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E-book243 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Un romanzo metaletterario adatto a chi ama il film "Into the wild", il viaggio senza meta, la ricerca di un senso della vita. L’idea alla base del libro è la natura umana focalizzata sul contrasto tra istinto e ragione. 

"È un vanto per la nostra redazione avere scoperto Pierluigi Tamanini." 
W. Amighetti - Critico letterario e romanziere

LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2015
ISBN9781519991225
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    Anteprima del libro

    Io - Pierluigi Tamanini

    A Gianni Longhi,

    se mai è esistito

    A volte mi chiedo chi ce l’ha fatto fare

    di rinchiuderci

    dentro queste quattro mura grigie.

    Luigi Alberti

    Ho paura.

    Giovanni Pietro Longo

    Era tutto così semplice.

    Zeno Zeni

    ––––––––

    Quando rinvenni mi ritrovai nudo, disteso su un pavimento freddo. Avevo un forte mal di testa. Distolsi lo sguardo dal mio corpo: ero in una stanza che non avevo visto prima. Vicino a me c'era un tavolo in legno massiccio: allungai la mano e mi aggrappai scivolando. Al terzo tentativo riuscii ad alzarmi in piedi. Notai che al centro del tavolo c'era una scatola da scarpe rossa. La aprii. Dentro c'era un'altra scatola rossa, poi un'altra, e così via finché nell'ultima scatolina, grande quanto un'unghia del pollice, trovai un foglio bianco ripiegato più volte. Lo spiegai e iniziai a leggere.

    Hai sette anni per uscire vivo...

    Trasalii. Dovetti smettere. Tornò il mal di testa. Feci caso alla sedia che stava di fianco al tavolo. Era anch'essa in legno massiccio. La spostai a fatica e mi sedetti. Poi ripresi a leggere.

    Hai sette anni per uscire vivo da qui: dipende solo da te: da ciò che scriverai.

    Finiva così, senza aggiungere altro. Rilessi da capo. Non aveva senso. Era uno scherzo di cattivo gusto. Volevo tornare a casa, alla vita di tutti i giorni. Cercai di stare calmo. Forse era solo un incubo, presto mi sarei svegliato.

    Quando capii che non c'erano alternative, cominciai a scrivere. Era una vita che cercavo invano di ritagliarmi uno spazio e un tempo per scrivere un romanzo.

    ––––––––

    UN MUCCHIO DI PAROLE

    ai miei: padre, madre, sorella

    ––––––––

    1

    ––––––––

    X – L'ampiezza

    ––––––––

    Persi tutto in un istante: seicentomila euro e famiglia – padre, madre, sorella. A essere sincero non avvenne in un istante. Mi trovavo nel bar di Vigolo, il paesino in cui ero cresciuto prima di trasferirmi in città. C’era un’afa insopportabile: stavano tutti in piedi a tifare l’Italia. Gli unici seduti eravamo io e i miei due migliori amici: Jo a sinistra e Zen a destra. Il mio destino dipendeva da quei novanta minuti.

    Un maxischermo, decine di occhi incollati.

    Tre ex-compagni di classe delle elementari – che ormai stentavano a salutarmi – se ne stavano con la schiena nuda davanti a noi, fischiando e saltando come ventenni, oscurandoci la visione della partita. Fisici magri, scolpiti dalla fatica: non come noi tre, che sotto la maglietta nascondevamo pancette flaccide e bianche come mozzarelle.

    Birra, bestemmie, fumo di sigaretta. Ci giocavamo il passaggio in finale e io, un paio di mesi prima, avevo scommesso che l’Italia avrebbe perso.

    Anche se da tempo ho smesso di svegliarmi sconvolto da quell’incubo, ancora oggi ricordo ogni gesto del giorno maledetto in cui decisi di scommettere: mi rivedo ancora lì, immobile, a osservare l’edificio grigio nel quale sto per entrare. Se sono qui è per dirgli addio, mi dico facendomi forza. Entro nell’enorme scatola di cemento e mi siedo in sala d’attesa. Mentre aspetto guardo i ricchi Botero appesi alle pareti scure. Non mi piacciono. Né i quadri né le pareti. Quando è il mio turno mi chiedo che ci faccio qui? È tardi per ripensarci. Mi alzo e senza rendermene conto mi ritrovo davanti a uno sportello senza salivazione, inebriato dal sapore tipico dell’inculata.

