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Il Paese in riva al fiume quasi mai minaccioso
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Il Paese in riva al fiume quasi mai minaccioso
E-book845 pagine11 ore

Il Paese in riva al fiume quasi mai minaccioso

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Info su questo ebook

Un uomo è alla ricerca delle sue radici. Bugie ed ipocrisie lo accompagnano e lo ostacolano in un percorso di oltre sessant’anni di vita.Ma chi sarà la donna,fra le tante conosciute e forse amate,che riuscirà a condurlo verso la verità?

Un viaggio in paesei immersi nella pianura,fra fiumi e lagune lombardo-venete. Un finale a sorpresa là dove era effettivamente iniziato: Le placide acque del fiume quasi mai minaccioso.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2014
ISBN9786050307979
Il Paese in riva al fiume quasi mai minaccioso

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    Anteprima del libro

    Il Paese in riva al fiume quasi mai minaccioso - Paolo Antonio Zuzzi

    Note

    Prologo

    Ricordare per dimenticare,forse è questo il necessario paradosso, forse!

    Ricordare il passato per dimenticare il presente è anche un paradosso!

    Ma riuscire a dimenticare tutto ciò che si è sbagliato, ovviamente giudicandolo col senno del poi, che cos’è se non un altro paradosso?

    Pure il problema che non se ne va,anch’esso è un paradosso?

    Ricordare per dimenticare?Ricordare il passato?Ricordare il problema?.

    -Ma quale paradosso!-Impreca l’uomo sottovoce.Più verso se stesso:forse per dare maggior consistenza alla definizione.

    L’uomo osserva la propria immagine sulla parete di vetro che ha di fronte a sé.Le pupille sono dilatate.Un diffuso calore gli sale alle tempie:la pressione arteriosa è aumentata.Dai visceri una grande quantità di sangue sta affluendo verso il cervello e constata il ventre che si torce.Tutta colpa del sistema limbicouna delle parti più antiche dei cervello.E’ li che inizia a funzionare il circuito primario della paura e dell’angoscia.Dalla pituitaria, che pende in fondo all'ipotalamo, parte una scarica di corticotropina.

    Di lì,a cascata,inizia la secrezione dei neurotrasmettitori. Alcune sinapsi sono entrate in azione e operano attraverso la mediazione della noradrenalina.

    Il circuíto primario ha analizzato sommariamente la situazione e l'ha confrontata con gli innatismi: paura del buio, paura degli animali,paura di prendere decisioni di qualsiasi natura esse siano,paura di avere paura.

    Paura della morte.Anche.

    Non in questo caso: l’unica paura per lui è quella di provare troppo dolore,almeno sopra la soglia-abbastanza oltre la media,invero!-a lui consueta,prima di avere la consapevolezza della morte.

    Dal confronto è emerso che si ha ragione ad aver paura, ma non una ragione razionale, piuttosto una ragione primitiva: il circuito primario ha accumulato in sé le paure delle origini e reagisce agli stimoli esterni esattamente come farebbe se si fosse ai tempi di uno qualunque dei primi homo sapiens.

    L’uomo è un uomo solo.Da tempo.

    Il suo nome è Clodoveo:un nome peggiore di questo non gli poteva essere destinato!Egli lo ha pensato migliaia di volte,senza farsene una ragione.O per meglio dire, senza riuscire a spiegarsi perché a sua madre fosse venuto in mente di accollarglielo.

    Clodoveo si osserva le mani: gli piacciono,gli sono sempre piaciute!Avrebbero potuto essere utilizzate meglio,si accusa in silenzio,disegnando arabeschi nell’aria a dita aperte.Ora le vede planare là verso il punto finale: un tavolo,una pila ordinata di fogli in parte bianchi.Sono pochi quelli già riempiti della sua scrittura,molto diversa a seconda degli stati d’animo in cui ha tradotto il suo pensiero.

    E’ proprio qui fra questi fogli,ormai l’ha capito, c’è la soluzione del problema: la ricerca di se stesso attraverso l’esperienza dei suoi rapporti con l’altra parte del cielo.

    E’ un giorno di gennaio,quasi alla fine.Una bella giornata,una delle tante di un inverno molto secco.L’atmosfera dell’ufficio, diversamente dal solito,è tranquilla. Una riunione con i dirigenti del commerciale è saltata per un improvviso malessere del capo vendite.Lontano,il rumore della pressa per la stampa e tranciatura della lamiera, accompagna i pensieri di Clodoveo Cesana con un ritmico pulsare: profondo e cupo.Il sottile raggio della lampada Tizio puntualizza le sue mani conserte mentre si abbandona pensieroso sulla poltrona direzionale.

    Cominciare a ricordare per sfuggire o per sopravvivere attraverso lo specchio di sé rimandatogli dalla parola scritta,Clodoveo s’arrovella incupito,non é mai facilissimo: anche perché i ricordi nella mente sono chiari proprio nella mente stessa.Ma la loro tra­duzione sulla realtà bianca e intonsa di un foglio di carta-lo prova quei pochi già vergati in assoluta libertà e senza controllo- é un processo non semplice.Aldilà della voglia,fra l’altro,di arrivare subito ai punti ritenuti più interessanti del raccontare,che costringono ad un ulteriore sforzo di disciplina del viaggio pensiero-parola scritta.

    Il pomeriggio si sta addentrando nella sera.Qualche passero, invogliato dagli ultimi barbagli di luce solare, saltabecca sul prato di un verde appassito e assetato di pioggia.

    Clodoveo si alza dalla poltrona,saluta e congeda con un cenno la segretaria,sceglie di scendere a piedi le tre rampe di scale fino al cortile dove sale sull’auto e si dirige verso casa.Sfrutta con l’abituale perizia la ripresa della vettura-l’ultimo modello a sei cilindri della gloriosa casa del Biscione- per districarsi dal traffico del rientro serale.Dirige sicuro verso la città e in poco meno di venti minuti si ritrova sulla rampa d’ingresso dell’autorimessa sotto casa.

    La sua faccia di uomo poco più che quarantenne non esprime allegria,ma neanche tristezza:è solamente fissa su quello che da lungo tempo lui chiama il problema.L’abitudine a rimuginarci gli ha creato un’espressione fra l’amaro e il ras­segnato.

    Parcheggiata l’auto,salutato il guardiano,mandato a quel paese il cane sentinella che abbaia ad ogni più piccolo movimento, rialzate le spalle,quasi a sfidare un ostacolo improvviso, s’incammina verso l’appartamento.Un due locali arredato,in un edificio dei primi anni sessanta,al terzo piano.Entra,appoggia chiavi, giornale, cappotto e inizia a prepararsi la cena.Da tempo vive solo,a causa del pro­blema,ma ormai non vi fa più caso.Anche se a volte si sorprende a pensare che la sua attuale condizione se l’é voluta lui.Quindi é inutile interstardirsi a recriminare: sulle uova che non sembrano molto fresche o sulla birra che è terminata o sulla pasta che impiega troppo tempo a cuocere!Anche se, sorridendo, pensa:-che diavolo me ne importa?Tanto di tempo ne ho quanto ne voglio!-Tempo vissuto e scandito da una continua altalena di stati d’animo: dalla noia per la stupidità delle piccole cose,all’analisi della tematica esistenziale dell’uomo single,tutto concentrato a fruire della solitudine per cercare di esorcizzarla.

    Fattosi da man­giare,qualcosa fra lo spuntino‑panino e il piatto unico, bevuto il caffè,può infine ini­ziare la serata:televisione accesa,volume molto basso,giusto per compagnia.Accesa la sigaretta,disposte le carte da gioco per il solitario detto napoleone in attesa del telegiornale,egli lascia i pensieri liberi di proporsi.La voglia di trovare nei simboli delle carte un ché di speranza sul futuro più prossimo,lo concentra sui vari semi che via via si appalesano sul tavolo alla prima smazzata. Le carte, Clodoveo,le ha sempre amate fin da quando, bambino, una zia molto sola lo coinvolgeva dopo cena in lunghe partite a scopa nell’attesa del marito medico condotto,fuori casa quasi sempre,per le necessità derivate dalla sua professione.Per questo durante l’ormai lungo periodo del problema,le carte sono diventate più di un gioco-quasi una compagnia-nelle quali egli si è intestardito a cogliere- dai diversi solitari-interpretazioni sul futuro: positive o negative a seconda che ne risolva o meno la combinazione esatta.Nel frattempo la televisione sforna i programmi pre-prime‑time. Inutilmente egli cerca di trovarvi qualcosa di interessante.

    Ascolta distratto le notizie trasmesse dal tigidue: accordo sindacati governo sulla manovra fiscale;congresso pre‑congresso della corrente dorotea della Democrazia Cristiana;cinque carabinieri che si sparano tra loro-ma tre erano rapinatori sotto mentite spoglie-; l’alta moda ha ter­minato le sue sfilate a Parigi;poi il football,con l’Inter che conserva il comando della classi­fica pur pareggiando con la magnifica rivelazione Atalanta.E infine i campionati del mondo di sci a Vail,Colorado,USA.A seguire, il film del lunedì.

