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Il doppio male
Il doppio male
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E-book422 pagine5 ore

Il doppio male

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Info su questo ebook

C’E’ QUALCUNO IN GRADO DI SFUGGIRE AI PROPRI SENSI DI COLPA?

QUANTI VOLTI, QUALI FORME ED ESPRESSIONI PUO’ ASSUMERE IL MALE?

UN TERRIBILE SEGRETO PERCORRE IL TEMPO ED E’ DECISO A SVELARSI QUI, IN UNA NEW YORK IN TREPIDANTE ATTESA PER L’AVVENTO DEL NUOVO MILLENNIO.

UNA SERIE D’INSPIEGABILI OMICIDI COSTRINGERA’ IL CAPO DEL DETECTIVE BUREAU DELLA NEW YORK POLICE DEPARTMENT A FARE I CONTI CON LA PROPRIA COSCIENZA. COME UN IMPLACABILE BURATTINAIO, IL MALE CHE L’UOMO DA SEMPRE TENTA DI RIDURRE AL SILENZIO DENTRO DI SE’, HA PREDISPOSTO OGNI COSA: SI E’ SERVITO DELLE PERSONE GIUSTE, HA VESSATO E ASSERVITO LE PERSONALITA’ PIU’ TORMENTATE, SCONVOLGENDO IDENTITA’ E VANIFICANDO OGNI DISPERATO TENTATIVO DI RINASCITA E REDENZIONE. IL CONFLITTO FINALE E’ ALLE PORTE: IN UNA RESA DEI CONTI INASPETTATA MA NON PIU’ RINVIABILE, UNA DELLE PIU’ CELEBRI ARTISTE CONTEMPORANEE SI TROVERA’ INVISCHIATA IN UN MACABRO E DELIRANTE GIOCO AL MASSACRO CHE SQUARCERA’ IL SIPARIO SUL SUO OSCURO PASSATO, CONDUCENDOLA ESATTAMENTE DOVE IL MALE AVEVA DA SEMPRE STABILITO. SOLO ALLORA, IN UN CRESCENDO DI TENSIONE E DI COLPI DI SCENA, LA VERITA’ SI SVELERA’, TRAGICA, ILLUMINANDO SENZA PIETA’ GLI ANGOLI PIU’ BUI E INACCESSIBILI DELLE COSCIENZE DI VITTIME E CARNEFICI.

QUALI LE UNE?

QUALI GLI ALTRI?

CHI SARA’ IL PROSSIMO?
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2015
ISBN9786050373233
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    Anteprima del libro

    Il doppio male - Luca Gentili

    LUCA GENTILI

    IL DOPPIO MALE

    UUID: 2f1ba29a-ef1b-11e4-bef6-1dc02b2eb2f5

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    "...e mi trucco perché la vita mia

    non mi riconosca e vada via"

    Renato Zero, La favola mia, Zerolandia (1978)

    12.00

    "Hai rubato il sole,

    hai nascosto il mare

    Mentre un uomo muore, tu dove sei?"

    Renato Zero, Grattacieli di sale, EroZero (1979)

    New York, dicembre 1999

    La scena del crimine è già stata transennata. Metri di nastro lucido giallo e nero determinano il perimetro della follia, mentre due candide lenzuola bianche nascondono l’orrore.

    C’è un gran viavai nell’appartamento al settimo piano di un vecchio palazzo al 130 di Bowery Street, una via della circoscrizione di Manhattan che delimita i quartieri di Little Italy e Chinatown da una parte e il Lower East Side dall’altra. Gli uomini della scientifica sono al lavoro già da una ventina di minuti, mentre i due agenti che per primi hanno risposto alla chiamata stanno facendo rapporto al detective John Monroe.

    La telefonata era anonima, nessun riscontro. Eravamo in zona e siamo accorsi subito. La porta era chiusa e apparentemente sembrava tutto tranquillo. Abbiamo suonato il campanello ma nessuno ci ha risposto. E’ stata la musica ad insospettirci.

    Quale musica?

