La tempesta benevola
Di Aga Rafa
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Info su questo ebook
Non arrendersi mai, nel modo che possiamo, è il messaggio che l’autrice vuole donare al lettore, guidato sapientemente da una scrittura schietta e a tratti forte. Chi legge è chiamato a riflettere, scosso da una tempesta che, come recita il titolo, vuole essere benevola, ossia condurre a un pensiero attivo, che diviene agire, e mai alla distruzione.
Aga Rafa lavora e vive in Italia con il marito e i due figli. La tempesta benevola è il suo libro d’esordio.
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Anteprima del libro
La tempesta benevola - Aga Rafa
Aga Rafa
La tempesta benevola
© 2024 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-4806-1
I edizione febbraio 2024
Finito di stampare nel mese di febbraio 2024
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
La tempesta benevola
A mia madre, che mi ha dato la vita.
A me stessa, che ogni giorno ho reso la mia vita degna di essere vissuta.
A tutte le persone che ho incontrato nella vita,
perché in qualche modo, nel bene e nel male, l’hanno resa più ricca.
Prefazione
La prima cosa a cui ti viene da pensare quando stai per scrivere un libro è il perché farlo. La ragione che mi ha spinto a lanciarmi in quest’avventura è un bisogno molto lontano da un atto di presunzione, un desiderio opposto. Sono una donna che non ama essere al centro dell’attenzione, che rimane spesso un passo indietro, osserva, ascolta. Raramente mi sono lasciata andare alla narrazione delle mie esperienze: bisogna avere la certezza che chi ti sta di fronte sia in grado di accoglierle certe verità, anche quando fanno paura, suscitano rabbia, sdegno e persino incredulità. Ad alcuni potrebbero fare troppo male, ad altri potrebbero, invece, fare del bene. Un paradosso, ma soltanto in apparenza, così come non è paradossale che alla fine di un tunnel buio compaia d’improvviso una piccola luce a rischiarare tutto. Ecco, è così che mi immagino possano funzionare queste pagine.
Le persone che mi conoscono a fondo e sanno tutto della mia storia di vita fino adesso sono davvero poche. Sono state proprio loro, gli amici intimi che hanno ascoltato il mio racconto a spingermi a credere che, nelle mie parole, c’era qualcosa che andava oltre. Non era un insieme di fatti che li lasciasse indifferenti, ma una profonda immersione in qualcosa che non poteva essere lasciato lì, senza che potesse essere d’aiuto a qualcuno.
Era come se tutto ciò che raccontavo, il mio vissuto complicato e intriso di difficoltà da cui ero emersa con determinazione, scatenasse una tempesta perfetta, di quelle benevoli
, lasciatemi passare il termine, che ti attraversa, ti travolge, lasciandoti un segno, ma non le cicatrici. A volte, bisogna prima disfare qualcosa per costruirlo meglio e nessuno più di noi stessi è in grado di guidare al meglio sé: noi siamo il capitano, nessun’altro.
Mi piace pensare a me come a una tempesta che semina riflessione e non distruzione, che spinge a lottare per la salvezza e non verso le rinunce, l’abbandono della fiducia in qualcosa di bello. Per fare questo, per donarmi completamente a voi, metterò a nudo la mia anima, senza nascondere nulla, violando la mia intimità per un bene superiore: donare speranza.
Questo è ciò che mi propongo, allora, con estrema umiltà: salvare anche solo un’anima perduta. Perduto è chi si arrende, chi non trova una via che lo conduca fuori da cammini tortuosi che sembrano non arrivare mai a una fine giusta.
Anima perduta è chi non guarda in faccia le proprie paure, perché senza affrontarle non se ne potrà mai spogliare.
Perduto, ancora, è ognuno di noi quando getta la spugna, quando nelle difficoltà non coglie l’opportunità di tirare fuori una forza che neanche è consapevole di possedere.
Voglio essere le parole che sconvolgono e turbano, perché raccontano il dolore e la sofferenza, e insieme voglio essere il balsamo, la voce che testimonia quanto ogni singolo evento, anche il più spaventoso, ci arricchisca, sempre, nel bene e nel male.
Consegno con questo libro al lettore la mia storia, senza omettere nulla, anche se mi costerà fatica, senza lasciar credere che tutto sia sempre facile; anche quando tutto sembra deserto qualcosa di meraviglioso è in serbo per noi, se avremo la forza di credere e sperare, anche quando sembra folle.