    "Anzi no! c’é lo sceneggiato su raiuno.Che barba!-sbuffa-Meglio preferire qualche altro programma sulle televisioni commerciali.Poi devo scrivere."mormora tra sé Clodoveo.La serata sembra così del tutto impegnata.

    La notte ha preso il posto della sera.L’ufficio é lontano,la casa, calda, ma non certo di quelle cosiddette signorili,con i mobili appartenuti ad una povera-ma non tanto!- vecchia signora, morta un paio d’anni prima,che riflettono polvere,ma anche un quieto ordine.La televisione alla fine di un vecchio film-commedia, tace.Sul piatto dello stereo adesso gira un disco con l’ouverture del Rienzidi Wagner.

    La mano ripresa e diretta dalla mente comincia a vergare i fogli intonsi con una scrittura più regolare del solito. Perché Clodoveo Cesana è tranquillo.Quasi irride ai suoi rimpianti. Ricordare per fuggire e sopravvivere: esatto!…..e sbattersene i coglioni -finalmente!-di questo cazzo di problema.

    Il caleidoscopio della sua mente si apre in brevi spicchi geometrici con i colori predominanti dell’arancio,del giallo e del blu. E’ il paesaggio dei ricordi ancestrali.L’arancio e il blu del tramonto imminente, assieme al giallo ocra di una macchia estesa di spighe di grano maturo.

    Cap. I°

    E’ l’estate del ’48.

    Un paese di poche migliaia di anime disteso sull’ampia e piatta campagna del basso Polesine,accompagnato verso nord dagli argini che guidano e contengono il grande fiume quasi mai minaccioso,si prepara a raccogliersi,fra le preghiere del vespro, attorno al desco della cena.

    Un bimbo corre con la mano levata a far volteggiare un aquilone. Ha compiuto da poco cinque anni.Biondo castano di capelli,occhi grandi sul celeste grigio, mutevoli,con le pagliuzze d’oro tipiche dei nobili,come gli dice sempre la nonna. Un corpo dall’apparenza gracile,ma sotto sotto irrobustito dall’abitudine dello stare quasi sempre all’aria aperta,magro e dalla pelle tesa.L’aquilone é di carta colorata rossa,con la forma quadra­ta uscita dall’incrocio di due piccole stecche di bambu’,la coda a forma di anelli intrecciati a maglia di catena.Non soffia molto vento,ma é quasi sera e l’aria fredda vortica su quella calda del giorno morente creando dei moti ascensionali che aiutano a far prendere quota al leggero velivolo.

    Il bimbo manovra con accortezza il filo che tiene l’aquilone, rilasciandolo o tendendolo a seconda del suo camminare lungo l’argine del fiume quasi mai minaccioso:é felice e grida la sua gioia al cielo vedendolo volteggiare in ampie spirali .

    Come sei bello!Potessi anch’io volare come te!grida, azzittendosi subito impaurito dalla propria voce che risuona chiaramente nello spazio deserto di altri suoni.All’improvviso anche quella bava di vento se ne va, assorbita dagli ultimi raggi del sole.L’aquilone plana dolcemente verso terra,inutilmente invitato a riprendere quota.

    Cattivo amico‑ sospira il bimbo‑ perché non vuoi tornartene in cielo?Quello é il tuo posto.

    Lo raccoglie da terra,lo avvolge con cura e si incammina verso casa.Corre per un sentiero appena tracciato,giù dall’argine, prendendo poi la via Roma lastricata a irregolari ciottoli di fiume.Saltando fra di essi raggiunge la piazzetta della Salute dove sorge la sua casa.Questa,con la tipica architettura dei tetti rosso-cupo dovuti al colore del coppo, chiude il lato corto dello slargo.

    Mirta, la nonna,di nero vestita per il dolore della perdita del marito e della figlia più giovane,a distanza di neanche tre anni l’uno dall’altra, lo attende sulla porta con un’espressione fra il burbero e il sollevato,apostrofandolo con il diminutivo,per lei consueto,di Clodi al posto del troppo lungo e pomposo Clodoveo.

    Dove sei stato?

    A giocare con l’aquilone.

    Ma Clodi,lo sai che ore sono?

    No!

    Beh! E’ tardi ed é già pronto da mangiare.

    La zia Franca dov’è?chiede il bimbo con un misto di paura nella voce.

    Sta dando da mangiare al gatto.

    ’Ah! E’ tornato finalmente!Meno male.si rallegra sollevato.

    Il gatto in questione è un magnifico soriano,purtroppo castrato dalla zia per impedirgli i suoi normali istinti elargiti con quegli odori sgradevoli che lei mal sopporta.

    Franca è rimasta nubile per motivi che il bimbo non sa spiegarsi,allorché ne subisce gli effetti in scenate quasi quotidiane su argomenti il più delle volte banali.Ed egli ne ha spesso timore,perché non capisce.Le zitelle sono isteriche perché il manico non ce l'hanno ha sentito dire da ragazzi più grandi di lui.Ne ha accolto allora-per sua sicurezza- intuitivamente l'assunto pur non capendo bene che cosa fosse il manico!

    Il gatto soriano nel frattempo,fra le coccole e le moine della zia,addenta con fare sornione i pezzi di carne e contemporaneamente ronfa.

    Clodi sorbisce in silenzio una minestra di brodo e pasta a forma di stellina,attento a non emettere alcun suono nel portarsi alla bocca il cucchiaio: cosa che avrebbe immediatamente suscitato rimbrotti e filippiche sulla sua scarsa educa­zione,da parte della zia.Questa si rivolge alla madre,con un tono di voce come di consueto astioso, essendo questo ormai, il suo abituale approccio.

    Mamma?Svelta, accendi la radio che ascoltiamo lo sceneggiato poliziesco.

    Giusto!C'è il nostro radiogiallo 777 qui polizia.

    Clodi osserva la nonna tutta tesa a cercare sulla gloriosa e imponente radiomarelli la stazione del secondo programma dove trasmettono lo sceneggiato.Si appresta anche lui a godersi la bella voce dell'ispettore che investiga sull'ennesimo delitto.Lo attirano molto i soggetti polizieschi,pur provandone paura dopo, quando sarebbe stato a letto da solo.La nonna,quella sera, lo ha invitato a prepararsi per il bagno.Cosa che non lo riempie certo di felicità,ma che baratta tranquillamente pur di rimanere alzato ad ascoltare la trasmissione.

    Tutto è sempre uno scambio, pensa il bimbo,accingendosi ad entrare nella tinozza piena d'acqua come con i miei compagni di gioco.Io faccio questo se tu mi dài quest'altro.Ma da grande sarà diverso!Io farò quello che voglio!

    Così filosofando cerca di esibire un contegno di indifferenza nei confronti delle brusche mani della nonna che lo grattano con il sapone su tutto il corpo. Il supplizio finisce proprio nel momento culminante dell'avventura poliziesca con l'ovvio trionfo dell'ispettore.

    Non era ancora terminata la sigla di chiusura della trasmissione che la voce secca della zia lo invita a sbrigarsi per ritirarsi a dormire.

    Su!Clodi,é già tardi,e i bimbi a quest'ora devono già essere a letto!

    Va bene ziettacerca di scherzare,immediatamente bloccato dall'occhiata della donna e dallo stirarsi delle sue labbra in un subito! sibilante.

    La nonna lo aiuta a infilarsi il pigiama mormorandogli –stai buono e ubbidisci svelto!-lo accompagna verso le camere del piano superiore. Attraversato un corridoio pervaso da ombre più grandi della poca luce proveniente dai lampadari polverosi,entrano nell’ala notte della casa. Il letto del bimbo,sistemato quasi a ridosso di quello matrimoniale della nonna,è piccolo e coperto da un tessuto a righe rosse un pò sbiadite dal tempo e dai troppi lavaggi. Sull’altro lato per il lungo, è appoggiato ad un mobile libreria con le ante vuote come orbite senza occhi,ma chiuse sugli stipiti da una cortina di tela verde agganciata con brocche di ferro brunito.