    "Proveniva dall’interno dell’appartamento. Era la stessa canzone che si sentiva in sottofondo quando l’uomo della segnalazione ha chiamato la centrale. Lo so perché il collega che ha raccolto la telefonata è un mio amico, siamo cresciuti insieme e ricordiamo entrambi quella canzone, signore. Me ne ha parlato per puro caso, quando ha sentito che saremmo andati noi a controllare. Mi ha detto: ehi Marc, quel tipo deve avere i nostri stessi gusti musicali, stava ascoltando We can be together dei Jefferson Airplane!"

    E allora siete entrati …

    Sì. Abbiamo forzato la serratura e …

    Che mi dice della canzone? Io non la conosco.

    Non la conosce, signore? Io non credo. Magari non se la ricorda. Faceva più o meno così … e inizia a fischiettare, muovendosi goffamente e infilandoci pure qualche parola.

    Basta così, agente Shepard, basta così. Aveva un significato particolare?, lo interrompe Monroe visibilmente nervoso.

    Caspita! Era una canzone di protesta contro la guerra nel Vietnam e, in generale, contro la crescente atmosfera di repressione politica negli Stati Uniti!

    Sembra piuttosto informato sull’argomento, agente Shepard. Di quali anni parliamo?

    Fine sessanta, inizio settanta, signore.

    Ma doveva essere un ragazzino all’epoca!

    Un ragazzino? Sissignore, lo ero. Ma mio padre e mia madre mi portarono a Woodstock che avevo dieci anni…

    Monroe accenna un timido sorriso. Per ora è tutto, agente Shepard. Voglio un rapporto dettagliato sulla mia scrivania entro stasera.

    Mentre infila il taccuino nella tasca del cappotto, Monroe viene avvicinato dal medico legale.

    Hai visto i cadaveri, John?

    Ciao, Mike. No, non ancora.

    Vieni, ti faccio strada.

    Monroe, accompagnato da Mike Barroso, entra nel soggiorno, dove ha il tempo di notare che non ci sono segni di un disordine particolare.

    Come sono morti?, chiede al medico.

    La donna ha il cranio fracassato, è stata colpita con la mazza da baseball., spiega.

    Un classico …

    Già. Il ragazzo, invece, è stato freddato con un’arma da fuoco. Una pallottola dietro la nuca, un’esecuzione. Dovrò approfondire, ma credo che entrambi siano morti all’istante.

    Più o meno quando?

    Un’ora, un’ora e mezza fa.

    Monroe e Barroso entrano nella cucina.

    Il detective si avvicina ai due cadaveri. Prima di esaminarli da vicino lancia una fugace occhiata all’ambiente, fotografandolo in ogni particolare: più tardi, a mente fredda e nel silenzio del suo ufficio, riavvolgerà il nastro e rivedrà tutto quanto, sperando di individuare qualcosa di rilevante.

    Si piega sulle ginocchia, sollevando i lembi del cappotto per evitare che strusci per terra. Con la punta delle dita scopre prima il cadavere del ragazzo, completamente immerso nel sangue. Dopo averlo ricoperto, si avvicina all’altro lenzuolo, quello che nasconde il corpo della donna. La osserva per qualche secondo in più, come se cercasse una risposta. Poi, torna dal ragazzo, scoprendolo ancora e studiandolo nuovamente per qualche momento.

    Trovato qualcosa, John?, gli domanda Mike Barroso, alle spalle.

    Monroe si alza lentamente e si volta verso il medico legale.

    Qui mi sembra tutto sottosopra!, commenta.

    Mike Barroso si guarda intorno.

    Non direi. Ho visto scene del delitto molto più caotiche!, osserva.

    Non intendevo questo, anzi. Quello che vedo non ha molto senso …

    Quando ce l’ha?

    Certo … ma i conti non tornano. L’omicida, che ovviamente non è il ragazzo, a meno che per suicidarsi non abbia deciso di spararsi dietro la nuca con un’arma fantasma invece che optare per un più tradizionale colpo alla tempia o al petto… dicevo, l’omicida entra senza forzare la serratura, quindi le vittime lo conoscevano e si fidavano di lui. Non ruba nulla, come mi facevi notare tu. Ma questo è un dettaglio. Uccide la donna, con la mazza da baseball, poi il figlio …, si blocca di colpo, cercando qualcuno con lo sguardo. Agente, abbiamo le generalità delle vittime?, domanda ad alta voce all’uomo in uniforme più vicino a lui.