Qualcuno ha scritto che «ci sono fiori dappertutto per chi è in grado di vederli». Io, a voi che avrete voglia di compiere questo viaggio insieme a me attraverso queste pagine, assicuro che si sopravvive sempre, a qualsiasi dolore, se non si perde mai di vista il valore più importante: la vita stessa.
Leggerete di momenti duri e di riprese, di nuove cadute e sforzi ancora più tenaci per restare a galla. Capirete che dietro ogni cicatrice rimane una quota di dolore, ma sarà quel segno visibile dentro e fuori a raccontarci che siamo ancora vivi e che niente e nessuno, a parte noi stessi, potrà mai essere in grado di spegnere la nostra anima.
Vi stupirete che una persona soltanto abbia dovuto vivere così innumerevoli peripezie, ma il mio augurio è che, alla fine, comprendiate quanto tutti i mari in tempesta che ho dovuto navigare abbiano reso la mia esistenza di oggi al riparo, salva in un porto sicuro dove la mia nave, ne sono certa, potrà vivere per sempre.
Lasciatevi sconvolgere dai miei eventi, piangete e infine sorridete con me, tenendo a mente il regalo più importante che la mia testimonianza intende donarvi: ricordarsi che si sopravvive, sempre.
Aga
19 ottobre 2023
I –
Punti di non ritorno
Avevo undici anni quando capii che ero diventata adulta. Era bastato solo un istante per rendersi conto che ero sola, che avrei dovuto cavarmela da me nella vita, che avrei potuto contare soltanto sulle mie forze.
Erano i primi giorni di dicembre, che in Polonia, dove io sono nata, significa potere già accogliere tra i palmi infreddoliti i primi fiocchi di neve. Frequentavo le scuole elementari, che nel mio Paese includono i bambini dai sette ai quindici anni, una sorta di primaria e medie insieme. Abitavo in una zona periferica all’epoca, di una città che contava ottantamila abitanti. La ragione era che lì vicino c’erano due fonderie e per questo era diventata una zona parecchio popolata, dove il tratto caratteristico era il continuo crocevia di operai che si alternavano in turni di otto ore che includevano anche le notti. Vivevo con mia madre che si era appena separata dal suo primo marito e che frequentava in quel periodo l’uomo da cui aveva avuto un’altra bambina, la mia sorellastra, nata quando io avevo dieci anni. Il mio padre biologico, invece, io non l’ho mai conosciuto, ma seguire per prima le fila di questi giorni di inizio inverno getterà luce più di ogni altro sulla mia natura di bambina, e su come questo abbia segnato la mia vita di lì in poi, fino a rendermi l’adulta di oggi.
Nel mese di dicembre, prima delle festività, era tradizione nelle scuole dedicare un pomeriggio a quella che veniva chiamata La festa dell’albero di Natale
. Gli istituti venivano lasciati aperti anche dopo le ore di lezione mattutine, pronti ad accogliere i bambini che, vestiti di tutto punto, accorrevano gioiosi per fare merenda insieme, alla presenza degli insegnanti che si premuravano di organizzare per loro canti e balli per vivere uno speciale momento di allegria e convivialità. Non c’era bambina che non fosse entusiasta di prepararsi con gli abiti migliori per la festa ed io di certo non facevo eccezione. Ricordo ancora adesso con quanta attenzione avessi indossato la mia gonna migliore e le calze e la gioia con cui di gran lena mi ero diretta alla fermata dell’autobus per raggiungere la scuola. Reggevo in mano con orgoglio una busta nella quale custodivo gelosamente un piattino di ceramica e una tazza che mi sarebbero serviti per consumare la merenda insieme agli altri, e che mia madre mi aveva preparato per l’occasione. Non era lei il modello di mamma che si occupa nei minimi dettagli della figlia, e per questo non c’era alcuna possibilità di pensare che avrei potuto compiere quel tragitto che mi attendeva stringendole la mano: non era nemmeno lontanamente pensabile ed io credevo forse che fosse giusto così. Le abitudini a volte diventano la norma, e così andare da sola era consueto e normale, per me, anche se ero così giovane.
Non era abitudine, dunque, che mia madre mi accompagnasse, ero abbastanza autonoma per necessità direi, ma fortunatamente mi bastava compiere circa seicento metri per raggiungere il posto dove sarebbe passato il mezzo. Mi toccava dapprima compiere un tratto di strada tra i condomini che si affacciavano tutti sulla stessa via e poi un’ultima parte in cui bisognava attraversare un campo. I condomini erano una sorta di miniappartamenti destinati agli operai che venivano allestiti temporaneamente, alla buona, nell’attesa di un alloggio migliore, case popolari per chi non poteva permettersi di meglio.
