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A/R Andata e Ritorno
A/R Andata e Ritorno
A/R Andata e Ritorno
E-book284 pagine4 ore

A/R Andata e Ritorno

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Info su questo ebook

“Andata e ritorno è un romanzo di formazione, un diario intimo, una confessione.
È la storia di Simone Brendolan, un ragazzo cresciuto in una provincia del nord.

È la storia di un riscatto sociale cercato inconsapevolmente e mica tanto ottenuto.

È la storia di quanto sia meravigliosa e piena di contraddizioni la vita.

È una storia scritta al presente.

È una storia in prima persona.

È una storia fatta di appunti, microstorie, note, i primi ricordi, le prime vacanze da solo, la famiglia, le ragazze, gli amici, la scuola, l’arrivo in città. Simone va dentro la vita, non perde tempo a guardarsi allo specchio. Qualche volta ci riesce, qualche volta fallisce. Come la vita. una storia che affiora di conseguenza.”
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2014
ISBN9786050306842
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    Anteprima del libro

    A/R Andata e Ritorno - Mauro Pescio

    Ringraziamenti

    A/R Andata e Ritorno

    di Mauro Pescio

    L’orrore dei fatti!

    Tutti i luoghi, nomi, personaggi, situazioni, presenti in questo romanzo, sono immaginari. Del tutto immaginari! Nessun rapporto con la realtà! Dunque  non altro che una Féerie... e poi ancora!...per un'altra volta!

    Louis-Ferdinand Céline 

    Prologo.

    Non troppo alta, capelli dal castano al rosso, occhi verdi e una erre molle come una gomma da masticare troppo grossa, di quelle che i bambini si mettono in bocca per fare il record.

    Carlotta.

    La casa è vuota, io e Carlotta facciamo colazione. Insieme a noi anche il Pubico e Eva, la coinquilina di Carlotta. Studentessa di economia Eva, di belle arti Carlotta.

    Io e il Pubico niente del genere, cani sciolti, lupi spelacchiati di provincia.

    Io e il Pubico siamo in quella casa, a fare quella colazione con quelle due perché siamo a Torino. Abbiamo chiesto a Carlotta, e alla sua amica di ospitarci per quella notte.

    Nelle nostre furibonde giornate, tirate su a sigarette che non fanno male, qualche bicchiere e qualche altro ancora, e quando finisce il vino, facciamo finta di aver bisogno di un filo di ferro, che quello serve sempre, scusa buona per infilarsi dentro qualche cantina a rubare il vino nero.

    Nelle nostre giornate furibonde abbiamo preso una decisione:

    All’ultimo sangue, e affanculo anche la nostra amicizia, partiamo insieme, ci facciamo invitare dalla Carlotta tutti e due, lo stesso giorno, e quella sera ci proviamo tutti e due, o dentro o fuori, gara secca.

    Partiamo con le stesse possibilità, nessuno ha un vantaggio.

    Io da canaglia, al pomeriggio, per avere qualche chance in più, vado a tagliarmi i capelli. Per essere più bello. Sono sicuro che anche il Pubico si giocherà al meglio le sue carte.

    Sono anni che la vogliamo, Carlotta, ci siamo passati tutti. È la prima diversa da noi. Da quelle che conosciamo da quando eravamo all’asilo. È la prima di città. il primo a innamorarsi è stato il Fonta, poi è toccato al Polenta e io e il Pubico a giocare d’attesa, ad aspettare il nostro momento, senza risparmiare colpi. Il Pubico spinge con parole difficili e citazioni erudite, io con la mia pretesa sensualità da vite disperate, l’artista del gruppo. Mi piace sembrare un po’ più strano degli altri.

    Mai innamorati da perderci la testa, ma con un pensiero fisso a lei, sempre.

    E oggi io e te, Matteo Pubi, sbaragliati gli altri due, abbiamo deciso di giocarcela alla morte, chi perde la perderà per sempre.

    Però ha lottato e la vittoria dell’altro sarà anche una propria vittoria.