    La nonna aspetta che Clodi si infili sotto le len­zuola,poi si china a sfiorargli con un bacio la fronte,dicendogli un -buonanotte bambi­no mio-che la dice lunga sull'enorme affetto che la vecchia donna gli porta.Spegnendo la luce lo invita a dire le preghiere e ad addormentarsi subito. Clodi obbedisce più per paura che per convinzione,ma anziché recitare le tipiche giacula­torie si mette a conversare con il Dio che tutto vede e tutto può,come gli avevano insegnato le suore all’asilo.Egli non si capacita del perchè questo dio non si faccia mai vedere. Rimane perciò,molte volte dubbioso che questi suoi dialoghi possano effettivamente essere uditi e accolti.Tuttavia non riuscendo­ a immaginarlo come entità umana riconoscibile e riconosciuta,si è creato una sua personale figura tolta di peso da qualche sacro dipinto della vicina chiesa parrocchiale.Così, dio è un vecchio dalla lunga barba fluente,con la testa ornata da lampi gialli e un grosso drappo rosso che ne riveste il corpo.Più avanti nel tempo si sarebbe ricordato di questa immagine e ne avrebbe riso.Gli avevano spiegato che raffigurava un certo santo,tale Giuseppe da non si sa dove.Clodi rimane solo.Il buio a poco a poco è sostituito dal leggero chiarore pro­veniente dai lampioni della strada sottostante.La camera comincia a popolarsi di ombre e chiaroscuri che dànno forme fantastiche ai mobili,agli specchi,al lavabo di lamiera smaltata,tramutando il tutto in fantasie antropomorfe:cavalli alati,gigantesche giraffe,qualche uccello dal becco camuso.E’ il momento in cui Clodi ha più paura.Si raggomitola nel letto in posizione fetale,ben attento a non allungare le gambe verso il fondo: ha timore che qualcuno -il diavolo?!-possa prendergliele. Coprendosi con il lenzuolo la testa e chiudendo gli occhi,sussurra una preghiera.

    Signore ti prego fammi addormentare presto!- sicuro che il suo desiderio sarebbe stato esaudito.Prontamente.

    Alle labbra gli sale anche una parola che per lui non ha un grande significato:mamma!Perché non esiste e sa che non potrà mai essere accanto a lui.Ripiega su un –nonna!- più reale.Emette solo un grido sommesso per essere sicuro di avere la compagnia della sua voce allontanando così la paura.Allora è il ricordare la storia di una donna che gli hanno indicato essere sua madre,con quel poco che ha appreso dai discorsi rubati agli adulti,che in parte lo acquieta.In qualche modo,nel suo ristretto mondo infantile,pensa ad una persona che sia tuttora vivente.In ciò aiutato anche dal continuo richiamo,con lamentoso rimpianto,cui nonna Mirta ricorre in quasi ogni discorso con lui e con zia Franca.

    Luciana,così gli dicevano si chiamasse sua madre,ultima nata dei conti Cesana,Mirta e Luigi,era morta qualche tempo prima quando Clodi era ospite presso la casa di altri parenti,per parte di nonna,in un piccolo borgo sulle sponde di un altro grande fiume.Era morta di tifo nel giro di pochi giorni e purtroppo,vera ignominia per quei tempi,non si era sposata.

    Primo Intervallo

    Clodoveo Cesana alza lo sguardo dai pochi fogli ora riempiti di una calligrafia quasi minuta.Rivedersi bambino attraverso il segno della scrittura quasi lo commuove: non per il tempo passato!Ma per un momento di abbandono che vuole concedersi!Che desidera fortemente concedersi!In fondo il paradosso che ha influenzato il suo pensiero è ricordare per dimenticare:forse!Ed ora lascia liberi i corridoi neuronali;le pulsioni nevralgiche che li percorrono.Il ritmo deve essere compulsivo,ma anche inquadrato in una struttura che lo deve portare là... Là!Dove vuole scoprire i troppi perchè della sua esistenza.

    Caption...

    Cap.II°

    Luciana era stata una donna affascinante,dal corpo longilineo,di statura più alta per la media di quei tempi.I ca­pelli castano‑biondi,gli occhi marrone scuro su un incarnato chiaro in cui risaltavano profondi e mobilissimi.Le labbra erano delineate perfettamente e tumide,le mani affusolate,curate,ma con le unghie tenute corte poichè amava suonare il pianoforte.Era la più giovane della famiglia,composta da altre due sorelle e un fratello.Le due sorelle non la tollera­vano molto, perché era la cocca di casa e a lei era tutto permesso.

    La più grande, Flora,era sposata con Lauro,un medico condotto,di cui si era follemente invaghita durante uno dei tanti ricevimenti che si tenevano nella residenza veneziana della famiglia Cesana al venerdì sera.Costui era un bell’uomo,dai modi signorili,pur essendo di modesta origine -contrariamente alla nobile discendenza della famiglia Cesana-ma piuttosto orgoglioso e un po’ troppo rigido di modi e mentalità.Suo padre,molto più alla mano e tradizionalmente convinto della loro inferiorità di classe,fu molto contrariato alla notizia del figlio che intendeva sposare la contessina Flora. Tuttavia dopo lunghe discussioni si convinse per via di un solo motivo ritenuto vincente:l’età di quel figlio unico,giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, era matura per costruirsi una famiglia.Lauro aveva appena ottenuto,essendosi specializzato a Parigi in malattie polmonari,cosa che gli valse un punteggio maggiore nella graduatoria ministeriale,una condotta- a quei tempi invidiata e ammirata da molta parte della gente ancora poco istruita-che abbracciava la quasi totalità del territorio più meridionale della provincia rodigina.

    A casa Cesana le discussioni furono ancora più veementi e accalorate.I genitori avrebbero preferito per Flora,un uomo di più alto censo : non un povero mediconzolo di campagna! -così liquidato in maniera spregiativa dal padre,il conte Luigi che arrivò comunque a concedere il suo accordo,vista la testardaggine della figlia.Il matrimonio si celebrò con la dovuta,per titolo ed immagine, solennità.Flora non rimpianse mai quella scelta,anche se le costò non pochi sacrifici,vista la propensione del marito a dimenticarsimolto spesso dei suoi doveri coniugali,di qualunque natura essi fossero,giustificando le molte assenze,vere e proprie fughe,con gli impegni della sua professione di medico.

    L’altra sorella Franca,la zia, padrona del gatto soriano,ultimo dei tanti sui quali lei riversava ogni affetto,non si era mai sposata.Un pò per il suo continuo stato di malattia alternato a brevi periodi di buona salute; un pò per un carattere estremamente balzano che respingeva anche i più intrepidi pre­tendenti.Aveva scelto la professione di crocerossina,più probabilmente perché era spesso ospite degente in più ospedali,che per vera vocazione.Fra un’entrata e un’uscita dai vari ricoveri,intrecciò una relazione con un giovane e timido impiegato della farmacia del conte suo padre,ma se ne guardò bene dal pubblicizzarla e soprattutto dal parlarne in famiglia.Lo incontrava furtivamente nella stanza adibita a deposito dei medicinali dove,al riparo di scatoloni e casse di legno, gli concedeva a malapena di tenerle la mano,con questo avendo espresso tutta la sua gamma di possibilità sensuali.Per le circostanze ambientali e per le sue peculiari caratterialità,Franca aveva finito col rimanere in famiglia accudendo la madre,dopo l’improvvisa scomparsa del padre,all’inizio del secondo conflitto mondiale.

    Cesare,il fratello,unico maschio,aveva invece una grande adorazione per Luciana,pur essendo più vecchio di quattro anni.E da lei era ricambiato in uguale misura.

    Cap.III°

    Alla fine del 1942,terzo anno di guerra, Cesare era al fronte e Luciana trepidava molto per la sua sorte.Non riusciva ad avere che scarse notizie attraverso i canali normali,cosicché era costretta spesso ad affrontare viaggi rischiosi per raggiungere fonti più vicine al comando di guerra.Tutto questo rappresentava per lei comunque uno stimolo e anche un'evasione.Sua madre e sua sorella Franca litigavano continuamente e spettava sempre a lei mettere un pò d'ordine,sacrificando il proprio orgoglio e la legittima voglia di avere una vita tutta per sé.Quei viaggi almeno servivano ad allontanarla per qualche giorno,riuscendo a farle tirare un po’ il fiato, come si ripeteva ogni volta.

    Fino ad allora le frequentazioni con l’altro sesso,a parte qualche occhiata più attenta di altre ricevuta saltuariamente,non le avevano sortito alcun interesse per nessun uomo.O forse era lei che non se ne era accorta,come spesso accade,troppo presa dallo studio del pianoforte,o dall'attività della farmacia.

    Nel paese in riva al fiume quasi mai minaccioso,dove i Cesana si erano momentaneamente trasferiti da Venezia- anche per via della nomina del conte Luigi a podestà,oltre che a seguire più da vicino la farmacia ricevuta in eredità dal fratello della contessa Mirta-l'ultimo giorno dell'anno era trascorso per Luciana, fra qualche pasticcino di farina di segala e un ballo a luci smorzate. Con le finestre chiuse e sigillate per l'oscuramento;con la compagnia del solito notabile,sudaticcio e bavoso invitato a casa insieme ad altrettanti suoi simili,che smaniava per lei col fare tipicamente subdolo dell'uomo di rispetto e rispettato.

