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Tuatara
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E-book134 pagine2 ore

Tuatara

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Info su questo ebook

Il tuatara è un rettile estremamente antico e piuttosto misterioso. È l'unico sopravvissuto del suo ordine, quello dei Rincocefali. È possibile che un tale animale possa resistere rinchiuso in uno zoo?
Emilio, Nadia e Gian Paolo sono tre giovani figli di una piccola pianura meridionale, poco distante da catene di alte montagne, molto inquinata. Cresciuti fianco a fianco fin dall'infanzia, alcuni eventi li hanno portati a perdersi di vista. Seppure a distanza, nessuno dei tre ha mai smesso di sognare una vita diversa, lontana; nessuno di loro ha mai dimenticato gli altri due. Ognuno porta dentro di sé una traccia che lo accomuna agli altri due e, soprattutto, all'arcaico progenitore. Incontrarsi di nuovo sarà nel loro destino?

Raffaele Frigo, vicentino, fin da bambino coltiva le sue grandi passioni per la lettura, la scrittura, i viaggi e la pratica di diversi sport. Dopo essersi laureato in lettere all'università di Padova, sta faticosamente cercando il suo posto nel mondo, barcamenandosi tra insegnamento precario e altri lavori saltuari. "Tuatara" è il suo esordio editoriale.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2024
ISBN9791223044674
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    Anteprima del libro

    Tuatara - Raffaele Frigo

    Collana

    LE FENICI

    Raffaele Frigo

    TUATARA

    MONTAG

    Edizioni Montag

    Prima edizione maggio 2024

    Tuatara

    © 2024 di Montag

    Collana Le Fenici

    ISBN: 9788868927851

    Copertina: T. Studler, Unsplash.com

    Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistite, esistenti o a fatti accaduti è

    puramente casuale.

    TUATARA

    «Fui posto a metà strada fra la miseria e il sole»

    (Albert Camus)

    EMILIO

    Il martello! È di nuovo lui. Lo sento fissare i chiodi nella mia testa. Li fissa proprio bene. Crea pertugi per i piccoli mostri. Mi alzo, sarà la sveglia, la guardo e non suona. È troppo presto per godere del tepore dell'alba. Aspetterò, intanto mi accerto che sia una giornata limpida. Solo quando il sole avrà varcato l'orizzonte mi sentirò autorizzato a tornare a letto e, se mi riuscirà, a dormire per il resto della giornata. Ritengo che questo sia il mio unico diritto in questo momento. Nulla può sconfiggere i colori e le luci dell'alba. Poi probabilmente osserverò per qualche ora le muffe del soffitto.