    La serata passa senza strafare, ci dobbiamo mantenere in forma per dopo. Ristorante cinese, che a vent’anni si sopporta bene e costa poco, e poi a casa. È da tanto che non ci vediamo, abbiamo tanto da raccontarci. Eva non la conosciamo ma presto ci lascia campo libero.

    Arriva un suo amico.

    Facciamo appena in tempo a sentire Piacere Aldo, che Eva se lo porta in camera. Non si sente niente, ma i commenti da parte nostra si sprecano.

    L’atmosfera si scalda. Di calore riflesso, che però scalda lo stesso.

    Carlotta sbriciola un tocco di fumo. La lasciamo fumare da sola. Ci siamo presentati con una bottiglia di rosso aperta nello zaino, non è uno spino rifiutato che ci fa perdere punti.

    Ma lo spino è benzina sul fuoco. Eva non si può disturbare. Io, il Pubico e Carlotta dormiremo insieme su un materasso per terra in cucina.

    Lo propone Carlotta.

    Al momento non mostra di accorgersi del nostro proposito.

    Il terreno di gioco è perfetto. Tutto lo stadio fa il tifo per noi due, il trofeo è ai lati del campo, a portata di mano.

    Il Pubico cerca di farmi capire che non riesce a reggere la tensione, che lui gioca una partita con una classe che non può sostenere la competizione.

    Gli lancio delle occhiate che dicono solo una cosa:avanti.

    Avanti Ubi, walk on the wild side, domani ci sveglieremo con la coda di paglia, avremo poca voglia di guardarci in faccia ed è il motivo per cui siamo in questa stanza.

    Il Pubico abbassa lo sguardo ma non si tira indietro.

    Finalmente è abbastanza tardi per andare a dormire.

    Prendiamo i materassi, le lenzuola, la coperta, ci laviamo i denti e ci fumiamo sopra sprezzanti, e decidiamo le posizioni.

    Io sto a sinistra merda, non è la posizione più avvantaggiata. Carlotta è in centro, il Pubico a destra.

    Si ridacchia, ci si studia, nessuno pensa davvero adesso dormiamo, anche se il Pubico lo spera.

    Resta una sola luce di un abatjour non troppo vicina, è perfetto.

    La testa mi pulsa per le troppe sigarette, ho le narici piene dell’odore della femmina di fianco a me che sa anche lei di troppe sigarette e di caldo di donna.

    Mi viene duro.

    Il Pubico non lo vedo più, sono affamato di vittoria, non vedo più il mio più grande amico, il mio fratello. Adesso è solo un ostacolo insignificante da superare, senza voltarmi indietro. Tutto lo stadio ripete Brendo-Brendo, Pubi-Pubi. Gli spalti si odiano, sbavano, si lanciano i motorini.

    Ma tutto lo stadio d’improvviso si volta di spalle, come se il cielo venisse oscurato da una super navicella spaziale in un momento.

    La porta in fondo ai piedi del Pubico si apre.

    La porta in fondo ai piedi del Pubico è la porta della camera di Eva.

    Si apre e esce Aldo faccia da sfigato, ci guarda con quella sua faccia da sfigato e sembra che pensi: sfigati voi che siete lì in due a giocarvi la vostra amicizia per quella lì, quando io di là…

    Subito dopo esce Eva, che non mostra niente.

    È una bella ragazza del sud Eva, col corpo bianco i capelli neri e le tettone.

    Niente a che vedere coll’occhio verde e il capello rossiccio della Carlotta, con la sua raffinatezza, ma è una bella ragazza Eva.

    Aldo faccia da sfigato, dopo averci guardato in quel modo, attraversa la cucina fino a raggiungere la porta blindata sopra le nostre teste, saluta, e se ne va.

    Nel ricambiare il saluto, incrocio lo sguardo di Eva.

    Sono curioso, voglio vedere dentro il suo sguardo se ha soddisfatto le speranze di faccia da sfigato, o se si è solo fatta passare gli appunti di una qualche economia con un aggettivo dietro. Sono anche curioso di sapere se ha capito cosa sto facendo, su quel materasso in quella cucina. Se lei lo capisce, magari vuol dire che ci riesco.

