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L'amore profuma di caffè
L'amore profuma di caffè
L'amore profuma di caffè
E-book226 pagine3 ore

L'amore profuma di caffè

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Info su questo ebook

L’amore è come il buon caffè: ardente, forte, puro, dolce e amaro. Per apprezzarlo e abituarsi a esso, bisogna berlo a piccoli sorsi e lo si assapora veramente solo dopo aver scoperto ogni sua minima sfumatura. Un piccolo bar e una zingara dagli inquietanti occhi verdi accompagnano le storie di una studentessa universitaria disadattata, due trentenni in carriera ossessionate dal successo personale e un pensionato torturato dal dolore di una perdita che ha ancora molto da scoprire. Sono storie intime e quotidiane sulla ricerca di una felicità che sfugge tra frustrazione, sogni infranti e routine di tutti i giorni. Il passato può far male, ma si può anche sempre imparare qualcosa da esso.

Arriva al pubblico italiano “L’amore profuma di caffè”, il romanzo indipendente più venduto in Spagna nel 2013, secondo il giornale EL PAÍS. Le vendite e la buona critica hanno attirato l’attenzione di diverse case editrici e a gennaio 2015 Suma de Letras (Penguin Random House) l’ha lanciato in versione cartacea.

LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2015
ISBN9781310236402
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    Anteprima del libro

    L'amore profuma di caffè - Nieves García Bautista

    lamore_700

    L'AMORE PROFUMA DI CAFFÈ

    Nieves García Bautista

    Traduzione a cura di

    Serena Arnò

    Disegno di copertina: Laura Moreno Bango.

    Titolo originale: El amor huele a café

    © Nieves García Bautista

    CONTATTARE L'AUTORE

    Facebook: https://www.facebook.com/ngbescritora

    Twitter: @nieves_gb

    E-mail: nievesgarciabautista@gmail.com

    CONTATTARE IL TRADUTTORE

    Facebook: https://www.facebook.com/serena.arno

    E-mail: serena.arno88@gmail.com

    L'AMORE PROFUMA DI CAFFÈ

    A Daniel,

    perchè l’amore profuma anche di latte,

    spuma da bagno e cotone

    Oh, che dolce gusto ha il caffè!

    Più amabile di mille baci,

    più soave del moscato!

    Caffè, caffè io devo avere;

    e se qualcuno vuol ristorarmi,

    ah, mi versi del caffè!

    Cantata del Caffè, Johann Sebastian Bach

    UN POSTO

    In una strada di poca importanza, in un angolino qualunque, c’è un piccolo locale con grandi vetrate chiamato Il Salotto di Melissa.

    Potrebbe essere un bar come tanti, forse un po’ più speciale per la sua cucina straniera e per l’aroma di caffè appena macinato, intenso e scuro, dolce e amaro, che sa eccitare e rilassare nello stesso momento.

    È un posto accogliente, arredato con mobili di poche pretese che potrebbero sembrare insignificanti agli sguardi più raffinati, ma che in realtà sono ricchi di storie e segreti che col passare del tempo si sono posati su di essi e dei quali sono testimoni silenziosi.

    Questo posto deve il suo nome a un divanetto, un vis-à-vis di noce vecchio e malridotto, ma che conserva ancora la straordinarietà di un intaglio difficile e delicato realizzato da mani giovani. Si impone alla vista in un angolo, silenzioso e signorile, e nonostante il grande fascino che esercita tra i clienti nessuno osa sedersi sui suoi due sedili posti uno di fronte all’altro.

    Fuori dal bar si aggira una zingara dalla pelle scura e dai vestiti sgualciti, che predice la sorte in cambio di qualche moneta. Alcuni le credono, altri no, ma nessuno riesce a evitare di sentirsi intimidito dai suoi intensi occhi, che bruciano come brace color smeraldo.

    LUNEDÌ

    «Il cuore di tuo padre ti cambierà la vita, tesoro». Non riusciva proprio a togliersi dalla testa il presagio da quattro soldi di quella ciarlatana. Era l’ultima cosa che le aveva detto la zingara, poi non aveva voluto sapere altro. Le aveva messo una moneta nel palmo della mano ed era corsa rapidamente verso il bar. Ma quelle maledettissime parole erano già riuscite a congestionarle i sensi e la sua testa continuava a girarci intorno, allo stesso ritmo del cucchiaino che ora disegnava la forma di un otto nella schiuma del suo caffè macchiato.