    Luciana educatamente soggiaceva a tali riti non avendo altre possibilità di scelta in quel contesto dominato dall’incertezza sul futuro a causa della guerra in corso.Al termine degli incontri, finalmente sola, rimetteva ordine alle pur scarse emozioni cercando in tutti i modi di guardare con ottimismo al futuro e a ciò che le avrebbe riservato.Si sentiva pronta ad amare e soprattutto,ad essere amata.Immaginava l'uomo dei suoi sogni un pò come suo fratello Cesare,meno scapestrato,ma forte,atletico e,ovviamente benestante.Nel vagare della sua mente su immagini e ricordi,si sorprendeva spesso a riflettere se non ci fosse stato qualcosa di morboso,ancorchè inconscio, nei confronti di suo fratello.Nonostante tutte le limitazioni imposte dalla sua rigida educazione,dove l'amore faceva rima solo con cuore e il sesso non era minimamente considerato,Luciana aveva avuto comunque la possibilità di conoscere qualche cosa di più sull'argomento.La casa era frequentata spesso da medici, e buona parte delle pubblicazioni e dei libri che occupavano la biblioteca, riguardavano la medicina in tutte le sue varie branche.

    Molto spesso,sfogliandoli,si era fermata a osservare le particolari illu-strazioni di anatomia che ne accompagnavano i testi. Tranquillamente,anche se non ne faceva parola con nessuno, immagazzinava vocaboli,foto,disegni e quant'altro riguardasse il corpo umano.

    Un giorno,e questo la faceva sempre arrossire al solo ricordo, suo fratello era sopraggiunto silenzioso alle sue spalle e l'aveva scoperta a guardare alcune foto molto tecniche di anatomia che illustravano i genitali maschili e femminili.Con grande faccia tosta lui l'aveva invitata a guardare e ad informarsi dal vivo su un bel campione pronto e disponibile come egli era.

    Senza indugio si era abbassato calzoni e mutande e aveva esibito l'orgoglio della sua mascolinità.Luciana ebbe solo il tempo di atteggiare la bocca a cul di gallina,definizione tanto cara alla prozia Caterina allorchè si stupiva di qualcosa,che Cesare si era già rivestito ed era scappato ridendo a più non posso.Di quell'episodio,avvenuto verso i suoi quindici anni,non avrebbero mai più parlato,ma il ricordo in Luciana resisteva ben nitido e nelle fantasie sul suo ideale di uomo voleva che anche ,ci fosse una qualche corrispondenza con suo fratello.Ma tutto si era limitato e circoscritto nella sua mente ad un puro ed innocente gioco di naturali pulsioni,che comunque non confessava neanche al prete!Tanto erano cose sue e strettamente riservate.Dio, lassù,si giustificava fra sé,le avrebbe certamente capite e perdonate.

    L’anno nuovo,il 1943, aveva già consumato gennaio e Luciana finalmente era in procinto di effettuare il tanto atteso viaggio a Milano per recuperare,oltre a qualche notizia su suo fratello presso il locale comando generale,anche alcuni medicinali, irreperibili in paese e che servivano urgentemente alla farmacia. Proprio il giorno della sua decisione di partire,era un venerdì,cadeva l'usuale appuntamento del ricevimento dopo cena. Luciana era un pò il centro e il motore di questi incontri perché al di là delle chiacchiere tipiche da salotto,il momento culminante era rappresentato dal suo sedersi al pianoforte per allietare gli invitati al suono delle splendide musiche di Chopin, Mozart, Schubert.Si diceva che Luciana amasse in modo particolare questi tre grandi autori-disdegnando Beethoven e altri per ragioni interpretative- e fosse anche molto brava.Tanti fra i conoscenti che l'ascoltavano,si rammaricavano che non avesse mai acconsentito ad esibirsi in pubblico.Era solo per una questione di timidezza,si giustificava lei.Ma amava suonare molto più per il suo piacere che per l’altrui. Verso le ventuno cominciarono ad affluire gli invitati.I Rinaldi,madre e figlio sedicenne;i Morini,notaio con signora;i Bellorigo, farmacisti ambedue e in procinto di subentrare alla conduzione della farmacia dei Cesana,ubicata nei locali al piano terreno della casa.Lui molto riservato,lei al contrario,molto estroversa e piena di quel sussiego tipico delle beltà contadine: era infatti di famiglia modesta originaria di una frazione a qualche chilometro dal paese in riva al fiume quasi mai minaccioso. Partecipavano anche i Chieregato, negozianti di vernici e i Modinese piccoli coltivatori di poderi tenuti a barbabietole da zucchero.Quasi sempre era consueta la presenza di alcuni ufficiali di stanza nella vicina caserma,che venivano invitati in parte per obbligo, ma sotto sotto anche per avere notizie fresche di come andavano le cose in guerra.In questo aiutate spesso dalla viva voce di una piccola,ma significativa,rappresentanza nel comando locale di qualche ufficiale tedesco.

    Quella sera,infatti,il comandante della vicina caserma dell’esercito era accompagnato da un capitano tedesco,che tutto sembrava fuorché di origine teutonica,a parte gli occhi grigio celesti,freddi ma quasi tristi, e la classica divisa di ordinanza .Un mormorio di stupore si diffuse fra gli invitati,allorché nelle presentazioni,lo straniero,di nome Ludwig Von…qualcosa,nessuno al solito riuscì a capirne il cognome,sciorinò un accento privo delle tipiche inflessioni teutoniche, esprimendosi in un corretto italiano, accompagnato da una compostezza di modi più latina che sassone.Non sbatté i tacchi,né le sue mani si alzarono nel saluto nazista.Tutti presero subito in simpatia l'ufficiale e dimenticarono ben presto le consuete recriminazioni sulla guerra e sulle migliaia di lutti che essa stava arrecando.

    "Amo molto la musica‑esordì il tedesco‑e anch'io mi diletto nel suonare il pianoforte.Mi piace Chopin,ma anche Beethoven e qualche cosa della lirica italiana: Puccini in Tosca e Bohème,il Verdi dell'Otello...

    I suoi ‑interloquì la Bellorigo ‑ sono di origine italiana?

    "Per parte di madre,sì‑ rispose Ludwig.

    Ah! Ora capisco perché lei parla cosi bene l'italiano si complimentò la Bellorigo,dimenticando il voi di imposizione fascista e facendo ampi gesti di assenso con la testa verso gli astanti.

    Si ‑ continuò Ludwig ‑ mia madre ha sempre parlato con me in italiano,anche a dispetto di mio padre,che si rammaricava molto di ciò,ma più per il vicinato che per altro.

    Perché? si intromise la Modinese,con voce chioccia e venata dalla malizia del pettegolezzo: era infatti considerata,in paese, la depositaria delle voci,e dei si dice.

    "A mio padre ‑continuò Ludwig ‑ cultore della lingua tedesca e pro­fessore in un liceo classico del reich,sembrava disdicevole il fatto.Ma amando mia madre aldilà della sua origine etnica diversa, sopportava le chiacchiere del vicinato e la giustificava con la difficoltà per le persone di origine latina di apprendere la lingua sassone.Mia madre gli era molto grata di ciò e si sforzava con lui di non rispondergli in italiano,che fra l'altro lui capiva benissimo....".

    Luciana seguiva con interesse insolito le parole,tutto sommato abbastanza banali,dell’ufficiale.Ne osservava la linea decisa della mascella,i denti perfetti coperti da labbra come dire,si sforzava di trovare un aggettivo,grosse,sì,ma allo stesso tempo delicate, carnose,-mi verrebbe voglia di dire tumide-sorrise fra sé,accorgendosi con un attimo di ritardo,che Ludwig la stava guardando,pur continuando a parlare.Subito Luciana assunse un’aria più formale:o almeno così credette.E infatti l'ufficiale distolse lo sguardo dai suoi occhi per osservarsi le mani.Luciana ne accompagnò il gesto e notò che il suo indice si muoveva leggermente,quasi a disagio dal resto delle dita.

    E così,ecco spiegato il mistero del mio accento non accento, stava dicendo Ludwig,pensando al leggero turbamento che la donna gli aveva procurato con quell'occhiata.Era molto tempo che non provava quella leggera emozione,preludio senz'altro,ne conosceva i sintomi,di un qualcosa superiore alla semplice simpatia.Scacciò il pensiero,riproponendosi di valutare meglio, una volta solo,quel leggero,ma intenso,sguardo della donna e quanto lo aveva turbato.

    Luciana si era seduta nel frattempo al pianoforte e aveva iniziato a suonare lo studio opera dieci numero tre di Chopin,come riconobbe subito Ludwig.Mano a mano che la musica si espandeva l'atmosfera si era fatta più intima.Ognuno dei presenti si sforzava di riconoscere in se stesso le emozioni che ne emergevano.