    Dal suo sguardo non capisco niente. Ma Eva, mentre mi guarda, parla. Parla e dice posso mettermi qui con voi?

    Noi tre siamo sdraiati al semibuio, e c’è questa ragazza del sud in pigiama con le tettone, coi piedi nudi a pochi centimetri dalla testa del Pubico che ci sta chiedendo posso mettermi qui con voi?.

    Il più lesto è proprio il Pubico. Volta verso di lei i suoi occhi da rana, si stringe verso la Carlotta e fa spazio a Eva di fianco a lui.

    È fatta.

    Vai Simone è il momento buono. Sfrutta l’attimo. Non perdere l’attimo. È questo l’attimo.

    Affondo sulla Carlotta, con una scusa le salto sopra. sembro un orsacchiotto, un peluches. No sono un bel ragazzo, a lei non fa schifo. Facciamo la lotta. Lei mi attacca. Ce l’ho duro. Mi struscio per sentirle le tette e farglielo sentire. Anche lei ha i capezzoli duri, glieli ho sentiti, non potrebbe essere diversamente penso. Ci stringiamo, da amici che hanno passato il confine, che si trovano su un materasso sul pavimento di una cucina di Torino uno sopra l’altro.

    Ma quale amicizia, io non sono mai stato davvero suo amico, ho sempre e solo voluto questo da lei.

    Provo a baciarla, lei si ritrae ma ormai ci siamo. Ho vinto. Solo io sono arrivato fino a quel punto, solo io. Anche se lei non vorrà andare avanti, ed è impossibile, io sono arrivato fino a lì, non ho mollato come il Pubico.

    E il Pubico?

    Democristiano. Moralista.

    Lo conosco troppo bene.

    Tanto è solo perché hai perso stronzo, solo perché la Carlotta è qui sotto di me e io glielo sto facendo sentire e tu no.

    Mi fa venire un nervoso. Lui, anche senza dire niente, anche solo in un modo di voltarsi, di respirare, di muovere la coperta facendo finta di niente, lo sento il suo disgusto, la sua riprovazione, il suo cazzo di fastidio piccolo borghese.

    Invece non sento un cazzo di niente.

    Alzo la testa.

    Adesso uso il corpo orizzontale della Carlotta come un sacco da trincea. Butto lo sguardo oltre.

    La mia battaglia furibonda con la Carlotta non è niente rispetto ala guerra che si sta consumando oltre la barricata.

    Eva, chiuso lo sfigato fuori dalla porta blindata, ha detto posso mettermi qui con voi?, il Pubico si è stretto, le ha fatto spazio e ha dirottato le sue bocche da fuoco verso il nuovo obiettivo. Democristiano moralista un cazzo.

    Quello stronzo del mio migliore amico è lì sopra e sotto a Eva, se la sta ripassando, la marca stretta e lei lo lascia fare.

    E adesso stiamo facendo colazione tutti insieme, la nostra serata è passata, le occhiaie sono sotto gli occhi di tutti e quattro e le nostre pelli sono pallide per la nottata in bianco. Dalla finestra grande entra una luce fredda è bianca, diafana, come il nostro pallore.

    Cerchiamo di non darlo troppo a vedere, ma sia io che il Pubico siamo visibilmente soddisfatti dei nostri risultati. Ma siamo ancora in compagnia, ce li confesseremo tra poco, quando usciremo da questa casa.

    Salutiamo e usciamo.

    Come due amici che non si vedono da tempo, appena fuori, in una luce diafana, cerchiamo un bar. Abbiamo un sacco di cose da dirci.

    Fumiamo.

    -A un certo punto ero lì tutto addosso e mi ero dimenticato che c’eri anche tu, allora mi copro col corpo della Carlotta, che mica volevo che lei ci ripensasse, con tutta la fatica che avevo fatto per arrivare a quel punto, volevo mantenere un contatto fisico con lei, allora la abbraccio dalle ginocchia alla testa, metto gli occhi tra le tette e l’ombelico per vedere dove cazzo sei finito e dalla tua parte vedo quella bestia sotto di te.