    —Adela, mi stai ascoltando?

    Di fronte a lei, la sua carissima amica Raquel la osservava con sguardo scrutatore attraverso i suoi scurissimi ed enormi occhiali da sole Chanel. Li aveva messi con la scusa che le vetrate del bar riflettevano la luce del sole e le facevano male gli occhi, ma Adela sapeva bene che alla sua vecchia amica piaceva ostentare il suo status sociale.

    —Ah! Eh…, sì, scusami, certo che ti ascolto. Quindi stasera rivedrai Iván, vero? Raccontami.

    —No, raccontami tu. A che cosa stavi pensando?

    —Mah, niente. Alla zingara che c’è là fuori, alla fine è riuscita a farmi andare nel pallone.

    —Una strizzacervelli come te come te che va nel pallone? Ma dai!

    Raquel rimase in bilico per un momento, con la bocca aperta, aspettando un segno di approvazione da parte della sua amica che però fu capace solo di rispondere con un grugnito poco convinto e anche un po’ indulgente.

    —Quanta allegria!

    —Su, coraggio —rispose Raquel—. Dimmi che cosa preoccupa la mia cara psicoanalista.

    Fosse anche solo per togliere quell’espressione accigliata dalla faccia. Ti ricordo che a trentatrè anni la pelle non è più tanto elastica, tesoro.

    —Si tratta di mio padre.

    —Già… Come avrà fatto a saperlo quella donna?

    —Non essere ingenua, dai. È qui tutti i giorni, ci avrà sentito parlare qualche volta e ne avrà approfittato oggi per sganciare la notizia bomba. Questi professionisti delle predizioni sono tutti uguali: ti raccontano solo cose che tu stesso gli dici e che ovviamente già conosci. E per fare colpo te lo presentano come se fosse l’oracolo di Delfi. Mah!

    —Allora? Che cos’è che ti preoccupa?

    —Mi è solo ritornata in mente tutta la storia dell’infarto. Ho come l’impressione che mio padre non stia bene. Lui dice che con noi si trova a suo agio, che gli piace prendersi cura del bambino, però… No, secondo me non sta bene.

    —Povero Joaquín. Dev’essere stata davvero dura per lui.

    —Dura è un eufemismo… È stato terribile.

    Adela sospirò. Cinque mesi prima il cuore di suo padre si era fermato, stanco di tanto peso, tanto dolore e tanta sofferenza. Non era passato nemmeno un giorno dalla cremazione del suo grande amore quando sentì come una lama che gli lacerava il petto. Nonostante il dolore lancinante, quell’uomo era riuscito ad accennare un sorriso. «Cayetana, Hugo…», diceva in preda al delirio mentre allungava una mano per aria. Adela, che era tremante in ginocchio accanto a lui, sapeva che suo padre in quel momento stava vedendo sua moglie e suo figlio defunti. In quei lunghi minuti di angoscia, da sola nell’appartamento in cui era cresciuta, nell’attesa dell’ambulanza che sembrava non sarebbe mai arrivata in tempo, Adela si consolava pensando che se suo padre fosse morto lo avrebbe fatto con la felicità di ritrovarsi con sua moglie e suo figlio.

    Con lo sguardo perso nel bellissimo intaglio del vis-à-vis decorativo, Adela ebbe un sussulto. Quel matto di suo fratello le mancava tanto e sentiva anche terribilmente la mancanza della sua adorata madre. Poveretta, quanto aveva sofferto nell’ultimo periodo della sua vita. Adela si sforzò di ricordare quando era stata l’ultima volta che aveva visto sua madre sorridente, felice e tranquilla, com’era sempre stata. Con grande rammarico però, si rese conto che non si ricordava.