    Certo, signore. Si tratta di … Margareth O’Neil e di suo figlio Julian, Julian Salt., afferma l’agente sfogliando il taccuino.

    Dicevo…, riprende il detective. La donna indossa abiti di casa, addirittura un grembiule: sembra che stesse cucinando. In effetti ci sono pentole sui fornelli, verdure nel lavandino…, indica Monroe avvicinandosi ad una vecchia macchina del gas. Ma non c’è una pentola unta, un coltello sporco, niente! Bizzarro, non credi?

    Magari aveva appena iniziato!, suggerisce Barroso.

    Può darsi, gli concede Monroe, poco convinto. Passiamo al figlio. Lui, invece, ha l’aria di chi era appena rientrato in casa: pantaloni eleganti, camicia e maglione...

    Barroso prosegue. Il ragazzo rientra proprio mentre l’assassino colpisce sua madre ma resta terrorizzato dalla scena. Per questo non reagisce e non ci sono segni di colluttazione. E’ questa l’altra stranezza che avevi notato, John?

    Non proprio, Mike. Si vede che fai un altro mestiere. La stranezza è che, col tempo che fa stamattina, il ragazzo sarebbe uscito con queste scarpe leggere, di tela. E non ha nemmeno calpestato una pozzanghera, non c’è uno schizzo di fango, una macchia d’acqua… niente. Non ti sembra assurdo?

    Non lo avevo notato…

    John Monroe volge il suo sguardo al corridoio.

    Voglio dare un’occhiata alla stanza del ragazzo.

    Cosa stai cercando?

    Riscontri. L’istinto mi dice che qui è accaduto qualcosa di strano che è sotto i nostri occhi, ma non riusciamo ancora a vederlo.

    Secondo me tu lo vedi eccome!

    Hai ragione, Mike. Mi sbaglierò ma quella della cucina mi è sembrata una messinscena. Voglio verificare se ho visto giusto…

    Monroe entra nella stanza di Julian Salt guardandosi intorno. E’ piccola, ammobiliata in maniera semplice ma funzionale. Pochi fronzoli, sembra la stanza di un ragazzo più grande.

    Senza dire nulla, indica le pareti, quasi interamente spoglie. Poi si dirige verso l’armadio, lo apre e osserva i vestiti ordinatamente appesi. Dopo aver esaminato il contenuto dei cassetti, passa in rassegna le altre due ante del mobile.

    Mike è curioso. Trovato qualcosa?

    No, per fortuna...

    Barroso non capisce.

    Come è stata uccisa la signora O’Neil?, incomincia Monroe.

    Con una mazza da baseball …

    Esatto. Questo farebbe supporre che, a meno che l’assassino non abbia il vezzo di girare con un simile arnese per le strade di New York, lo abbia trovato in casa. Ebbene, di solito chi possiede una mazza da baseball fa il tifo per qualche squadra e magari, oltre alla mazza, ha pure un guantone e una palla…

    Come minimo!

    Vedi poster di campioni di baseball? E nell’armadio del ragazzo non c’è nemmeno una maglietta dei New York Yankees…

    Allora la mazza non apparteneva a Julian Salt!

    Direi proprio di no. Anche se non possiamo escludere che sia il regalo di qualcuno che non conosceva bene i gusti del ragazzo…

    Che fai, John? Costruisci uno scenario e poi lo smonti da solo?

    E’ il mio lavoro: dubitare sempre di tutto, a cominciare da me stesso…

    2

    "Qui tutto fa colore,rifiuti e povertà

    Qui non è mai Natale,

    la noia qui non ha pietà!

    Sporchi stracci senza sorte, morte dove sei?"

    Renato Zero, Periferia, EroZero (1979)

    C’è un’atmosfera pesante in casa, come tutte le dannate sere. C’è la puzza di cucinato che non lascia presagire nulla di buono per cena,un dito di polvere sul tappeto macchiato del salottino e un disordine generale che nemmeno in un magazzino abbandonato del Bronx. Eppure non siamo nel Bronx.