    - Non hai idea Brendo, non hai idea! A me all’inizio mi faceva un po’ schifo pensare che c’era appena stato lo sfigato.

    - Ma sei scemo, che te ne frega. E poi ancora meglio. Hai visto come ci ha guardato mentre andava via?

    - Infatti ho proprio pensato a quello, allora mi è venuto duro e gliel’ho appena infilato ma non hai idea Simone non hai idea. Un rubinetto, hai presente un rubinetto, che lo apri e esce l’acqua? Un rubinetto. Appena ho messo le mani nel ciuffo nero, si è aperto un rubinetto. Un rubinetto. Io sono diventato matto.

    Mi sale l’amaro in bocca. Abbiamo fantasticato per anni sul corpo della Carlotta, su come sarebbe stata appena si fosse sciolta un po’ e adesso che io potevo parlarne, che con fatica e sudore ero arrivato, unico tra di noi, a toccarle quel pelo biondo fulvo castano, io che mi sentivo ancora addosso il suo odore, mi toccava stare zitto perché Il rubinetto aveva preso il sopravvento.

    Io non mostro particolare curiosità, il Pubico si accorge, si impermalisce e non mi chiede niente della Carlotta.

    Camminiamo in silenzio fino alla stazione. Il paesaggio si rianima intorno. Il lavoro emerge dall’ombra della notte. Io e il Pubico facciamo contrasto con quella mattina. I nostri volti pallidi, il nostro silenzio appartiene ancora alla notte.

    Arrivati alla stazione, spegniamo le nostre sigarette, e torniamo in provincia.

    Ritorno a casa

    2010

    Tutte le volte che vedo la Mole, mi viene in mente quella finestra di quell’appartamento della Carlotta e il profilo della mole nella luce diafana dell’alba di quel giorno. Adesso sono in treno e vedo la mole su una rivista gratuita di quelle delle ferrovie. Sono passati quasi 20 anni.

    Guardo fuori dal finestrino. Non è cambiato niente, i campi sempre uguali, la nebbia sempre uguale e sto treno con la stessa puzza di quando lo prendevo tutti i giorni.

    Sto tornando a casa. Anzi, la mia casa adesso è in una grande città. Però qua è casa mia. Dove sono cresciuto.

    La littorina sbuffa. Il viaggio è breve. Dura troppo poco. Ho passato tanti anni su questo treno. La mole sulla rivista, il treno, Carlotta. La Carlotta l’ho conosciuta su questo treno, quando andavo a scuola. Allora avevamo a disposizione, io, il Pubico, il Fontina e il Polenta, un’andata e un ritorno, sei giorni la settimana per lanciare occhiate alle ragazze. Dopo il primo anno il Fontina riusciva almeno a dire È libero?, indicando un sedile, a qualcuna.

    Mai stato facile. Specialmente i primi anni.

    Sei e mezza sveglia, caffelatte, bicicletta fino alla stazione. Alle sette treno. Un’occhiata veloce alle ragazze degli altri paesi e ci infiliamo nel bagagliaio della littorina.

    Una volta arrivati, uno sopra l’altro, ci buttiamo giù una bella sigaretta.

    Dopo la sigaretta l’esito è scontato.

    Caffelatte, corsa in bicicletta nel gelo delle sette del mattino piemontese, e la sigaretta nel caldo del treno erano il training ideale per vincere la gara di scoregge del bagagliaio della littorina.

    Con queste premesse l’approccio alle ragazze risultava difficile. Col passare del tempo lo sguardo veloce diventava un -Che ore sono? - poi -Scusa hai una sigaretta?- poi un –Ciao- tutti i giorni, poi un - Posso sedermi qui?-. Al -Mi tieni il posto per domani?- era fatta.

    La Carlotta e l’Irene, salivano in una stazione prima della nostra, quando il treno era ancora vuoto e sapere che appena svegli, c’erano due ragazze di un altro paese che ci tenevano il posto, bastava a farci credere di essere dei fighi.