    Alle quattro meno un quarto del pomeriggio Helia scese dall’autobus che, come sempre, arrivava puntuale dal campus universitario. La invase un’ondata di caldo soffocante, mischiata alle vampate d’aria che emanava il motore dell’autobus. Il contrasto tra l’ambiente fresco del bus e quell’afa insolita di inizio ottobre le toglieva il respiro. Helia non vedeva l’ora di arrivare al Salotto di Melissa, il suo bar preferito, e accomodarsi su uno dei suoi morbidi sofà nascosti tra le piante, ordinare un frappè freddo, godersi l’aria condizionata e continuare a leggere il Cancionero y romancero español, una raccolta di poesie medievali realizzata da Dámaso Alonso.

    La ragazza proseguiva a passo svelto nonostante il senso di soffocamento peggiorato anche dal suo abbigliamento troppo pesante, del quale era perfettamente cosciente. Accanto a lei, in attesa che il semaforo dei pedoni diventasse verde, si fermò un gruppo di ragazze molto carine. Portavano pantaloncini corti, minigonne, top attillati e sandali col tacco che slanciavano i loro corpi ancora abbronzati. «Che bei vestiti», pensò. Helia indossava una camicia bianca e larga, jeans scuri a zampa di elefante e una giacca a maglia di colore grigio legata intorno alla vita che le arrivava fin sotto i fianchi. Si sentì ridicola. Guardò di fronte a lei. Il sole splendeva molto forte e si rifletteva in modo fastidioso nelle lenti trasparenti dei suoi occhiali da miope. Strinse gli occhi e si riparò dal sole con una mano. Sul marciapiede opposto c’era una coppia di anziani che parlavano e sorridevano tra di loro. Helia cominciò a sentirsi nervosa. Era evidente che stavano facendo il confronto tra quel gruppo di belle ragazze e quell’esserino ridicolo tutto imbacuccato. Sì, doveva essere proprio così.

    Finalmente il semaforo fermò il flusso di veicoli. Un auto frenò poco prima delle strisce pedonali facendo stridere i freni. Era occupata da alcuni ragazzi, sembravano carini. Abbassarono i finestrini e cominciarono a lanciare complimenti. Nessuno però era rivolto a Helia, che in quel momento si sentì ancora più ridicola. Allora accelerò il passo, con la cartellina schiacciata contro il petto, rossa in viso e col cuore che le pulsava nella gola. E così continuò anche dopo aver raggiunto il marciapiede. Ormai mancava poco. Presto sarebbe arrivata al bar.

    Era stata quell’incessante premura di scappare ad aver fatto sì che Helia si rinchiudesse in posti insoliti per i suoi ventidue anni. La giovane frequentava solo biblioteche, musei, gli angoli più discreti dei bar e, ovviamente, casa sua. Preferiva stare da sola, in posti poco affollati e dove non ci fosse il pericolo di ritrovarsi con gente giovane, in particolare ragazzi. Quando andava a lezione o quando era in compagnia delle sue amiche, non riusciva a evitare di sentire alle sue spalle un costante sguardo burlone, delle parole pungenti o un confronto ingiusto.

    Era ormai da tempo che locali, feste e discoteche non facevano più parte dei suoi programmi. Dei suoi anni di scuola Helia conservava un gruppo di cinque buone amiche con le quali aveva condiviso appunti, risate e confidenze. All’inizio ciò che le aveva unito erano stati i buoni voti e un aspetto fisico quasi insignificante, però l’adolescenza non era stata generosa in ugual misura con tutte. Le amiche di Helia, infatti, avevano sviluppato delle forme armoniose e un bel viso, e quando si resero conto di piacere ai loro compagni di classe cominciarono a esporsi di più e a interessarsi all’arte della seduzione femminile. Impararono a truccarsi e a vestirsi nel modo che più gli donava e iniziarono a sentire la necessità di sfoggiare le loro grazie nei posti del divertimento giovanile più in voga: i night-club.

    Nel frattempo, in quella corsa verso l’esplosione dei sensi, Helia rimaneva sempre più indietro. Il suo seno si notava appena sotto le magliette ed era sproporzionato rispetto ai fianchi. «Hai il fisico a pera», le dicevano le sue amiche, che cercavano in continuazione di insegnarle come sistemarsi. Alla diagnosi sul fisico seguiva poi una sfilza di istruzioni su abbigliamento, colori e accessori da utilizzare per nascondere al meglio il maledettissimo fisico a pera, mentre le altre mettevano in mostra i loro corpi più armoniosi, proporzionati e adatti alla moda dei negozi.