Ero pervasa da una gioia incontenibile al pensiero del pomeriggio che mi attendeva, mai avrei pensato che, di lì a poco, avrei dovuto vivere uno dei momenti più terribili di tutta la mia vita.
Mi trovavo già avviata verso la fermata quando, a un incrocio, due ragazzi più grandi di me, sui sedici anni pensai, mi si pararono davanti. Entrambi indossavano un passamontagna, ma la cosa non mi stupì più di tanto, perché a quel tempo indossare queste specie di cappucci che ti coprivano tutto il viso e la testa erano il modo più efficace per proteggersi dal freddo, una moda che era pure una necessità, insomma, visto che le temperature nei giorni più rigidi andavano ben al di là dei 15 gradi sotto zero.
Il loro passo, però, d’improvviso si fece svelto, i loro occhi appena visibili mi fecero presagire quello che subito dopo, presi da una furia cieca, si sarebbe palesato con orrore: il tentativo di uno stupro. Mi aggredirono entrambi, contemporaneamente. Si lanciarono addosso a me, mentre io tentavo disperatamente di urlare. La voce che non usciva, il terrore nero che ti paralizza e ti impedisce di capire, agire. Durò solo un istante, quando una forza maggiore, venuta fuori dall’istinto di sopravvivenza quasi animale, mi condusse a reagire con vigore. La mia busta era già caduta in terra e tutto si era frantumato, la mia preziosa tazza insieme al resto, anche se sotto di me vi era già uno strato di neve. L’impatto con i due giovani aggressori, talmente più grandi di me, era stato così violento che non aveva lasciato scampo né a me né al mio caro corredo. Ricordo le loro mani dappertutto, mentre io mio difendo, nonostante mi abbiano atterrato e senta gli abiti umidi per via del contatto con il manto gelato. Inizio a scalciare, a lanciare pugni alla cieca, sperando di colpire uno dei due. Riesco a fatica ad emettere un suono simile a un urlo, il massimo che riesco a fare mentre comprendo che soltanto un miracolo può salvarmi, ma quel miracolo è la mia stessa capacità di difendermi: non posso contare sull’aiuto di nessuno. Tento di allungare l’occhio al di là di noi tre, che siamo un’accozzaglia di animali a guardarci da fuori, io la preda e loro i cacciatori. Da dietro una finestra intravedo una sagoma e riconosco una donna: è la madre di una mia amica, una delle ragazzine con cui spesso mi ritrovavo a giocare. Per un attimo immagino che tutto stia per finire, che lei irromperà con sdegno per interrompere quell’atrocità, ma la vedo allontanarsi con velocità, in un silenzio colpevole che non le perdonerò mai. Non fece niente, come se la visione di quella violenza non la riguardasse, come se in quel momento l’indifferenza abbia spodestato l’umanità: è complice, non mi salverà. Scomparsa dietro una tenda, inerme. Mi feci forza ancora di più, combattendo contro due furie, le loro mani ovunque e il mio viso ormai sprofondato nella neve. Mi divincolo un braccio, per un breve istante, il tempo di sprofondare il mio dito dentro l’occhio di uno dei due. Soffoco la nausea per il ribrezzo che provo nel contatto con quella specie di palla dalla consistenza molle e, approfittando del suo momentaneo smarrimento per il grande dolore inferto, riesco a respingerlo con una gamba. Uno è con le mani al volto, mentre l’altro tenta di tenermi ferma, di bloccare le mie braccia, ma io resisto: il mio istinto è primordiale, viscerale, lo assecondo in pieno. Mi avvento sul braccio che vuole bloccarmi e scopro la giacca, affondando i miei denti talmente forte nella sua carne che lui non può fare a meno di urlare per il dolore ed io a sentire il ripugnante sapore del suo sangue in bocca. L’altro lo intravedo, è riverso in terra, e per la prima volta inizio a credere che forse non è tutto perduto. Si alza e insieme all’altro fugge via, mentre io fradicia mi risollevo a fatica cercando di trovare le ultime energie per tornare a casa prima di crollare esausta.
Non sono in grado di raccontare oggi dove abbia trovato le energie per tornare indietro. Credo che esistano dei momenti di passaggio, punti di non ritorno. La mia vita di bambina tutto sommato spensierata stava per volgere al termine, ma non per quello che avevo appena subito, ma per ciò che avrei vissuto una volta ritrovatami al cospetto di mia madre. Se quegli attimi di violenza cieca avevano lasciato segni sul mio corpo, sui miei vestiti strappati, sul mio amato corredino da portata ormai ridotto in minuscoli pezzi, ad attendermi c’era la pena più impensabile e dolorosa: lo stupro della mia anima. Sarei passata dall’innocenza e a una visione incantata del mondo al disincanto e la presa di coscienza che, se si è fortunati, la maggior parte delle persone vive in età adulta o magari mai: siamo soli al mondo.