    Fuori la notte era silenziosa,meno fredda nonostante si fosse nel mezzo dell’inverno.Le note della musica uscivano smorzate dalla casa e riempivano la piccola piazza antistante, nitidamente. Qualche nottambulo di passaggio davanti ai vetri oscurati dell’edificio, tendeva l'orecchio per carpire meglio i suoni.Anche il solito ubriaco che vagava sconsolato su una vecchia sferragliante bicicletta, zizzaggando fra i ciottoli del selciato,fermò il suo incerto andare per ascoltare.I fumi dell'alcool non gli impedirono di gustare quei suoni per lui così armoniosi,anzi ne esaltavano il riverbero nelle sue orecchie,quasi gli giungessero amplificati da un microfono.

    Ostia,come mi piacerebbe essere cosi bravo! si commiserò fra séla contessina é proprio una grande pianista! E accostandosi di più alle finestre della casa,soffocò a malapena un rutto in onore del finale lentissimo e smorzato dello studio. Si unì anche lui al sommesso applauso degli ospiti dei Cesana.Poi bestemmiando riprese a pedalare con gesti incerti, verso l'ultima osteria ancora aperta.L’ampio mantello non riuscì però a coprire le mani dell’ubriaco: lunghe, sottili, diafane,sicuramente in contrasto con il resto del corpo tosto e rozzo.

    Luciana accompagnò con un gesto lieve del capo l'applauso e riprese a suonare un altro pezzo,il notturno opera ventitré numero otto in re bemolle maggiore.Era il pezzo che più amava e che le dava un senso di grande serenità sia pure accompagnata da un po’ di malinconia.

    Mentre suonava si sorprese a pensare che per la prima volta stava convogliando i timbri più dolci dello splendido Bechstein gran coda,verso una persona che non era lei e il suo piacere.

    L’anello di congiunzione di questo suo pensiero era quello sguardo dell'uffi­ciale tedesco.Luciana sapeva che era posato su di lei,anche se non sapeva esattamente dove,visto che gli voltava le spalle.Maliziosamente,pensò - spero non sul mio fondo schiena,- peraltro ingabbiato in un ampia gonna che ne celava qualsiasi forma.Non che fosse brutto, anzi!Più volte lei stessa si era specchiata con dolorose contorsioni della testa per osservarne le rotondità e il biancore luccicante della pelle tesa sull'attaccatura delle gambe, concludendo sempre soddisfatta l'esame.Con queste immagini che si inserivano fra le note della musica,Luciana si accorse che ne stava sbagliando più di una,ma non vi badò.Troppo bello era il pensiero che qualcuno,diverso dal solito gruppo di persone, la stesse osservando e ascoltando.Non vi badò neanche sua sorella Franca che,nonostante i presenti,continuava tranquillamente a sferruzzare il suo milionesimo centrino da te’ a punto croce.Ma vi badò sua madre e con un colpetto di tosse la richiamò: sorridendole e istintivamente capendo forse il perché di quegli errori. Luciana proseguì verso la fine del pezzo,chiamando a raccolta tutta la sua concentrazione e terminò gli accordi finali con un sorriso.

    E brava la nostra Luciana!

    Che stupendo tocco!

    Chopin é sempre Chopin!

    Elogi e lievi battimani si sprecarono.

    Luciana si voltò e dalle lunghe ciglia semichiuse nel ringraziare, incontrò lo sguardo di Ludwig.Per un attimo ne restò appesa.Non era allegro,non era triste, ma nemmeno assente.Cos'era?Era sorpreso,si convinse Luciana.E di che cosa?Forse del fatto che ho sbagliato qualche passaggio?Magari dei più facili?

    Rimase con l'interrogativo perché gli invitati stavano cominciando ad alzarsi per andarsene.Solo i due ufficiali non si muovevano. Mirta,la mamma,accompagnò alla porta gli ospiti,poi indecisa guardò i due militari e con fare interrogativo anche Luciana.Lei,riponendo gli spartiti,fece segno alla madre di lasciare la stanza: non aveva bisogno della sua presenza,stesse pure tranquilla .

    Si apprestava a chiudere l'ampio coperchio del pianoforte,quando si accorse che Ludwig, la stava aiutando,ma anche insistendo per invitarla a suonare ancora qualcosa.

    Sono stanca ‑si sentì rispondere Luciana con una voce strana che non le sembrava le appartenesse ‑ e domani devo partire presto per Milano.'

    E come ci va?chiese lui.

    Con il treno di san francesco!

    Prego?

    Oh,mi scusi,è una forma dialettale per dire un pò a piedi,un pò in bicicletta,e un pò in treno... sa, di questi tempi!

    Ah,capisco.Perché non chiede a me un passaggio, invece?

    Come sarebbe a dire?chiese sorpresa e non poco.

    "Sarebbe a dire che guarda caso,anch'io devo andare a Milano e ho a disposizione una Wolkswagen dell'esercito con tanto di autista,mio attendente"

    Oh,grazie che bellezza! ‑si intromise la madre,che controllando dalla stanza adiacente il colloquio, aveva già deciso per Luciana.Che invece non aveva deciso proprio un bel niente!E fulminò con un'occhiata quelle parole cercando di sovrapporvi un grazie lo stesso,ma ho qualche altra commissione da fare strada facendo".

    "Bene! ‑riprese Ludwig,per nulla spiazzato ‑io parto alle sei e passerò comunque di qui.Se la troverò ad aspettarmi, sarò molto onorato di poterla accompagnare.Se invece deciderà diversamente vorrà dire che troveremo altri modi per incontrarci.Ma adesso-proseguì tranquillo- mi suoni qualche altro pezzo,la prego! e nel dire questo i suoi occhi assunsero un'espressione fra la supplica e l'ordine.Questo,invece, arrivò diretto all’altro ufficiale,il comandante italiano,che pur essendo più alto in grado,(ma l’alleato era l’alleato! ed era meglio non interferire-si giustificò fra sé)-lo capì immediatamente e a malincuore, mormorando un saluto a mò di scusa,si diresse velocemente verso l’uscita.

    E va bene. acconsentì Luciana.

    Riaprendo il coperchio dello strumento, guardò con leggera irritazione la madre e la sorella,anche lei richiamata in salotto dalla discussione, che accomiatavano l'altro ufficiale. Contrariata,ma non troppo,per essere stata lasciata da sola,si rimise seduta al pianoforte con Ludwig in piedi appoggiato al bordo, sorridente e in attesa.Iniziò a scorrere velocemente le dita sulla tastiera,traendone degli accordi maggiori e minori con vari intervalli di seste e quinte,spezzando le sonorità con il pedale o accentuando il fraseggio con le dita premute ferme sui tasti secondo una tecnica appresa da un giovane emergente dell’epoca,un certo Rubinstein che un giorno sarebbe stato annoverato fra i più grandi interpreti pianistici del ventesimo secolo.

    Ludwig seguiva le evoluzioni delle mani con attenzione.Si domandava perché mai gli era venuto quell'impulso di offrirsi come accompagnatore.E per­ché quella donna appena conosciuta,meglio dire avvicinata,lo attirava al di sopra di quel pò di simpatia che,quando c’è,normalmente si prova al primo incontro.Luciana per lui non era soltanto una bella donna,ma anche un misterioso complesso di sensi e anima-insomma poche storie ,si disse,é il classico colpo di fulmine.E il bello é che anche per lei sembra esserlo, anche se non lo ha ancora accettato!

    Così,fece quello che non aveva mai osato,o potuto fare in altre occasioni,ma del tutto diverse da questa, in vita sua.Appoggiò le mani sulle spalle di Luciana,la fece smettere di suonare,la costrinse dolcemente a sollevarsi in piedi,attirandola verso di sé.

    Mi creda –le sussurrò sulle labbra-ho voglia di abbracciarla…da sempre!

    "Ma che fa?Mi lasci!E’ impazzito?-si ribellò instintivamente-come si permette? Potrebbe venire qualcuno e che figura ci faccio!….Eppoi la conosco appena!-continuò quasi irritata sforzandosi di respingerlo, con esiti sempre meno convincenti.

    D'accordo!-cercò di razionalizzare con calma- Anch’io provo simpatia per lei,ma credo sia un po’ sconveniente,e anche fuori luogo,lasciarsi abbracciare…subito….mi creda…la prego non faccia così… dolcemente, così….

    Luciana,ormai vinta dall’insistenza e dalla forza dell’abbraccio, si abbandonò completamente all’uomo,consapevole di trovarvi e di vivere all’istante,quei momenti speciali che a lungo aveva sognato.

    L’ubriaco sferragliava sulla bici di ritorno dall'ultima osteria e sentì gli accordi del pianoforte fermarsi improvvisamente.Aguzzò l'udito,portandosi le mani a conca dietro l'orecchio.Capì che qualcosa di bello stava avvenendo là,nella casa della contessina dei Cesana.Si guardò le mani e nell'aria compose un motivo arpeggiato.E seppe dentro di sé che i suoni avevano rotto un altro tipo di silenzio.Non quello reale che lo circondava,ma un altro molto più profondo, impossibile da descrivere se non si è mai provato:il silenzio dell'amore nascosto che improvvisamente si rivela!