    Che sto facendo ora? Assomiglia tanto ad uno dei miei fallimenti. Mi ritrovo di nuovo sdraiato in questo prato spelacchiato, poco distante da casa, a fissare senza motivo le nuvole sopra la mia testa. È da queste che aspetto una spiegazione, anche se non so di preciso cosa sto cercando. A loro, scrutandole, chiedo che mi rendano conto del mio stato d'animo. Perché esistete? Perché continuate a muovervi in questo modo propriamente vostro, incostante, rarefatto, nevrotico e allo stesso tempo lento ed eterno, sporcando della vostra imperfezione lo splendido cielo altrimenti completamente azzurro? Non cerco né filosofia né metafisica, non possiedo gli strumenti adatti per questo. So che i problemi sono tanti e sono altri però ora mi basterebbe riuscire a inquadrare questa sensazione di persistente fastidio che la vista di queste nuvole suscita in me. Mi piacerebbe magari poterla giustificare. Mentre rimango qui buttato, inerte, l'odore dell'erba appena tagliata invade le mie narici. Un tempo l'avrei trovato gradevolissimo, ora tutto questo non fa altro che aggiungere disgusto al disgusto che mi percorre da capo a piedi. Vorrei tanto che mi grandinasse addosso e che i fulmini mi cadessero in testa. Forse allora ci capirei qualcosa. Spesso serve la guerra per ricordarsi che la vita è così bella. Più le condizioni si fanno avverse, più il mio spirito sonnolento si risveglia, le mie membra recuperano le forze e l'ispirazione riesce a prendere forma. Non sono fatto per la bellezza, nuvole e meteo ora c'entrano solo in parte. A volte mi avvicino a quella fusione con il mondo naturale tanto desiderata, a quello che i sapienti hanno definito sentimento panico della natura ma che solo i contadini, forse, sanno davvero raggiungere. Quand'ero più giovane ho studiato questo concetto sui banchi di scuola e da allora non mi è più stato possibile dimenticarlo. Lo intendo come una disperata ricerca dell'essenziale, del primitivo, di ciò che non si vede, ma che contemporaneamente si può toccare e si può sentire. L'ho solo sfiorato, mai agganciato. Forse l'ho desiderato troppo impetuosamente quando invece avrei dovuto soltanto aspettare, tranquillo, riposato e pronto a riceverlo. Forse la colpa invece è del mio temperamento, che troppe volte indugia eccessivamente nell'auto analisi. Come adesso. Ponendo sempre in prima posizione la mia persona mi mantengo slegato e indifferente alla natura che, comunque -di questo ne sono certo- a sua volta non mi considera. E perché dovrebbe, poi? Non riesco più a seguire l'istinto! Ci sono mai davvero riuscito? Non mi accontento del dormiveglia, ho bisogno tutto sommato di una certa concretezza. Tutto questo però inizia a stancarmi tremendamente. Non posso che contraddirmi di continuo, è la natura dell'essere umano pensante. Come un cane frustrato allora provo a mordermi la coda, sognando di essere il mitico uroboro. Almeno in questo modo diventerei un simbolo, rappresenterei qualcosa e avrei un significato. Avrei un compito preciso: svalutare lo scorrere lineare del tempo, palesare che la storia privata e universale è un circolo di vizi e schifose storture che si ripresentano puntuali a intervalli regolari nei momenti più sbagliati. Invece posso essere giusto un cagnaccio randagio, condannato a non essere ascoltato. Tutt'al più una lucertola. Posso praticare continuamente l'autotomia (perdere volontariamente la coda per difendermi dai predatori), tanto la parte monca è destinata a ricrescere in breve tempo. Posso agire in questo modo però solo perché so per certo che la coda ricrescerà, i miei rischi sono sempre calcolati, non so più agire seguendo l'istinto che caratterizza le vere lucertole.

    Non disdegnerei una coscienza meno assillante. Sono sempre condannato a vedermi agire dall'esterno.

    Un altro comportamento della lucertola che da sempre mi affascina è la tanatosi (morte apparente), ovvero la capacità di perdere coscienza, sensibilità, vigore muscolare, sempre con il fine di difendersi da un grave pericolo. Potrebbe in effetti rappresentare la mia salvezza quando la mia testa inizia a mulinare a vuoto e la consapevolezza inasprisce questo stato di malinconia in cui mi trovo da diverso tempo. Premi un pulsante e attivi con vigliaccheria lo stato di tanatosi. Clic, e nulla di più semplice. Tutto può scorrere via libero: idee, progetti, speranze, fallimenti, inettitudine, desiderio di essere all'altezza. Non esiste più nulla, niente è mai esistito in realtà. Diventare una lucertola sarebbe poi così male? Svegliarsi un giorno e, come il giovane Gregor Samsa, ritrovarsi trasformato in un bel lucertolone. Penso che inizialmente non mi dispiacerebbe affatto. Col passare del tempo però ne avrei indubbiamente abbastanza, anche di questa condizione. D'altronde mi sono sempre stufato di tutto e di tutti. La cosa non rappresenterebbe novità alcuna. Potrei anche scriverci un romanzo, raccontare di me che mi trasformo in una lucertola, mangio qualche insetto, prendo il sole, scorreggio. Tanto una cosa vale l'altra. Lasciamo perdere. Mi accuserebbero come minimo di plagio o, nella migliore delle ipotesi, di avere sviluppato un'idea troppo banale. Sono certo, però, che il risultato non sarebbe malvagio. Ne verrebbe fuori un raccontino grottesco e divertente, fedele a questa venatura cupa e meditabonda che ora mi caratterizza. Mi rimane la certezza che la creazione di qualcosa, di qualsiasi cosa, sia un passo obbligato per me come per tutti. Vorrei riuscire ad esprimermi e a realizzare le mie potenzialità. Chiunque dovrebbe provarci. Da anni sono bloccato su queste posizioni. Essere felice è così difficile. Combattere fantasmi interiori non dà la stessa soddisfazione che sfuggire a un gatto. Che cambia se anche la coda ricresce?