    Adesso sono da solo sullo stesso treno, sono passati quasi vent’anni, e mi sento figo come allora.

    Rischio di perdere la stazione.

    Faccio riaprire le porte al controllore che stava facendo ripartire la littorina.

    - Grazie - gli urlo mentre scendo di corsa.

    Lui mi risponde ridendo.

    Un controllore col senso dell’umorismo - penso – e mi metto a ridere da solo.

    Sono arrivato.

    A pensarci bene, tutta la vita è un’inconsapevole ricerca a tornare, sforzi che vanno contro tutto, ostinatamente indirizzati da una voglia di tornare. E io sono tornato a casa.

    La stazione è sempre uguale. Mi è sempre piaciuta questa stazione. Sempre uguale. Solo che non ho la bici al mio solito posto. Vado a casa a piedi.

    Sta cominciando così. Io non me l’aspettavo ma arrivato alla stazione, col sorriso che il controllore col senso dell’umorismo mi aveva tirato fuori, sono sceso dal treno. È tutto uguale. Sono io che sono diverso. Mentre mi avvio a piedi verso casa, guardo la luce fredda e umida dei lampioni, sento il rumore dei miei passi. È sera ma sembra notte. Non c’è in giro nessuno. Guardo il vapore che esce a ogni respiro dalla bocca. Sono cambiato perché quella luce, quell’umido, quel silenzio, quel vapore dalla bocca sono una sorpresa. Una cosa diversa dal solito.

    Arrivo a casa.

    Effrazioni

    1985

    Di fronte alla nostra casa c’è un muro di mattoni rossi. Le sere d’estate ci gioco a tennis contro quel muro.

    Finito il muro, c’è una siepe e io so, quando la pallina va dall’altra parte, io so dove c’è un buco, un buco abbastanza grande che ci passo.

    Nei primi anni ’80 abbiamo estati intere da passare nel nostro piccolo paese e ci sono pericoli che ci aspettano e che noi cerchiamo come assetati nel deserto.

    Oltre la siepe, c’è la casa disabitata.

    -Quello è il posto del Ceriani, del Cerianino che sapete quante morose che ha?

    -Per forza con tutti quei soldi.

    L’Angelo Ceriani, lo sappiamo tutti, ha un sacco di donne. Scende da quelle macchine lunghe da qui a là e, anche se piccolo, sempre con delle donne enormi. Gli piacciono così.

    Tanti ne aveva arricchiti l’Angelino. Figlio di un falegname di nome Giuseppe, aveva capito che la pialla e lo scalpello non facevano per lui, ma che in qualche modo avrebbe fatto fruttare quella sapienza del padre. Il Giuseppe era uno di quei falegnami raffinati che ormai un secolo fa’ sapevano costruire i mobili. L’Ikea era roba da extraterrestri. Allora tutti avevano i mobili fatti su misura, in legno massiccio. Tutti avevano qualche pianta. Quando i vecchi decidevano, si doveva tirare giù. Si facevano assi da far maturare sui fienili per quando sarebbe stato il momento. Il momento voleva dire sposarsi. Si faceva così. Quando il momento veniva, si tiravano giù le assi dal fienile e col carretto si portavano dal falegname per la credenza o la camera da letto o il tavolo. Credenza, camera da letto, tavolo. Si faceva così.

    L’Angelino aveva intuito che le cose non sarebbero andate così ancora per molto. I guadagni che aumentano, la diffusione delle materie plastiche, uno stile di vita più dinamico si sarebbe presto diffuso. Il legno massello sarebbe stato sostituito dal truciolato col piano di formica e la storia racchiusa nei secoli di quelle assi sui fienili sarebbe stata presto considerata un inutile peso. Investì quella che un giorno sarebbe stata la sua eredità in nuove apparecchiature da falegname e obbligò la sorella a fare altrettanto e la bottega buia e profumata di legno tagliato, piena di segatura, venne spazzata via per fare posto al primo mobilificio della zona. Roba moderna per gente antica. Il miraggio di essere al passo coi tempi funzionò alla grande. Presto la bottega divenne un salone, e poi due e poi tre. Il successo. I soldi. Divenne un imperatore nel nostro piccolo mondo antico. Da guardare con invidia quando usciva di casa con la jaguar o quando si fece montare un ascensore sulla facciata della casa rurale.