    Esco e m’incammino verso il centro. Nelle tasche – metà nella sinistra, metà nella destra – stringo ciò che rimane di anni sperperati a lavorare. Ho la bocca impastata. Mi fermo a bere a una fontana, le mani in tasca. Su un muro grigio c’è una scritta verde. Un aprile fresco e profumato. Mi domando perché sia ancora lì.

    Mentre bevo sorsate di acqua fresca, sento le mani sudare a contatto con le banconote. Non mi azzardo a muoverle. Smetto di bere e riprendo a camminare, cercando di non pensare a niente.

    E se perdo? penso invece. Se perdo me ne andrò a vivere nei boschi: ho sempre desiderato abbandonare la società e rifugiarmi nella solitudine delle terre estreme.

    Mi fermo. Alzo lo sguardo: la luce mi abbaglia: il duomo mi osserva ammonendomi dall’alto. Adesso o mai più. Spingo la pesante porta con la spalla sinistra e le mani bagnate nelle tasche. Mi sorprende un ultimo pensiero tanto facile da scacciare che scoppio a ridere. E lei?

    La mia ragazza ha due possibilità: o molla tutto e mi segue, oppure, per quanto me ne importa, può anche andarsene affanculo!

    Sono dentro. C’è silenzio. Fa un freddo esagerato. Il sudore che ho addosso diventa di ghiaccio. Ho un brivido lungo la schiena. Il pavimento è cosparso di fogli accartocciati verdi e azzurri. È sporco di polvere e terra. C’è odore di pelle magrebina: dei disperati – alcuni in luride canottiere nere, altri in camicie eleganti con enormi aloni sotto le ascelle – guardano silenziosi schermi fissati ai muri. Li osservo chiedendomi cosa abbiamo in comune. Poi torno a occuparmi delle mie mani: le sento, sono ancora lì, in tasca, incollate alle banconote.

    In fondo al locale, in un angolo, c’è un vetro nero e lucido. Lo osservo da un po’. Visto dall’alto, forma, assieme alle pareti, un triangolo isoscele di incredibile perfezione: le pareti sono i cateti, il vetro l’ipotenusa. È proprio là, dietro a quel vetro, che finiranno tutti i miei risparmi.

    Mi avvicino. Solo ora noto che dietro al vetro siede un uomo pelato e grasso con gli occhiali scuri, la montatura spessa: ha un neo peloso al centro della fronte, quasi fosse un terzo occhio. Anche lui, come tutti qui dentro, puzza di sudore da far schifo. Mi tremano di nuovo le gambe, quasi cedono. Mi appoggio allo sportello. Faccio un lungo respiro. Estraggo le mani dalle tasche, una alla volta: oramai sono un tutt’uno con le banconote. Con lentezza e tremando, apro la mano sinistra. Appoggio le banconote sulla plastica ruvida e stacco dalla pelle l’ultima rimasta, aiutandomi coi denti. Ripeto l’operazione con la destra, stavolta aiutandomi con la sinistra libera. Prendo tutte le banconote e le sistemo ordinatamente di fronte al neo peloso del ciccione, il quale ha un ghigno incomprensibile.

    Qui il sogno finiva, e si trasformava in incubo: mi ritrovavo ogni volta da capo, lì, immobile, al punto di partenza, di fronte alla banca con le gambe tremanti, e tutto si ripeteva all’infinito nella stessa identica maniera, finché non mi svegliavo in un lenzuolo allagato di sudore con il cuore che rimbalzava.

    Potevo diventare ricco. Ecco perché era così importante quella partita, quei novanta minuti in cui ventidue milionari rincorrevano senza sosta una sfera di cuoio – questo almeno sosteneva Zen.

    Mentre tutti nel bar incitavano l’Italia gridando a gran voce e sbocciando boccali colmi di birra, noi tre ce ne stavamo seduti in silenzio al tavolo coi nostri bicchierini e la bottiglia di Marzemino.

    Durante l’intervallo Rai Uno ripropose le azioni salienti. Io, incurante del maxischermo, dal vetro della porta d’ingresso, intravedevo la pioggia sbattere a terra, rimbalzare in aria e dissolversi in impercettibili goccioline.