    Scosse il capo,Dandin l’ubriaco e sorrise al buio esibendo una chiostra di denti mutilata di molte sue componenti,ingiallita e malferma.

    "Che diavolo di silenzio é il nostro-borbottò fra sé- se non sappiamo come utilizzarlo se non quando amiamo qualcuno per amare poi,in fondo,solo noi stessi? Auguri,Luzìeta-le gridò con la mente- io… mi,vado a dormir!"

    Cap. IV°

    Luciana udì i passi di Ludwig allontanarsi nel silenzio della notte.Lo immaginò voltarsi più volte nel buio,cercando di scorgere a quale finestra,per caso, lei fosse affacciata.

    Per caso? s’interrogò,che ipocrita sono: lo voglio!Mi vuole! E allora non certo per caso resto qui ad ascoltare e unire il mio pensiero al suo:Caro,a domani. Certamente verrò con te!.

    Si buttò sul letto vestita per non perdere neanche una minima traccia del leggero profumo che Ludwig le aveva lasciato addosso.Si accarezzò le labbra,ripassandovi più volte la lingua chiudendo gli occhi e rivivendo ogni attimo di quello splendido momento fra le sue braccia.Poi,lentamente si spogliò davanti allo specchio e si osservò critica. Si piacque abbastanza per le forme morbide dei fianchi e la pienezza dei seni:un pò meno per la leggera peluria in più che si espandeva verso la piega del pube e si univa discre­tamente a quella delle cosce.

    Dovrei radermi,sorrise,ma non ho nessuna crema con me; vabbé! non importa,il buio nasconde ... il buio?-si domandò-Sì! quando lui sarà con me nell’intimità di….-

    Si fermò arrossendo al pensiero.Continuò lo stesso a immaginarsi con lui,scrollando il capo e alzando il mento nel gesto di scacciare la paura dettata da un troppo radicato perbenismo.

    Non avrà certo il tempo di accendere la luce per guardarmi!Almeno io farei così!concluse soddisfatta della sua temerarietà, tranquillizzandosi ulteriormente. Era quasi sicura di un naturale riserbo dei modi di Ludwig.Tuttavia le immagini che le si affollavano nella mente contribuirono piano piano a farla cadere in un languore dolcissimo : le mani strinsero i seni e li accarezzarono quasi con forza,spingendosi poi più giù verso la stretta delle cosce.Non ebbe il coraggio di proseguire sulla strada di un atto che la sua educazione morale non le avrebbe permesso.Si infilò svelta la pesante camicia da notte chiudendo ogni spiraglio all'abbandono dei sensi. Si addormentò subito.Non sognò nulla,né sentì il canto dolcissimo che Dandin l’ubbriaco le mandò con il pensiero:quasi a darle forza e ad assicurarle complicità.

    L'indomani era pronta,all’ora stabilita,in piedi presso l'uscio di casa,con l'orecchio teso a cogliere l'arrivo della vettura di Ludwig.Qualche minuto dopo le sei infatti,udì un’auto fermarsi sulla piazza.Le corse incontro.Vide un anziano caporale aprire con fatica lo sportello e scendere dirigendosi verso di lei.L’uomo scorgendo Luciana,ormai prossima all’auto, già intenta a raccogliere la borsa,la bloccò con un gesto:

    "Scusate,Fraulein,il mio superiore mi incarica di dirle che non può accompagnarla e mi ha ordinato di darle questo biglietto."Senza profferire altre parole, girò sui tacchi per risalire sul mezzo.

    Un momento ‑gridò Luciana ‑ che cosa é successo?Non attendete una risposta? Ma il caporale coperto dal rumore dell’auto già in moto,non la udì e con una veloce manovra si allontanò in direzione del fiume quasi mai minaccioso. Luciana,con calma,devo restare calma si ripeteva,aprì il biglietto e lesse:

    "Mailand,Buenos Aires 41,donnerstag drei Marz,1943.Anche io... anche tu!"

    Niente altro.

    Luciana chiuse la porta,raccolse la sua borsa finita a terra e si avviò a piedi verso la stazione ferroviaria.Come del resto aveva deciso prima dell’invito di Ludwig.Era confusa.Incredula. Eppure qualche briciolo di speranza si faceva strada :ne coglieva i sintomi dal pulsare più avvertito del cuore.Si costrinse a non pensare più a nulla per focalizzare la sua attenzio­ne solo su come si sarebbe organizzata il viaggio e,soprattutto, come sarebbe riuscita a rispettare l'appuntamento.

    Riuscì a salire su un convoglio diretto a Legnago e da lì verso Milano. Era sabato.Un timido sole si sarebbe levato di lì a poco ad asciugare il vapore formatosi sul finestrino della carrozza dove aveva trovato posto,fra persone silenziose e infreddolite.Luciana osservava il paesaggio esibire un verde appena accennato solo in qualche cespuglio a ridosso dei campi di grano dove gli esili steli del frumento si nascondevano ancora fra le zolle ghiacciate. Quell’inverno non aveva nessuna intenzione di lasciare il passo alla primavera:che sarebbe arrivata dopo nemmeno venti giorni.

    -Forse-pensò Luciana, lasciandosi cullare dal ritmo alternato delle ruote ferrate. Cercò di dormire.Fortunatamente il treno sembrava non fare troppe so­ste e compatibilmente con l'emergenza della guerra,quasi rispettava l’orario previsto.Passò Legnago,poi Verona dove sostò una buona ora per il rifornimento.Poi dopo aver ripreso il suo lento procedere s'arrestò inspiegabilmente a Villafranca, distante solo pochi chilometri dal capoluogo.

    Alcuni passeggeri provarono a spiegarsene il motivo,imbastendo discussioni sulla linea magari occupata da qualche treno particolare, carico di poveri prigionieri,magari.azzardò una voce di donna velata in nero- oppure di deportati nei campi di lavoro"-concluse sommessa,paurosa di quanto affermava.

    Eh già!Signora mia ‑intervenne un uomo alto e grosso,rubizzo in volto e da scuri baffi a manubrio ‑ quelli lì mica scher­zano,pur di perseguire i loro tremendi scopi!I nazisti sono capaci di bloccarci qui fino a stasera.

    Speriamo di no. ‑disse la signora,tirando su col naso-speriamo proprio di no!"ripeté.

    Luciana ascoltava attenta quelle parole,mentre il suo sguardo era attirato dal gruppo di case che si intravedevano dalla ferrovia e che costituivano,con un quadrilatero quasi perfetto, il centro del paese.Si ricordava di averne già sentito il nome durante il periodo scolastico alle superiori,per il famoso episodio del quadrato ,figura geometrica ripresa militarmente dai soldati piemontesi opposti alle truppe austriache nella terza guerra di indipendenza.Non era tanto quest’aspetto che la incuriosiva,però.Quanto la sensazione di osservare un qualche cosa di già visto,meglio conosciuto-persone,costruzioni,luoghi-più vicino a lei.Legati forse a vicende personali o a reminiscenze di incontri avuti con la sua famiglia durante qualche viaggio.

    I suoi occhi rimasero fissi sull'ampia strada che partiva dalla stazione per arrivare alla piazza principale del paese,alla cui destra troneggiava la pomposa e baroccheggiante chiesa parrocchiale.

    Un po’ per stanchezza,un po’ per costringersi a riposare,Luciana si appisolò. Sognò qualcosa che la turbò molto quando se ne ricordò al risveglio.

    Nel sogno si trovava ancora ferma alla stazione di Villafranca e dal finestrino del treno,un po’ più grande e più comodo di quello reale,le parve di vedere una persona,la cui fisionomia le ricordava qualcuno a lei noto,ferma a circa una cinquantina di metri da lei, e che sem­brava osservarla.Era un uomo alto,vestito con un paio di calzoni blu scuro simili alle tute degli operai,e un giubbino di colore più chiaro.Ne riusciva a cogliere lo sguardo leggermente curioso e i capelli castani spruzzati d'un grigio già precoce. Almeno,a giudicare da quanto riusciva a vedere dei lineamenti del viso,non si poteva dire vecchio.Abbassò il finestrino e si osservò sporgere quel tanto per mettere più a fuoco la figura.Si accorse che l'uomo stava parlando a qualcuno e indicava il treno.Un attimo dopo gli comparve vicino una donna,anch’essa giovane e con una gran massa di capelli corvini, che gli si accostò e lo abbracciò ridendo.Cercava di fargli riprendere,probabilmente,un cammino interrotto,sollecitandolo a voce alta:

    ... è ora di andare Clodi, ... dài ... vieni!.

    Luciana riuscì a capire solo queste parole e sorrise al nome udito.

    Clodi!?che razza di nome strano!Sembra più francese che italiano, pensava,oppure sarà il diminutivo di ... uhm! non mi viene in mente nulla.