Mi avviai verso la mia abitazione con il forte desiderio di sentirmi al sicuro, di potere contare sul conforto di chi mi voleva bene. Ero consapevole che mia madre non rappresentasse il prototipo ideale di genitore, ma era di lei che avevo bisogno in quel momento, di sentirmi accolta, protetta, compresa. La mia fiducia negli esseri umani si era infranta in pochi minuti, dapprima verso quei ragazzi e, ancora peggio, verso la donna adulta che si era voltata dall’altra parte, indifferente.
Quando spalancai la porta di casa con il fiato corto per la corsa concitata, trovai mia madre seduta al tavolo intenta a cucire. Era una abitudine che amava quella di dilettarsi con quella macchina, aveva imparato da sola perché era una sua grande passione e quasi non si accorse di me quando entrai.
Mi fiondai subito davanti a lei raccontandole l’accaduto. Dovevo avere un aspetto orribile, con i miei eleganti abiti ormai lacerati, il volto sconvolto e rigato di lacrime e in mano, come un feticcio da cui non ci si vuole separare, il sacchetto con i resti del mio piccolo servizio. Non si scompose, mia madre. Non alzò un dito né fece una mossa per lasciare la sedia e venire ad abbracciarmi, l’unica cosa che avrei desiderato. Non sarebbero servite parole, non c’è niente che si possa dire per cancellare un trauma che mi sarei portata dietro per sempre, sarebbe stato sufficiente un gesto d’affetto, una carezza. Volevo soltanto che lei mi vedesse
, che mi trasmettesse il suo amore, seppure in un modo primitivo, senza troppi fronzoli, perché sapevo che quelli non le appartenevano. Ma, purtroppo, a volte ciò che immaginiamo essere il male più grande viene smentito da una realtà che è ancora peggio. Così subii i suoi rimproveri, venni sgridata perché avevo rotto la tazza e il piattino che lei mi aveva raccomandato di tenere cari. Mi accusò di essermi inventata quella storia assurda soltanto per giustificare la mia disattenzione, quella che mi aveva condotto a distruggere qualcosa che dovevo invece mantenere integro perché aveva un valore. Mi ero di certo comportata da stupida, erano queste le frasi che le mie orecchie incredule furono costrette ad ascoltare, e così ero caduta sulla neve e causato il pasticcio.
Quale valore, invece, attribuire al mio dolore non era un fatto da discutere: avevo compiuto un errore e meritavo di essere sgridata, a detta sua: la storia finiva lì.
In quegli istanti io capii che da lei non avrei ricevuto alcuna consolazione, il dolore fu talmente acuto che mi anestetizzò da qualsiasi altra emozione, sentimento. Non provai più freddo, la paura si dissolse. Tutto quello che poco prima avevo vissuto scomparve dinanzi all’atrocità di quella situazione vissuta nel luogo che doveva significare il mio porto sicuro: la mia casa, mia madre. Il suo non-gesto si trasformò nel trauma peggiore, dinanzi al quale le azioni dei due delinquenti perdevano quasi di importanza, si annichilivano.
Non c’era stato modo che si arrendesse all’evidenza dei vestiti strappati, del mio manifesto stato di choc: non aveva voluto sentire ragioni. Un tentativo di stupro carnale, che avevo appena undici anni, era divenuto la violenza della mia anima da parte di colei che mi aveva messo al mondo e, riconoscevo, aveva finito lì il suo compito. Smisi di piangere, andai a lavarmi cercando di sistemare ogni cosa realizzando la verità che veniva fuori in tutta la sua triste evidenza: avevo undici anni ed ero appena diventata adulta.
Nessuno venne mai a cercarmi per ciò che avevo fatto ai due ragazzi per difendermi, nessuno mi chiese ragione dei segni che forse gli avevo lasciato e che gli avrebbero ricordato per sempre quei momenti. La madre della mia compagna di giochi si chiuse anche lei nel silenzio, ed io che sono adesso madre mi chiedo come abbia mai potuto vivere tutta la vita con questo pesante fardello nel cuore, come abbia potuto dimenticare il mio sguardo supplichevole che anche solo per un istante aveva incrociato.