    Perché deve essere sempre un incubo il ritorno a casa? E’ chiaro che per un ragazzo il mondo è fuori, al campo di basket in cemento o a quello di baseball a poche centinaia di metri da qui, in compagnia degli amici, di un pallone e di tanta spensieratezza. Ma non può essere normale odiare la vista di casa propria quando, all’imbrunire, scatta il coprifuoco e occorre abbandonare il gioco e tornare alla realtà. Una triste realtà. Fatta di incomprensioni, litigi, botte e recriminazioni continue; stravolta dall’abbandono, peggiorata dal livore e dal vittimismo che oscurano l’alba e pregiudicano il riscatto. Con quella continua, snervante sensazione che la scure del destino possa tornare ad abbattersi su di noi, per compiere il suo disegno, affamata di felicità proibite. Non bastano più la scuola, le amicizie, il gioco. Ogni distrazione dura il tempo di un respiro e se provi a farne uno più intenso ti viene una tosse da tubercolotico. C’è sempre quel fantasma minaccioso ad osservarti dall’angolo più nascosto del fondo dell’occhio, e tu non puoi fare a meno di vederlo, mentre leggi, mentre corri, mentre provi a ridere. E’ il fantasma della morte che aleggia su di noi, quella morte che dopotutto non fa così paura, se vivere è anche peggio di morire. Ma non è normale tutto ciò. Non alla mia età. E allora, ogni tanto, provi a farti coraggio, a sforzarti di credere che si possa fare qualcosa per fuggire da questa squallida realtà. Ma poi torni con i piedi per terra, appena senti l’odore disgustoso proveniente dalla cucina dove nemmeno se stessero cucinando un cadavere. E’ strano: hai quasi la sensazione, anzi la convinzione, che quel tanfo possa non abbandonarti mai, qualunque strada tu decida di prendere. E’ come se ti si fosse appiccicato addosso, lui come del resto quel fantasma della morte che non ti abbandonerà mai. E allora pensi: cosa fuggo a fare se poi, in qualsiasi altro posto, sarò sempre lo sfigato che sono qui, adesso? Cominci a sviluppare una certa abitudine, se vivi nella merda un po’ è anche colpa tua e allora, forse, non c’è posto migliore di questo per la meritocrazia. Tutto qui è meritato, questo ti insegnano: se non ti facessero il lavaggio del cervello, se non ti convincessero che, oltre a quella minestra, sei marcio pure tu, rischierebbero che il coraggio possa prendere il sopravvento sulla paura e sulla rassegnazione che, invece, non devono mai abdicare. E’ vietata qualsiasi illusione, tipo che sei migliore degli altri, che meriti una vita migliore, che sei sprecato quaggiù. Come fanno con mio fratello. Lui, il suo mondo migliore, se lo sta costruendo da diverso tempo. Ma deve farlo in gran segreto, perché, se lo scoprono quei poveracci che come corvi gufano sul nostro futuro, allora pure lui è fottuto. Io vorrei seguirlo, in quel mondo colorato e sfavillante di fantasia che ogni tanto disegna. Ma più che osservarlo e invidiarlo, non posso. Sembra così lontano quando ci si dedica, così bello quando muove quei pennelli sulla tela che ho paura di infestarlo anche solo con una parola:io sono un appestato, tutto quello che tocco rovino. Lui, di tanto in tanto, mi guarda. Di traverso, tra il bordo della tela dietro alla quale si nasconde e la porta della stanza che ha eletto laboratorio personale. In realtà è solo un ripostiglio, senza finestre e con una luce fioca che nemmeno al cimitero. Saranno sei metri quadri, non di più, oltretutto stipati con un po’ della robaccia che ci portiamo dietro da generazioni. Io, quando lo osservo,resto difuori,per rispetto e per la preoccupazione di guastargli l’atmosfera. Quando è concentrato su quelle tele, tutto storto perché il tetto è pure basso e lui è un colosso, costretto fra quelle quattro misere mura dove persino l’aria fa difficoltà ad entrare, avviene il miracolo più incredibile che sia mai esistito. I suoi colori demoliscono le pareti, la forza delle linee costruisce uno spazio incontenibile che esplode dall’interno e ci catapulta fuori, in un mondo dove tutto sembra possibile, bello, vitale. Veramente è più lui che vola via, immagino. Io però cerco di seguirlo, mantenendomi sempre ad una certa distanza, per evitare di fargli sentire la puzza che mi porto appresso.