    «Come va, Luigi?» mi chiese Jo quando l’arbitro fischiò l’inizio del secondo tempo.

    «Non sento!» gridai a dieci centimetri dalla sua faccia da secchione.

    «Ho detto come va?» mi disse nell’orecchio.

    Alzai il pollice della mano destra.

    «Sicuro?»

    Allora feci segno con le dita che me la stavo facendo sotto.

    Jo sorrise.

    Mi voltai dall’altra parte. Zen mi dette una pacca sulla spalla e, col suo sguardo da criceto, mi fece un occhiolino di incoraggiamento proprio mentre la voce del commentatore si faceva grave e nitida, e la gente del bar si azzittiva. Alzai la testa e guardai il maxischermo giusto in tempo per vedere la palla insaccarsi a mezza altezza nella rete della porta italiana.

    Tutti cominciarono a gridare fuorigioco, arbitro di merda, è una ladrata, non è giusto, calimero coglione... io, in fondo al locale, con lo sguardo verso il basso, stringevo i pugni sotto il tavolo con Jo e Zen che mi davano gomitate senza farsi notare. Stavo piegato verso il pavimento cercando di non sorridere. Non alzai lo sguardo nemmeno per vedere il replay del gol.

    L’Italia stava per perdere e io stavo per vincere seicentomila euro.

    Potevo licenziarmi, scappare in qualche paradiso tropicale e iniziare a godermi la vita.

    Ancora tre quarti d’ora e il destino finalmente mi sorriderà, pensavo in quei momenti.

    Y – La profondità

    ––––––––

    Giovanni, o semplicemente Jo, come lo chiamava Luigi, aveva passato gli anni dell’università ricurvo sui libri.

    Neanche il tempo di festeggiare con gli amici che si ritrovò, a soli due giorni dalla laurea, seduto a una scrivania qualunque, in un'azienda qualunque, pronto a cominciare la vita che aveva sempre sognato.

    Gli capitò un lavoro di basso profilo, di livello appena mediocre a sentir lui. Eppure Giovanni andava dicendo alla madre che sapeva quel che faceva. In pochi mesi lo avrebbero shiftato, proprio così aveva detto, in un posto più adatto al suo indiscusso potenziale. E se anche qualcosa andava storto, non importava, era giovane e intelligente, avrebbe facilmente cambiato azienda.

    Non aveva dubbi: pochi anni e sarebbe entrato nella dirigenza. In fondo, mica voleva diventare presidente, aspirava semplicemente a una posizione di rilievo, tutto qua. Era arrivato da una porta laterale per la quale non era richiesta una specializzazione post-diploma, figuriamoci una laurea a pieni voti come la mia!, aveva detto alla madre. Ma proprio perché partiva dal basso, la sua cavalcata verso il successo sarebbe stata ancor più esaltante. A breve i suoi superiori gli avrebbero domandato che ci faceva laggiù in mezzo al tanfo degli sfigati, come lui stesso li chiamava. Lui, ammiccando, avrebbe risposto qualcosa del tipo Tutto nasce dal basso, signori! A quel punto lo avrebbero pregato di salire al piano che gli spettava di diritto, quello dei laureati, il piano dei futuri dirigenti. Una volta al fianco dei propri simili, si fa per dire, si sarebbe fatto strada rapidamente grazie alle doti relazionali e alla spiccata naturalezza con la quale capiva le cose sempre prima degli altri.

    Nella testa di Giovanni tutto filava nel migliore dei modi. La giovinezza che aveva nel cuore gli faceva vedere solo rose e fiori. Già si vedeva, di lì a due mesi, prendere l'ascensore per salire dal quarto al sesto livello. E, una volta al sesto, nulla gli vietava di raggiungere, entro l’anno, il famoso settimo livello: orario flessibile, paga doppia, mansioni esclusivamente gestionali, viaggi d’affari, cene di lusso, raffinati corsi d’aggiornamento... Solo lassù, al settimo, avrebbe respirato un'aria pura e si sarebbe rilassato per sorridere finalmente alla vita.

    Aveva tenuto duro per venticinque anni: che gli costava resistere ancora un anno, o al massimo due?