Sono trascorsi parecchi decenni da quei primi giorni di dicembre del 1986 e, se chiudo gli occhi e mi forzo di tornarvi, due cose mai potrò cancellare: il sapore del sangue del mio aggressore e gli occhi indifferenti di quella donna.
II –
Il perdono
Erano trascorsi trent’anni dai fatti di quei primi di dicembre, quando di nuovo, come in un inquietante gioco in cui le regole sottostanno alle quote più grandi di dolore e sofferenza, mi ritrovai dinanzi a un evento drammatico. Un nuovo punto di non ritorno, un secondo rito di passaggio.
Ero una donna adulta che si era già trasferita in Italia quando all’avvio del primo mese di inverno il telefono squillò. All’altro capo si trovava mia sorella che, lapidaria, mi annunciò che nostra madre non stava bene. Mi stupii dell’accuratezza e del tono grave con cui aveva pronunciato quel mamma non sta bene, l’avevo sentita pochi giorni prima e nulla mi aveva lasciato sospettare che ci fosse qualcosa di strano nella sua voce. Nonostante avessi avuto tutto il diritto di farlo, infatti, non avevo mai interrotto i ponti con lei e mi premuravo di sentirla di frequente, per sapere come andassero le cose. Mamma ha qualcosa di strano sul petto, insistette lei, e allora capii. Una macchia nera sul petto, spiegò, quando non era più necessario aggiungesse nulla. Intuii che nostra madre fosse gravemente malata, la sua salute irrimediabilmente compromessa. Non sono un medico, ma comprendevo a pieno come una manifestazione talmente evidente in modo esteriore non potesse che celare un quadro clinico che difficilmente avrebbe potuto lasciare speranze. Come nessuno aveva mai potuto rendersi conto del cancro che probabilmente la stava già divorando? Feci balenare velocemente alla mia mente pensieri ed emozioni, ma non potevo dargli spazio in quel momento. Mi trovavo infatti a casa di una conoscente, Sara, che a quel tempo non era ancora un’amica quando ricevetti la chiamata. Le nostre figlie erano compagne di scuola, alla materna, e così avevamo deciso di trascorrere il pomeriggio insieme, per consentire alle bambine di giocare. Saremmo diventate un po’ più intime col tempo, io e lei, per cui non accennai a nulla. Mantenni il sangue freddo che mi contraddistingue e, una volta giunta a casa, iniziai a riflettere sul da farsi. La notizia non mi aveva lasciato indifferente, al di là di tutti i trascorsi e le vicende che il lettore leggerà nelle prossime pagine, e non potevo starmene con le mani in mano.
Mia sorella mi aveva raccontato con apprensione che nostra madre non aveva voluto saperne di andare da un medico, ma più i racconti si facevano circostanziati più capivo che non c’era un altro minuto da perdere. Forse la malattia era già giunta all’ultimo stadio, ma un tentativo lo si doveva per tentare di venire a capo della cosa, studiare il modo per non farla soffrire ed eliminare ogni possibilità che non ci fosse nulla da fare. Nonostante i tentativi di mia sorella di persuaderla ad andare in ospedale, la situazione era paradossalmente peggiorata: lei si era arrabbiata, decisa a risolvere questa cosa alla sua maniera, senza alcuna intromissione. Decisi di richiamare il giorno dopo, per potere parlare con l’uomo che viveva con mia madre, quello che potevo definire il mio patrigno. Lui pareva non avere alcun ruolo in tutta la vicenda se non avere assecondato la follia di mia madre di volersi curare da sola, senza rendersi effettivamente conto delle tragiche conseguenze.
Mi resi conto dell’assoluta mancanza di lucidità da parte di tutti e decisi di armarmi di tutta la mia determinazione per vederci chiaro e capire quali rimedi, se ancora c’erano, potevano essere messi in atto. Mi pesava lasciare la mia famiglia, mio marito e i miei due figli, per tornare in Polonia, ma una voce dentro di me mi sussurrava che era la cosa giusta da fare, per non pentirsi un giorno di essersi girata dall’altro lato di fronte al dolore di colei che, al di là dei torti e degli errori, rimaneva sempre mia madre. Mio marito, che conosceva grosso modo l’intera mia vicenda famigliare, non si oppose al mio volere e mi lasciò fare, assicurandomi che avrebbe badato lui ai nostri figli.
Iniziò da quel momento la mia odissea, che ebbe come primo ostacolo quello del passaporto scaduto: senza quello mi sarebbe stato impossibile rientrare nel mio Paese, varcare qualsiasi frontiera