    Per Helia fare shopping era deprimente. E lo erano anche le uscite notturne. Ma ciò che più detestava al mondo erano gli specchi, quei marchingegni del demonio creati per delizia delle belle e croce delle brutte. Gli specchi riflettevano un’immagine che non riusciva a sopportare per più di qualche secondo. Quel viso eccessivamente rotondo, la carnagione pallida, le labbra sottili e senza colore, le sopracciglia grosse, due occhi inespressivi nascosti dietro un paio di occhiali antiquati dalla montatura di plastica e… quel naso. In mezzo al viso c’era quel maledetto musetto da maialino impossibile da nascondere. Erano lì in bella vista quelle due narici a punta, come un insolito gesto di ribellione e superbia che non aveva niente a che vedere con il resto della sua fisionomia.

    Helia teneva sotto controllo gli specchi di casa sua, dei bagni dell’università, del Salotto di Melissa e di tutti gli altri posti che frequentava. Ma anche se aveva calcolato tutte le distanze per sapere quando doveva abbassare lo sguardo, a volte le succedeva di trovarsi di fronte a uno specchio nuovo o al riflesso inopportuno di una vetrina e ogni volta che si riconosceva in quell’immagine era una pugnalata al cuore.

    In questo senso si sentiva libera solo durante le vacanze e nei giorni di festa. Non appena finiva le lezioni, infatti, si trasferiva a casa di una zia che viveva in un paesino isolato. Era un luogo fresco e poco popolato, dove le ore passavano lente e parsimoniose, allo stesso ritmo di un sole pigro che oziava tra alte montagne e il verde intenso di una ricca vegetazione. Helia si lasciava andare completamente a quella vita indolente. Si svegliava a mezzogiorno e passava interi pomeriggi distesa nell’orticello all’ombra di un melo secolare, leggendo, dormicchiando e fantasticando sulla sua vita ideale, dove lei era bella, magra ed elegante. Nei suoi sogni ad occhi aperti, c’era anche un uomo affascinante e intelligente che la amava alla follia. Formavano una famiglia bellissima, loro due e una coppia di gemellini, maschietto e femminuccia, che scorrazzavano nel giardino della loro villetta e ne combinavano di tutti i colori, per la gioia dei loro genitori.

    Oltre a svagarsi con la sua vita immaginaria però, Helia si divertiva anche in compagnia di sua zia, una vera e propria anima gemella con la quale riusciva a parlare anche fino a notte fonda. In quel mondo tutto loro non c’era spazio per le pretese, per il perfezionismo, né tantomeno per la frenesia quotidiana, le critiche e i rimproveri che invece facevano parte di casa sua.

    Sì, quel posto così insignificante era il suo rifugio di calma e felicità. E Il Salotto di Melissa, quel bar con quel nome poco comune nel mondo alberghiero, era quanto di più simile ad esso fosse riuscita a trovare. Arrivata all’entrata del bar, Helia fu spinta all’indietro dalla porta che si aprì e dalla quale uscirono due donne molto eleganti. Nell’imbarazzo del momento, il suo libro le scivolò per terra ai piedi della zingara che era solita aggirarsi da quelle parti, disposta a predire il futuro a chi avesse avuto la volontà di ascoltarla. La donna lo raccolse e glielo restituì con una scintilla che accendeva quei sagaci occhi verdi. Per pochi secondi Helia fissò quello sguardo carico di parole sperando che la zingara dicesse ciò che stava pensando, ma la sua timidezza ebbe la meglio. Salutò la zingara con un sorriso incerto.

    —Grazie —bisbigliò.

    Dopo aver lasciato suo nipote Mateo a lezione di disegno, Joaquín torno all’appartamento di Adela un po’ stanco. Quel caldo di ottobre, così soffocante e anomalo in autunno, contribuiva ad affaticare le sue già consumate articolazioni. Ma non era solo un cedimento fisico quello che sentiva l’elettricista in pensione.