    Ebbene sì, tanto breve immaginava la distanza dall’agognato livello dirigenziale, il nostro caro e ingenuo Giovanni.

    ––––––––

    x

    A quel tempo avevo trent'anni, una ragazza e un affitto da pagare. Era inverno. Un novembre grigio come tutti quelli passati a Trento. Mi ero trasferito lì dopo aver trascorso i migliori anni in provincia, a Vigolo, circondato dalle montagne. La laurea aveva rotto il mio idillio alpino, facendomi capitolare in città.

    Lei doveva ancora rientrare dal lavoro. La casa a quell'ora era strana. Ed era strano per me essere lì solo di mercoledì pomeriggio, mentre tutto il mondo, fuori, lavorava. (Ricordo di aver pensato, proprio in quel preciso istante, che meritavo almeno un paio di giorni al mese di malattia: era un mio diritto: in fondo, nell'animo, stavo male davvero.)

    Ero seduto alla scrivania. L'appartamento era buio. Dalla finestra entrava una luce sbiadita. Osservavo la gente correre di qua e di là, le auto sbuffare in coda ai semafori: tutti intenti a inseguire un significato che non c'era: un inutile affaccendarsi senza tregua nella mediocrità di un mondo sempre più grigio, dove anche il sogno più bello e colorato svaniva nel nulla, senza nemmeno dire addio.

    Il mio sogno è vivere senza lavorare.

    Di lì a sette mesi iniziavano i mondiali. Non ero un fanatico del calcio, anzi, avevo sempre preferito un buon libro a una partita in televisione. Era tutta la vita post-lauream che mi sbattevo di qua e di là per le vie di Trento sperando di trovare un lavoro degno di tale nome. Ero stomacato da quella routine senza futuro.

    Stomacato e incazzato.

    Ecco com'ero a quel tempo.

    Se c’è anche solo una possibilità di cambiare le cose, di certo non me la faccio scappare dicevo a Zen ogni volta che andavo a trovarlo.

    Avevo un obbiettivo: vincere seicentomila euro: un miliardo di vecchie lire – antica moneta in uso a quell'epoca – era una bella somma per uno che faticava ad arrivare alla fine del mese.

    Presi un foglio da terra chiedendomi come ci fosse finito. Le piastrelle del pavimento erano gelide e coperte da successivi strati di polvere. Mi risollevai a fatica e cercai una penna che ancora funzionasse.

    Da buon ingegnere fallito provai a buttar giù un paio di conti – amo far di calcolo, come diceva sempre Giovanni ai tempi dell'università. Dunque, vediamo... seicentomila (euro) diviso dodici (mesi)... fanno cinquantamila (euro/anno)... cinquantamila (euro/anno) diviso mille (euro) – sperando di non perdere almeno il beneficio di incassare mille euro al mese – fa cinquanta (anni). Traduco: se avessi continuato a lavorare con quel ritmo senza nessun tipo di spesa – quindi esclusi cibo, vestiti, cure mediche e, soprattutto, affitto – avrei  guadagnato la stessa cifra che mi prefiguravo di vincere, cioè seicentomila euro, in cinquant'anni. Non potendo vivere di sola aria provai a considerare anche le spese di base. Queste, per un gran risparmiatore come il sottoscritto, ammontavano – salvo imprevisti tipo figli o gravi malattie – a circa settecento euro al mese. Ora, ipotizzando che la vita media sia di circa settantacinque anni, sarei riuscito ad accumulare quei fottuti soldini novant'anni dopo la mia morte.

    È matematico, quindi inconfutabile.

    Ma allora perché aspettare una morte certa quando il mio unico desiderio era avere seicentomila euro in quel preciso istante?

    Per questo, sei mesi dopo prosciugai il mio conto in banca e puntai tutto.

    Avevo un piano: licenziarmi e fare il giro del mondo cercando un posto dove vivere.

    Y

    Tutti in paese sapevano della triste storia di Giovanni. Tutti eccetto lui. E nessuno – nemmeno Luigi e Zeno che lo conoscevano da una vita – osava rivelargli la verità.

    La sua storia inizia con un'alba bianca nella notte nera. L’unico punto di riferimento per trovare una strada sono le ciminiere che feriscono l’orizzonte e sputano

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