    E’ fortunato, mio fratello. O meglio, è stato fortunato, perché in questa casa parlare di fortuna è come bestemmiare in chiesa. Quando da piccolino dimostrò la sua propensione per il disegno, mio zio, l’unica persona buona di questa famiglia, prese l’iniziativa di segnarlo ad un corso di pittura per bambini che si teneva nella parrocchia frequentata da nostra madre. Lei era contraria, figuriamoci. Mia madre è ignorante, cattiva, magari esagero, ma sicuramente non è stupida: capiva benissimo che se mio fratello avesse esplorato altri mondi avrebbe presto o tardi abbandonato il nostro. E questo lei non poteva permetterlo: si può essere abbandonati da un marito, ma da un figlio assolutamente no. Tuttavia, nonostante questa ritrosia, non si oppose più di tanto. Il patto era che però prima di tutto venivano i compiti della scuola, poi gli obblighi domestici, infine il corso di pittura.

    Inizialmente, non è che mio fratello fosse entusiasta di questa nuova esperienza. Per un bambino, tutto ciò che non è propriamente gioco risulta particolarmente indigesto. Ma col passare del tempo capì che quello era molto più di un gioco: la possibilità, l’unica possibilità, di crearsi uno spazio tutto suo che dapprima gli sarebbe servito per sentirsi migliore, poi lo avrebbe aiutato a convivere pacificamente con i turbamenti e l’infinita monotonia della realtà in cui viveva, infine avrebbe costituito il trampolino di lancio per evadere, non solo fisicamente, da questo mondo adimensionale. La pittura, la sua arte, sarebbe diventata il mezzo con cui fuggire, magari nel cuore della notte, quella notte infinita che solo in questa casa sembra più lunga degli inverni polari. Chissà se quando se ne sarà andato porterà nei suoi ricordi qualche immagine di noi, non dico con affetto o nostalgia, no. Magari come si fa con quelle cose che ci erano appartenute tanto tempo fa: trasloco dopo trasloco, ci ostiniamo a conservarle, le ammucchiamo in un angolo della soffitta dove resteranno per sempre a coprirsi di polvere, ma ogni volta che saremo tentati di sbarazzarcene interviene quella strana indecisione che ci consiglia di rimandare il falò. Ecco, mi piacerebbe che mio fratello facesse lo stesso con noi, magari solo con quelli che considera i migliori fra noi. In un angolo della soffitta, al buio, niente di più: altrimenti la puzza che ci portiamo sempre dietro finirà per appestare anche la sua nuova casa.

    3

    "Soli,

    non siamo soli, mai

    Vedi, ne abbiamo di amici, noi

    I sogni,anche i più logori e andati,

    non si son dileguati,

    si raccontano qua

    Artisti, costi quel che costi

    Siamo nati artisti,ci perdonerai

    I voli, incerti e disperati,spesso dirottati dalla fantasia

    Soli, in cerca di poesia…"

    Renato Zero, Artisti, Zero (1987)

    L’allestimento è pronto.

    A voler essere degli inguaribili perfezionisti, non si saprebbe dove puntare il dito. Del resto, la compagnia di professionisti che Alex Deverau ha arruolato nella sua squadra, sembra la nazionale di calcio del Brasile. Dal responsabile del marketing, all’addetto stampa, passando per il suo agente, tutti sono all’altezza della situazione. Le ultime esposizioni di Deverau sono state un evento mondiale e Mich Becks, uno dei suoi più fedeli collaboratori nonché genio dell’informatica, ha realizzato un sito internet dove è possibile assistere all’inaugurazione di questa mostra in diretta streaming, stando comodamente seduti davanti al proprio pc.