    L’uomo si lasciò cadere svogliatamente sul costosissimo sofà del salotto di sua figlia e accese l’enorme televisore. Fece zapping senza molto interesse finché non si soffermò su un canale di documentari. Un reporter giovane e temerario parlava immerso in un paesaggio di natura selvatica e una bellezza indescrivibile. Quel ragazzo nel televisore avrebbe potuto essere Hugo. Sì, avrebbe potuto essere lui se ci avesse provato. Invece no. Hugo ormai non era altro che un mucchietto di ceneri in un urna di ceramica che aspettavano di essere sparse dalla sua famiglia nei posti in cui gli sarebbe piaciuto riposare.

    Prima di morire, Hugo era stato un uomo alto e forte, uno spirito indomito e ribelle che non si era mai lasciato piegare dalle convenzioni. Già da piccolo si divincolava spesso dalla mano dei suoi genitori e tutte le scuse erano buone per uscire di casa. Compiuti diciotto anni, riempì uno zaino con alcuni cambi, magliette, pantaloni, i suoi scarsissimi risparmi, un sacco a pelo e la sua adorata macchina fotografica e disse che andava a esplorare l’Africa. Né le minacce di Joaquín né le suppliche di Cayetana furono in grado di persuaderlo a non partire. Se ne andò per un anno intero e in quel periodo trovò il modo di chiamare ogni tanto o inviare qualche laconica cartolina. Raccontava avventure incredibili. Viaggiava facendo l’autostop e per pagarsi da mangiare accettava qualche lavoretto. Il ragazzo però si rese subito conto dell’incompatibilità fra le abitudini del mondo industrializzato e il suo nuovo stile di vita, perciò imparò a cucirsi delle pratiche tuniche con gli scampoli che riceveva in cambio dei suoi affetti occidentali, che in quelle terre gli servivano a ben poco. Convisse con tribù africane, dove cacciava con gli uomini e aiutava le donne con il raccolto. Imparò a nascondersi dai depredatori e a sopravvivere alle leggi implacabili della natura.

    Quando tornò, vendette il suo tesoro fotografico a varie riviste di animali e di viaggi, e con quello che guadagnò riuscì a essere indipendente. Quelle immagini così inedite e ardite piacquero così tanto che iniziarono ad arrivargli una pioggia di proposte di lavoro che lo portarono a immortalare l’impresa degli scalatori dell’Everest, il conflitto nella Striscia di Gaza, l’orrore delle guerre nei Balcani, le diversità biologiche del Mar Rosso e lo scioglimento dei ghiacci ai Poli. Hugo viveva sempre al limite, sfiorando la vertigine e sempre di pari passo con la morte. Nonostante Joaquín e Cayetana non si facessero mai scappare l’occasione per riprenderlo e avvertirlo dei pericoli che correva, sia loro sia Adela sentivano una profonda ammirazione per quel ragazzo così coraggioso e determinato.

    La sua fine però arrivò nella maniera più inaspettata possibile. Era una domenica di gennaio e infuriava un vento impetuoso. Quel giorno era stato programmato un languido pranzetto familiare per festeggiare il compleanno di Cayetana. Hugo aveva chiamato per avvisare che a causa di un imprevisto non avrebbe potuto esserci. Di fronte a quella scusa così banale, sua madre si arrabbiò così tanto che Hugo non ebbe altra soluzione se non quella di rassegnarsi. Quando sua madre riattaccò il telefono, Joaquín la avvertì che Hugo avrebbe inventato qualsiasi altra scusa pur di scappare dalla riunione familiare. Purtroppo però non ci aveva visto giusto. Quando sentirono il rumore della sua Ducati si affacciarono dal terrazzo per accertarsi che fosse lui. Il vento soffiava molto forte e agitava con violenza alcune cartacce per strada. Hugo sollevò la testa e li salutò con quel sorriso grande e sincero che sempre aveva sulle labbra, e che si spezzò solo quando un pezzo di cornicione si staccò dall’edificio e cadde fatalmente su di lui. Mancavano tre mesi al suo trentanovesimo compleanno.

    La tragedia si accanì soprattutto su Cayetana. Il senso di colpa la tormentava. «Lui non voleva venire, non doveva venire, ho ammazzato mio figlio!». Anche se Joaquín cercava di distrarla dal suo dolore con lunghe passeggiate, cinema e gite, era come se il lutto avesse tessuto una ragnatela

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