    Il treno in quel momento si mosse e il sogno si spezzò.Luciana aprì gli occhi e quanto aveva sognato le sembrò così reale che si sporse davvero dal finestrino per guardare meglio la strada del paese: ovviamente vuota!Sorrise fra sé,dandosi della sciocca.Per rinfrancarsi cominciò a scambiare qualche parola con la vicina di posto,ma senza dare molto peso alla conversazione.Poi, nel bel mezzo di una frase, l'interruppe e le chiese:

    Secondo lei che etimologia…mi scusì-s’arrestò allo sguardo interrogativo della donna- voglio dire- riprese con parole più acconce-da dove potrebbe provenire il nome Clodi?'

    Non saprei -le rispose la donna bofonchiando, un po’ intimidita dall’approccio improvviso di Luciana‑ perché?

    Oh,nulla di grave.L'ho letto su qualche rivista e quindi ero rimasta con la curiosità …

    Ma é molto semplice!-s'intromise l'uomo dai baffi a manubrio,ben lieto di essere d'aiuto a quella splendida donna, come si compiacque fra sé non appena l'aveva vista salire sul treno-Clodi è con tutta probabilità un diminutivo che deriva da un vecchio nome tedesco che credo risalga ai tempi del primo millennio.Sa,a quel tempo fra Visigoti,Ostrogoti e compagnia bella,tutti insomma facevano a gara a trasformare i loro nomi barbari in altri più vicini ai latini,che all’epoca,per loro, erano la civiltà…beh!non soltanto per loro!.

    Va bene,va bene! ‑lo interruppe Luciana che non voleva sorbirsi una lezione di storia antica‑ ma il nome?.

    Clodoveo! affermò il baffuto.

    Clodoveo?‑sorrise Luciana,che all’udire quel nome con desinenza in "eo" le parve proveniente più dal dialetto veneto che dall’italiano.

    "Sì!-riprese l’uomo senza dar peso allo stupore della donna-Clodi é un diminutivo di Clodoveo;niente altro che la trasformazione dal barbarico Glod che significa luce, e di vlodeh,che vuol dire portatore.Quindi portatore di luce,colui che probabilmente era investito del compito di aprire la strada agli altri, non solo in senso pratico,ma anche in senso figurato,come illuminato depositario di parole sagge e capace di trasmetterle agli altri.Col tempo-proseguì orgoglioso di aver attirato l’attenzione di quasi tutti i presenti-oltre che nel cambiamento latino,Clodoveo,si trasformò in un più difficile,ma più vicino al suono labiale della lingua di quelle genti,Lodweogh,che possiamo senz'altro assimilare all'attuale Ludwig tedesco,a sua volta tradotto nel primo volgare italico: Luigi.".

    Questa é proprio bella ! - disse Luciana -ma,lei mi scusi,come sa queste cose ,se non sono indiscreta?.

    "Sono un professore di lingua tedesca ‑rispose l'uomo ‑ e ogni tanto mi diverto a risalire all'etimologia di certi vocaboli per stabilire quale nesso possa esistere,per esempio,come spiegazione a questa tanto vituperata alleanza politico-militare tra italiani e tedeschi,visto che etnicamente,in media, siamo distanti migliaia di miglia da loro.E questo mio divertissement come direbbero i francesi, mi ha salvato da molte situazioni scomode nell'insegnamento." concluse soddisfatto.

    Grazie.‑disse Luciana,che dentro di sé provava un senso quasi di smarrimento misterioso e inquietante,pur riconoscendo allo stesso tempo corretta la,tutto sommato banale, spiegazione.Quel nome l'aveva riportata al suo Ludwig,anche se non sapeva trovarne il nesso con l'immagine dell'uomo e della ragazza visti in sogno sulla strada.

    Fra l'altro erano pure vestiti in maniera inusitata,si disse ripensandoci.Per un attimo credette di aver avuto una visione di cose future.Adesso mi metto a fare l'indovina!-si rimproverò-sciocchezze della mia mente così presa dal fatto di essere ...sì,certo! Innamorata.

    Ma qualche cosa rimase dentro di lei se,poco oltre, addormentandosi,sognò di avere un figlio e di chiamarlo proprio Clodoveo.E di ricordarsi molto bene che chi glielo aveva suggerito era un uomo con una luce in mano:che non assomigliava affatto al signore barbuto del treno,ma all'uomo del sogno intravisto sulla strada a Villafranca.

    Il treno riprese finalmente una marcia più regolare e continua.Il giorno volgeva al pomeriggio.L’aria fuori era tersa e limpida quasi un accenno di primavera,se non fosse stato per quella squallida campagna ancora ingiallita dal freddo. Luciana arrivò a Milano che ormai era buio.Scese dall'enorme scalone centrale della stazione incontrando parecchi militari e pochi viaggiatori frettolosi.Prese a sinistra per la via Vitruvio,per arrivare in corso Buenos Aires,riconoscendo la direzione immediatamente,essendoci già stata prima dello scoppio della guerra:quando con i genitori andava alla Scala a godersi l'opera lirica o qualche buon concerto di musica classica.Arrivò all'altezza di un breve slargo che tagliava il corso e si fermò cercando di capire da che parte fosse ubicato il numero quarantuno.Svoltò a destra incamminandosi verso il centro.Sostò all'altezza della galleria Puccini con le insegne del teatro purtroppo spente per via della legge sull’oscuramento di ogni fonte di luce nella notte.Lesse i numeri sui portoni.Notò il 41 e sotto di esso una piccola targa con scrittoMeublè Robinia.Il cuore le batteva all'impazzata per il sollievo nell’aver individuato subito l’indirizzo.Ma era in anticipo di quasi due giorni dalla data che le aveva fissato Ludwig sul suo biglietto.Si complimentò con se stessa.

    Stava aprendo il battente del portoncino quando si sentì chiamare.Si voltò.

    Scusi,signora,mi sa dire dov'é la via Morgagni?le chiese una voce alle sue spalle.

    Sobbalzando,Luciana incontrò lo sguardo interrogativo di un uomo dal viso pallido ed emaciato,con due occhi piccoli quasi chiusi dal corposo pronunciamento della fronte,piuttosto basso di statura e leggermente stempiato,ma con le mani grandi e affusolate ed estremamente curate.

    Se non sbaglio,dovrebbe essere la via parallela al di là del corso. gli rispose Luciana osservandolo e cercando di ricordare dove diavolo lo aveva incontrato.

    Molte grazie!Davvero,auguri!- s'inchinò l'uomo che attraversò con poca prudenza la strada attirandosi lo scampanellio arrabbiato del tram che stava sopraggiungendo.L'uomo non se ne interessò per nulla e giunto sul lato opposto si voltò ancora a salutare Luciana,la mano sinistra protesa a dita aperte quasi a significare un accordo musicale.Sorpresa,lei ricambiò il saluto.Senza accorgersene gli rispose:Grazie Dandin,vecchio amico …"

    Dimenticò l’episodio e si rituffò nei suoi pen­sieri di sistemazione logistica per la notte e per le incombenze dell'indomani.Milano tutto sommato le piaceva.C’era già stata varie volte e ne apprezzava l'ordine squadrato dei quartieri,le vie tracciate ortogonalmente,il molto verde nascosto quasi sempre da seriosi palazzi grigio‑fumo,la cortese disponibilità della gente,con quella loro parlata dalle e aperte e leualla francese.Meno le piaceva la fretta continua della maggior parte delle persone che parevano continuamente impegnate in faccende sempre urgenti.Si diresse con decisione al portone del meublè,tanto- si disse-è meglio sistemarmi subito, così da limitare al minimo la possibilità di non trovarmi pronta per l’appuntamento".Il portiere-che poi scoperse essere anche il titolare- era una signora gioviale e grassoccia che l'accolse sorridendo e con una quantità di infinite lodi,quando seppe che era veneziana.Luciana accettò di buon grado la conversazione.Poi con una scusa-era stanca per l’interminabile viaggio!-affrettò il ritiro della chiave della camera.Salì al primo piano,percorse un breve corridoio e aprì la porta della numero sei.Accese la luce.Si fermò a osservare il quieto ordine della stanza,l’odore di pulito mescolato al lieve profumo di lavanda che emergeva dal cassetto del comò e sistemò le sue cose.Si distese sul letto e si appisolò con una mano stretta pervicacemente al cuscino.

    Cap. V°

    Cesare Cesana non era molto contento quando si risvegliò.La donna che aveva accanto e che aveva sposato contro il parere di tutti,circa tre anni prima,cominciava a dargli più di qualche preoccupazione. Smaniava in continuazione per tornare a Venezia e accampava pretesti su pretesti per convincerlo.Lui cercava di blandirla con promesse che sapeva di non poter mantenere, almeno finché ci sarebbe stata la guerra.