    Ma è chiaro che, con buona pace della tecnologia, il centro del mondo oggi è qui, a New York, alla Gagosian Gallery. I privilegiati che potranno ammirare dal vivo la nuova esposizione di Alex Deverau trascorreranno un pomeriggio indimenticabile, tra catering di alta qualità, fiumi di champagne, musica di classe in sottofondo e, naturalmente, i suoi quadri. C’è gente in fila da questa mattina, turisti, newyorkesi doc e semplici curiosi. E poi c’è la luccicante processione della New York bene, quella che arriva in Limousine e magari non sa distinguere un quadro ad olio da uno in acrilico. Fortunatamente, però, ci sono anche tanti appassionati di arte che qui, oggi, soddisferanno la loro insaziabile fame di magia grazie a quella che è stata unanimemente definita una delle più grandi pittrici contemporanee.

    Alex Deverau è chiusa nel suo camerino, allestito in una stanza piuttosto appartata della galleria. Se ne sta seduta davanti allo specchio, ha appena finito di disegnare una riga di trucco nero sotto gli occhi, per evidenziare l’azzurro dell’iride. Si osserva attentamente: i capelli lunghi, di un biondo luccicante e ben curato, le labbra carnose appena evidenziate dal rossetto e un velo di cipria sulle guance. La camicia bianca, la giacca color albicocca e quel sorriso triste che non è mai riuscita a migliorare.

    Fuori, in lontananza, percepisce il vociare discreto dei suoi ospiti, quel suono meraviglioso che ama così tanto ascoltare. Entusiasmo e rispetto, eccitazione e apprezzamento, silenzio e fragore, passato e presente. E’ il momento in cui si sente sospesa, tra ciò che la propria sensibilità ha lasciato sulla telae la reazione di chi osserva la sua arte da un altro punto di vista.

    In fin dei conti, la serata per lei sarebbe già terminata qui. Non ha mai molta voglia di incontrare tutte quelle persone. C’è sempre una punta di inadeguatezza in lei, un tarlo che pazientemente la divora dentro e che la fa stare a disagio: quelli sono i suoi sudditi, ma lei non è la loro regina. Se non fosse per l’opera di persuasione di Joshua Spencer, il suo agente, che la segue da molti anni ovunque lei vada, lì fuori non ci andrebbe proprio. E non è per vanità o perché non consideri l’audience alla sua altezza, semmai è il contrario. E’ come se, osservando le sue opere, la gente potesse in qualche modo guardarle dentro, più in fondo, più giù. Fino a scoprire una persona che lei odia, rinnega e vorrebbe dimenticare. La persona che era, il mondo da cui proviene, la mediocrità che ha conosciuto. Non c’è spazio, nei suoi quadri, per la malinconia; e l’astrattismo che li caratterizza le permette di volare in un mondo lontano, migliore. Eppure, lei conosce l’orrore e lo squallore: li ha respirati, vestiti, compiuti, esorcizzati e, infine, allontanati.

    Almeno fino a questo momento, quando bussano alla porta e sarà Joshua che mi esorta ad uscire, pensa.

    E’ lui, in effetti. Ma è lì per un altro motivo. Entra, sorride e gli passa una busta.

    Cos’è?

    Non ne ho idea! Va bene che sono bravo ma non ho la vista a raggi x!

    Scusami, è che sono un po’ tesa…

    Lo so, lo so. A proposito, che vogliamo fare? C’è un po’ di gente che muore dalla voglia di incontrarti…

    Sono pronta, afferma Deverau tirando un sospiro, vedo cosa c’è nella busta e arrivo.

    Joshua Spencer prende per buona la promessa ed esce dalla stanza.

    Alex resta sola con la busta e le sue titubanze. Ma ormai ha deciso: anche stavolta si darà in pasto ai leoni. Si prende però un ultimo, lungo momento per aprire la busta, una scusa come un’altra per guadagnare tempo. Strappa un lembo, poi l’altro. Tira fuori delle fotografie. Le volta, osserva la prima: ciò che vede è agghiacciante, è come se l’immagine si fosse materializzata e si sia spinta fino dentro le sue membra per toglierle il respiro e comprimerle il cuore. Per un attimo, Alex ha la netta sensazione di non sentirlo più pulsare. Quello che vede è familiare, terribile, angosciante, reale e surreale allo stesso tempo. E’ il passato, anzi potrebbe essere il presente, addirittura un momento tra il passato e il presente. E’ pazzesco e grave, incredibile e pericoloso. E’ la fine dei giorni, del riscatto e di tutte le cose belle che ha imparato a conoscere. E l’inizio di qualcosa di buio, nefasto, devastante.

