demenza [37]. Anche il mantenimento di attività soddisfacenti nel tempo libero si è dimostrato essere un fattore significativo nel prevenire il rischio di demenza quanto meno in uno spazio di tempo non superiore ai 5 anni [38,39]. Più in generale, come è stato osservato anche per i fattori di rischio cardio-vascolari e metabolici, non è verosimilmente un singolo fattore, ma più fattori insieme a determinare effetti significativi sia in positivo sia in negativo con possibili interazioni fra loro; la riduzione del rischio non determina tuttavia modifiche per quanto riguarda l’espressione fisiopatologica della malattia [40]. È in ogni caso interessante ricordare quanto recentemente suggerito da alcuni autori, e cioè che la povertà costituisce in generale un fattore interferente in modo negativo sulle funzioni cognitive, in quanto consuma energie mentali che vengono impiegate per la sopravvivenza distogliendole da altri compiti più elevati, e di questo dato devono tenerne conto le politiche sociali [41].

    CONCLUSIONI

    I dati della letteratura indicano che sicuramente nei prossimi anni si assisterà a un incremento di nuovi casi di demenza, che sarà più marcato nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dove è previsto un drammatico aumento del numero di soggetti anziani; nei paesi industrializzati è stata segnalata una tendenza, ancora comunque da verificare, verso una diminuzione di nuovi casi, verosimilmente dovuta a un controllo più soddisfacente dei fattori di rischio cardio-vascolare e metabolico e in generale a un miglioramento degli stili di vita. È effettivamente ipotizzabile che un miglior controllo di alcuni fattori di rischio modificabili possa portare non tanto a una diminuzione del rischio di sviluppare una demenza quanto piuttosto a una posticipazione dell’età di esordio dei sintomi clinici, il che rappresenta comunque un risultato positivo in quanto comporta sia un evidente risparmio dei costi socio-sanitari sia un miglioramento della qualità della vita, in quanto l’esordio della demenza si presenterebbe più vicino a quella che è la fine naturale della vita [9]. Come già evidenziato, la prevenzione per essere realmente incisiva deve avvenire nella mezza età. I risultati del Rotterdam Study sembrano suggerire che l’eliminazione dei più significativi fattori di rischio modificabili (diabete, obesità, ipertensione, elevati livelli di colesterolo, basso livello di istruzione, fumo, malattia coronarica) potrebbe portare a una diminuzione del 30% dell’incidenza di nuovi casi di demenza e in questo senso esiste un potenziale margine di azione ancora molto elevato [4,25]. I rapporti fra le diverse variabili in gioco sono in ogni caso assai complessi; a determinare gli effetti non è il singolo fattore ma più fattori insieme e soprattutto le interazioni reciproche che possono inoltre variare nei differenti contesti nazionali e solo studi longitudinali mirati potranno portare a risultati più definitivi. L’avanzare dell’età è comunque da considerarsi come il principale fattore di rischio per demenza e più in generale per malattie croniche evolutive comportanti una progressiva disabilità, e di questo dato le future politiche socio-sanitarie dovranno necessariamente tenere conto.

    ornato

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