    Lui si era abituato a quell’altezza, o non si era nemmeno posto il problema. In quegli anni da quelle parti è successo a tutti.

    Le assi sul cassero? Buttale via, o meglio ancora vendile, e coi soldi ti compri il montone rovesciato. I casseri svuotati in quegli anni sono direttamente proporzionali alle vendite dei montoni rovesciati. Ma l’Angelino se ne fregava del montone. Lui puntava alla Porsche.

    E adesso io sto per violare la sua casa abbandonata, entriamo e gli rubiamo dieci minuti di ricchezza, apriamo i cassetti, sono rimasti pieni delle sue cose in tutti questi anni, spiamo la sua vita, il suo passato.

    Allora entriamo?

    Il Fonta all’inizio non vuole venire. Suo padre è uno che ha goduto molto del riflesso dell’imperatore Ceriani. È diventato il suo geometra personale, ha curato il progetto e la realizzazione di tutti i suoi saloni del mobile, e grazie all’Angelino, un geometra che sarebbe finito a lavorare in qualche catasto, si sente alla pari coi grandi architetti del ventesimo secolo. E soprattutto ha allungato il suo conto in banca. Quello che mi piace del Fonta però è che, nonostante la riconoscenza, nutre dentro di sé anche il seme della ribellione e non è difficile convincerlo.

    Il Polenta non aspetta altro. Io ho lanciato l’idea ma subito dopo avrei preferito che fosse bocciata o rimandata, invece questa volta ci siamo. Siamo pronti ad andare fino in fondo.

    - Sul lato della casa c’è una scala stretta che scende. Lì sotto c’è una serranda come quella delle botteghe. La solleviamo quel tanto che serve e ci infiliamo sotto. A quel punto siamo in cantina. Dalla cantina poi saliamo e siamo in casa.

    Il ritrovo è a casa mia, è proprio lì di fronte. La giornata è perfetta, piove e fa caldo. A quest’ora non c’è in giro nessuno. Perfetto.

    Io per distinguermi ho trovato anche un passamontagna a casa e non è detto che non me lo metta. Braghette cortissime, tipo calciatore nere, canottiera colorata e ciabatte da mare, per me, camiciolina, pantaloncino al ginocchio con passanti per la cintura el charro e scarpe da ginnastica per Il Fonta e maglietta bianca e jeans tagliati corti e ciabatte per il Polenta.

    Entrare è più semplice di quello che pensiamo.

    Dentro c’è odore di chiuso, il sole filtra attraverso le stecche delle saracinesche. La moquette è impregnata di odore di Muratti Ambassador filtro bianco che fuma il Cerianino. Ne troviamo un pacchetto e ci sverginiamo al fumo tutti e tre.

    Per ricordo il Fonta non vuole niente:

    - Se poi l’Angelo un giorno mi vede a casa con qualcosa che ho preso qui, mio papà mi ammazza.

    Il Polenta, che invece abita con la nonna che comincia a essere sclerotica e non ha genitori a cui rendere conto, si prende un rennino fuori moda per gli standard da paninaro della nostra provincia. Io ho la stessa paura del Fontina. Non prendo niente. Ci aspettavamo di più. Torniamo a casa mia. Davanti allo specchio, ci proviamo il rennino che si è preso il Polenta. È fuori moda e enorme. Davanti allo specchio faccio finta di estrarre la pistola dalla tasca interna. Infilo la mano e estraggo. Infilo e estraggo. Mi alleno tutti i giorni davanti allo specchio, sono velocissimo. Le mie dita inciampano in qualcosa. Nella tasca c’è qualcosa. La pistola si stringe e impugna un cartoncino. Estraggo. Cartoncino verde. È un documento.

    È una carta d’identità grigioverde e

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