    Sarà una lenta e inesorabile discesa all’inferno, qualcosa di annunciato e di prevedibile.

    Qualcosa che non potrà più essere rimandato.

    ***

    Al numero 1 di Police Plaza si lavora a ritmi febbrili.

    Il Capo del Detective Bureau, John Monroe, è in attesa del rapporto della scientifica. E’ già al terzo caffè, l’ultimo dei quali corretto con un goccio di liquore: lo tiene nel primo cassetto della scrivania, quello chiuso a chiave. Non che sia un gran segreto, la sua dipendenza dall’alcool. Tuttavia,non è il caso di ammettere pubblicamente certe debolezze, almeno quando è in servizio.

    Mentre annaffia la dracena che da anni abbellisce il suo ufficio, sente bussare alla porta: è Adam Shame, col sospirato rapporto.

    Qualcosa di interessante?, gli domanda.

    Questi, facendo spallucce, vorrebbe evitare di deluderlo. Io non l’ho letto, capo. Ma quelli della scientifica dicono che ci farai ben poco…

    Magnifico!, commenta Monroe, lasciando cadere l’annaffiatoio.

    Le tre pagine firmate dal capo della sezione scientifica sono, in effetti, abbastanza deludenti. Sull’arma del delitto ritrovata in casa, la mazza da baseball, non sono state rinvenute impronte diverse da quelle di Julian Salt, il ragazzo ucciso da un colpo d’arma da fuoco alla testa, precisamente dietro la nuca. Si è trattato, con molta probabilità, di una comunissima calibro 22, mentre la madre, la signora Margareth O’Neil, è effettivamente decedutaa causa del violento colpo che ha ricevuto tra la tempia sinistra e la nuca. Non è morta sul colpo, recita l’altro rapporto, quello del coroner Mike Barroso. I segni presenti sui polsi del ragazzo indicano che è stato legato, prima di essere ucciso. Nell’appartamento, non sono state rilevate soltanto le impronte delle due persone uccise, anche se sono la prevalenza. Non si conosce l’appartenenza delle altre perché il database non ha potuto associarle a nessuno dei criminali schedati nell’archivio di tutti gli Stati Uniti d’America. La serratura del portoncino, ma questo Monroe lo sa già, non è stata forzata ed è di quelle che non si possono aprire facilmente senza disporre della chiave. Anche le finestre non risultano danneggiate, dunque non ci sono elementi che autorizzino a pensare che l’assassinopossa essersi intrufolato nella casa senza essere stato volontariamente invitato ad entrare. Nonostante la giornata piovosa, non sono state rinvenute impronte di scarpe diverse da quelle delle vittime e dei due agenti che per primi sono giunti sul luogo del delitto.

    Nonostante la giornata piovosa, non sono state rinvenute impronte di scarpe diverse da quelle delle vittime e dei due agenti che per primi sono giunti sul luogo del delitto. Questo non è affatto deludente!, pensa Monroe annotando sul taccuino chiedere alla scientifica se le scarpe indossate da Julian Salt hanno lasciato qualche impronta.

    Nel mentre, squilla il telefono. E’ Malcolm Ceck, della scientifica.

    Allora, soddisfatto del rapporto? Abbiamo fatto prima che potessimo!

    Grazie, ottimo lavoro. Ma visto che ci siamo, vorrei chiederti un approfondimento.

    Ci vorrà del tempo, lo sai John…

    No, non mi fraintendere. Si tratta dell’interpretazione di una frase del rapporto. Ad un certo punto avete scritto che le impronte rinvenute appartengono alle scarpe delle vittime.

    Esatto.