    Latito in un incubo come quel latitante nel mio incubo. Con due amici ha sfasciato un centro commerciale di notte, ma questo era pieno di telecamere. È una mera questione di tempo, i notiziari stanno diffondendo il suo volto in preda alla follia in tutto il Paese. Non si diverte più tanto perché l'attesa è dura: anche la cattura potrà essere una liberazione dalla vergogna e dal disonore. Si è lasciato trasportare dagli eventi perché incapace di preferire e di portare a termine una qualsiasi cosa. Imprigionato dai suoi pensieri, ha concluso che perfino la gabbia del corpo sarebbe un miglioramento sensibile della sua condizione. Continua a dimenticarsi i particolari, a perdere lucidità. Come una cimice gettato dentro il water, decide di passare gli ultimi attimi della sua fetida vita ad accapigliarsi coi suoi simili in trappola, invece di escogitare un piano per salvarsi, magari tentando di unire le forze con questi. Avrebbe ancora molto altro da dire, ma sul più bello gli manca la voce. La parola gli si strozza in gola e anche l'inchiostro della penna è finito. Quando si offrono le condizioni subentra l'oblio, o i sensi lo risvegliano dall'inquietudine intellettuale per gettarlo con ritardo in un'angoscia ancora maggiore, quella dell'esistenza tridimensionale. Intanto anch'io sento un certo appetito, manca lo spazio se si vuole dire troppo, bisogna eliminare e sottrarre. L'essenziale è sintesi. Aggiungo in continuazione problemi invece di trovare soluzioni e di rendermi le cose più semplici. Invece di terminare una riflessione ne accumulo un altro paio. È esattamente ciò che sto facendo adesso.

    Infatti penso che mi alzerò dal divano per prepararmi qualche cosa da mangiare. È un sollievo da poco ma è un'azione che posso iniziare e concludere con una certa velocità e senza interruzioni. Il frigo come al solito offre davvero poco: saranno almeno due settimane che non faccio la spesa. In dispensa trovo due pacchi di spaghetti, in giro qualche pomodorino secco, delle acciughe e un barattolo di olive mezze andate. Gli ingredienti dello scapolo o di chi va di fretta. E pensare che una volta curavo nei minimi particolari la mia alimentazione. Cucinare era per me una vera passione. Cercavo nuove ricette, sperimentavo, agrodolce di qua, riduzioni, escargot di là. Robe del genere. Erano bei tempi: l'entusiasmo in varie sfere mi attraversava come un dolce tramonto irradia, con la sua luce arancione, flebile ma tenace, l'irraggiungibile orizzonte. Adesso basta, il cibo per me è mero nutrimento utile a farmi arrivare a fine giornata in condizioni psicofisiche accettabili e anche i tramonti non mi attirano più. Probabilmente questo disamore per la cucina venne a coincidere con il mio ritorno, forse prematuro, dal viaggio fatto in Sri Lanka qualche anno fa. L'obiettivo era quello di assistere la popolazione locale con tutte le mie forze. Provavo a fare, insomma, del volontariato, un'altra attività che mi infiammava parecchio e verso la quale mi sentivo naturalmente portato. In quei luoghi capii presto che per molte persone il cibo non poteva essere un piacere, ma solo una schietta necessità. Trassi inoltre un altro grande insegnamento da quell'esperienza che forse non mi arricchì, ma fu sicuramente un tassello più che mai utile per la mia formazione. Questa scoperta fu infatti la causa del mio ritorno a casa dopo solo due mesi. Pensavano tutti che a dettare la mia scelta repentina fosse stata l'incapacità di abituarmi al clima tropicale, oppure la nostalgia di casa e degli amici. Avevo in realtà compreso in modo netto e doloroso una cosa in apparenza molto semplice, che in quel momento determinò lo spegnersi definitivo e improvviso del mio ingenuo entusiasmo anche per quella nobile causa. Non ero nato per aiutare gli altri. La cornice purtroppo era troppo piccola e non poteva contenere più fotografie. Le dimensioni di queste foto erano poi imponenti e spaventose. Allora decisi di incorniciare la prima foto soltanto, la più piccola, anche se raffigurava un soggetto quanto mai nebuloso e di difficile comprensione: scelsi me stesso, con tutte le mie contraddizioni. In che maniera potevo portare benefici agli altri senza aver prima trovato il modo di fermare la mia decadenza? Chi può aiutare chi? Quella fu una scelta obbligata, determinata dal mio istinto e ora è inutile stare a discutere della sua validità. Ho scelto necessariamente di concentrarmi sul lavoro su me stesso pensando che la risoluzione individuale fosse il breve ma indispensabile passo iniziale. Bene o male sto ancora

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