    Cesare,laureatosi in farmacia ,chiamato a servire la Patria,in procinto di scendere in guerra contro la perfida Albione e i suoi alleati,dopo aver svolto un breve obbligatorio tirocinio all'accademia navale di Livorno,era stato asse­gnato dal comando della marina militare a Taranto,imbarcato su un'unità medica.Il chè tutto sommato gli andava benissimo,poichè gli permetteva di avere qualche libertà in più rispetto agli altri ufficiali impegnati sulle unità combattenti.A Taranto aveva preso in affitto un discreto appartamento nel quartiere storico,vicino al palazzo dove risiedevano i genitori della futura moglie : famiglia discretamente benestante e con qualche pretesa di dicendenza nobiliare(un lontano prozio dell’attuale capo famiglia era stato insignito del titolo di conte dall’ultimo re Borbone).

    Era stato proprio durante il tirocinio militare,nel corso di un'esercitazione che aveva portato gli allievi a Taranto, che Cesare aveva conosciuto Anna.Una ragazza stu­penda che corteggiò immediatamente: conscio di essere subito corrisposto per la sua fama di gentiluomo nobile e charmant.Ma non aveva previsto che la ragazza,forse anche un pò spinta dai genitori,avrebbe accettato la sua corte solo dopo una formale richiesta di fidanzamento.Senza pensarci troppo,Cesare aveva accetta­to imbarcandosi in tutta una serie di cerimonie che lo impegnarono e legarono sempre di più fino all'inevitabile matrimonio.Che avvenne con grande sfarzo nella chiesa della SS.ma Addolorata ai primi di giugno del ‘40.Unico suo rammarico fu l’ostracismo del padre,il conte Luigi che, nonostante le suppliche della moglie Mirta,non ne volle sapere di partecipare alla cerimonia.La sola concessione fu una lunga lettera indirizzata ai futuri suoceri,dove si rammaricava di essere trattenuto a Venezia per impegni governativi.Con la fermezza tipica dell’uomo burbero e di rigido carattere,ma con elegante ricercatezza di parole,liquidò in due righe l’avventatezza di suo figlio nel volersi accasare così giovane,ma si profuse in lodi per la giovane sposa e per i suoi altolocati famigliari.

    Cesare infatti, nel comunicargli la notizia del suo matrimonio,aveva calcato non poco la mano sulla posizione sociale e sull’agiatezza della famiglia della sposa.Ma soprattutto gli aveva descritto la bellezza della futura moglie,inviandogli anche qualche fotografia molto artistica, con toni talmente entusiasti che,al vecchio padre, non restò altro da fare che acconsentire al matrimonio.

    Non venire a piangere per avere altri quattrini!-lo aveva tuttavia ammonito durante una lunga telefonata-e soprattutto-aveva proseguito-ricordati che qui c’è una farmacia,anzi due se contiamo quella del paese in riva al fiume (gli seccava molto ricordare nomi e luoghi per via della carica che avrebbe dovuto assumere di lì a poco:podestà!) da portare avanti e non ti ho mantenuto agli studi solo per pagarti le tue conquiste femminili!Ed ora anche matrimoniali,accidenti a te!Adesso metti la testa a posto!Hai una famiglia,mantienila con l’onore e l’impegno dei Cesana!Ma con le tue forze.

    Ma certo!-aveva risposto Cesare,sollevando gli occhi al cielo in un moto di insofferenza-non dovete preoccuparvi.Ora devo terminare l’imbarco obbligatorio poi torno a casa con la mia meravigliosa sposa,se non scoppia la guerra.A proposito-si era informato-nella vostra nuova qualifica di podestà,cosa mi potete dire al riguardo?Mussolini non sarà mica così stupido da correre dietro a quel pazzo di Hitler?Tanto a quello gli basta che gli interniamo un po’ di ebrei…

    "Zitto!Sciocco e degenere figlio!-lo rimbeccò-Intanto non parlare male del Duce,dato che questi telefoni,e tu dovresti saperlo molto bene,sono sempre sotto controllo.Soprattutto il mio!Visto che mi hanno fatto podestà pur di allontanarmi dalla fronda antifascista veneziana.Comunque-sospirò-ho notizie certe che il dado è tratto e anche il nostro impero da avansp…-s’interruppe subito-…sì mi hai capito,s’impegnerà con il grande alleato tedesco!Quindi ti auguro buona fortuna.E adesso goditi quanto più ti è possibile la luna di miele.Per quando hai stabilito la data?-domandò.

    Per il dieci di giugno,sabato,giusto fra venti giorni.

    "Ho capito!Spero proprio che non sia giunta l’ora fatale!come dice lui.Ciao figlio,tua madre mi chiede sempre se puoi scriverle un po’ più spesso.Mi raccomando!-e con un ulteriore saluto venato di tristezza, aveva chiuso la comunicazione.

    La cerimonia delle nozze si tenne verso le undici del mattino.Sfarzosa e un po’ barocca,ma di forte impatto sul piccolo mondo della borghesia locale.Cesare,felice della situazione, trascorse una luna di miele stupenda fra Napoli,Capri e Ischia,dando fondo a tutte le sue sostanze.In pratica gli era rimasto solo lo stipendio della Regia Marina poiché il padre,come gli aveva annunciato,gli aveva tagliato il generoso appannaggio mensile.Solo da sua madre riusciva ogni tanto a ricevere qualche spicciolo,appena sufficiente per evitare la nomea di mantenuto da parte dei suoceri.I quali di buon grado accettavano la situazione perché il conte Cesare era comunque un uomo del nord e con un brillante avvenire.Il massimo,al cospetto dei piccoli e poveri nobilotti del luogo.

    Dalla finestra che dava su via Maqueda entrava la calda luce del mattino pugliese che, pur essendo di fine febbraio,era quasi da primavera avanzata.Cesare si alzò a sedere sul letto e sfiorò leggermente Anna.Che apri gli occhi,lo guardò assonnata e invece di rispon­dere al suo buongiorno,lo apostrofò: Quando mi porti a casa a Venezia?` .

    Cominci subito?E’ un chiodo fisso il tuo!Come faccio con 'sta guerra di mezzo?.

    Ma ti fai trasferire,no?.

    Già!Come se fosse facile!

    Con tutte le tue conoscenze e i tuoi titoli!E’ mai possibile che tu non ci riesca?.

    Anna,finiscila!Appena potrò lo farò, va bene?cercò di chiudere Cesare.

    -Ma non era ancora finita- suppose,fingendo indifferenza.

    Infatti Anna si alzò con fare minaccioso. Buttò per terra un paio di ninnoli,strappò il pacchetto di sigarette vuoto,sbattè la porta del bagno dietro di sé e vi si chiuse dentro.Cesare la lasciò sfogare e cominciò a vestirsi.Era domenica.Voleva godersi la giornata oziando per casa, ascoltando qualche disco del suo amato Mozart per poi uscire,magari raggiungendo il circolo ufficiali,per quattro chiacchiere con i colleghi.

    Aveva appena finito di vestirsi che Anna ricomparve comple­tamente nuda,intenta a spazzolarsi i capelli neri,cui l'arricciatura naturale ne accorciava la lunghezza,ma le conferiva un aspetto da zingara.Bellissima!

    Cesare la osservò.L’eccitazione fu immediatamente palese.Non se ne curò,pur riconoscendola.

    Non mi sono ancora abituato alla sua stupenda fisicità-riflettè-e lei lo sa! e lo fa apposta !Ma sono stanco… stufo ...di questo suo carattere sempre così bellicoso,ma anche lamentoso.Perdiana! .

    I pensieri resi manifesti dall’espressione corrucciata del viso furono talmente eloquenti che Anna si bloccò,sospesa fra il continuare la stizza o,invece, assumere un'aria dolce e contrita per condurre l’uomo verso ciò che più le interessava.Optò per l’accondiscendenza.

    Il letto li accolse in un furore di mani che si cercavano,di gambe che puntellavano una stabilità compromessa dallo sforzo di prevaricarsi.

    Il loro fare all'amore era sempre così:una lotta a chi vince, pensò più tardi Cesare con la testa di lei appoggiata in grembo.Bah! -si disse cinicamente,finché dura!"

    Suonarono alla porta.Era un messo del comando militare che recava l’avviso di una chiamata telefonica da Milano per il pomeriggio,da parte di sua sorella Luciana.-Che diavolo ci faceva là? -si chiese Cesare.

    Chi era?si intromise Anna.

    "Un marò con un avviso di chiamata di mia sorella Luciana".

    Spero non ci siano brutte notizie.

    Ma che vai dicendo?.

    La cara cognatina ... sai, mi piace molto,anche se l’ho vista solo in fotografia.E anche per quello che vorrei tornare a Venezia per stare un pò con i tuoi,conoscerli meglio... insomma conoscere il tuo mondo.Ti prego Cesare insisti presso il tuo comando,dài fallo per amor mio!.

    Anna ti ho già detto che appena posso,o meglio,appena ne intravedo la possibilità farò la mia brava domanda.Adesso esco.Tu cosa fai?.

    Andrò dai miei.Vieni a mangiare con noi?.

    No.Resto al circolo perché alle due devo fare un'ispezione a bordo..

    "Già!Le conosco bene le

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