    "Ecco, vorrei sapere se intendevate le scarpe indossate dalle vittime al momento del duplice omicidio o se si tratta di una comparazione con quelle che avete trovato in casa, negli armadi per esempio…"

    Ho capito. No, John: la madre indossava delle pantofole che non hanno lasciato tracce e lo stesso dicasi per le scarpe calzate dal ragazzo. Le impronte alle quali facciamo riferimento devono essere precedenti all’aggressione, magari la signora non lavava i pavimenti da qualche giorno…, commenta Ceck.

    Grazie per la precisazione, Malcolm: era quello che volevo sapere.

    Di niente, John. Mi spiace non poterti dire di più…

    Al contrario! Sei stato di grande aiuto!

    In effetti, il dettaglio delle scarpe è esattamente quello che Monroe attendeva per rinforzare la sua iniziale teoria. Non è molto, ne è consapevole, ma in un’indagine per omicidio l’importante è partire col piede giusto, con una traccia, seppur minima, che possa alimentare un’ipotesi e indicare una direzione.

    Forte delle sue convinzioni, John Monroe si alza dalla poltrona, afferra l’impermeabile ed esce dal suo ufficio. Destinazione: la scena del crimine.

    ***

    Quando Joshua Spencer entra nel camerino, Alex Deverau sembra morsa da una tarantola. Si muove freneticamente, raccoglie i suoi effetti personali, il cappotto, la busta.

    Che succede, Alex?, domanda spaventato.

    Ho un problema. Devo andarmene, non posso presenziare all’inaugurazione. Pensaci tu, dì che ho avuto un malore, che mi è morto il cane, che i ladri mi hanno svaligiato casa. Qualunque cosa…, ordina Deverau in evidente stato di agitazione, senza neppure guardarlo in faccia.

    Joshua non l’ha mai vista in queste condizioni e non può fare a meno di preoccuparsi.

    Così mi spaventi, Alex. Raccontami la verità, sai che potrei aiutarti…, la sua offerta.

    La donna si blocca, si volta verso di lui e gli afferra le mani. Non oggi, Joshua, non questa volta. Non preoccuparti di me ma della mostra e di quelle persone che mi stanno aspettando: non possiamo buttare mesi di lavoro per i miei problemi personali. Mi fido di te, ti chiamerò appena possibile. Adesso devo andare. Ciao!, lo saluta dandogli un bacio sulla guancia. Joshua rimane interdetto: in quel gesto così spontaneo e intimo gli è parso di percepire una forte tensione emotiva, quasi un tremore incontrollabile. Non obietta più nulla ma il disagio dura pochi istanti: la sua professionalità riprende il sopravvento e la mente si sintonizza sull’emergenza da affrontare.

    Alex Deverau, invece, è già balzata sulla fuoriserie rossa, parcheggiatanel retro. Nessuno si è accorto della sua fuga e quando passa davanti all’ingresso principale, sfrecciando a tutta velocità, le sembra di essere lontana anni luce dalla folla che si è radunata all’ingresso della Gagosian Gallery. Li osserva per un attimo, con distacco, dimenticando che sono tutti lì per lei. Ma la busta che riposa comodamente sulla pelle nera del sedile accanto al suo, la ha definitivamente strappata a quella realtà che, in fondo, sente non esserle mai appartenuta veramente. E quanto più velocemente si lascia alle spalle metri di asfalto, tanto più lontana si fa la percezione della familiarità con un mondo che oggi, alla Gagosian Gallery, si appresta a celebrarla senza di lei.

    4

    "Non ho dormito e vado via,

    innocente l’alba spia

    sulla ghiaia i passi miei,

    come i primi, mia madre, lei…

    E lascio tutto come sta,

    alla sua immobilità

    Hai la maglia?Non ce l'hai! Chi è al telefono? Che fai?

    Sempre gnocchi il giovedì

    Se stai al cesso, tutti lì

    Ma io no, non si può

    Respirare su misura, soffocare in quattro mura…"

    Renato Zero, Nafta, La coscienza di Zero (1991)

    Non pensavo potesse esistere qualcosa di più disgustoso dell’odore proveniente dalla cucina di mia madre. Esisteva, ed era tutto ciò che significava quell’odore, la carica di negatività che si portava dietro e della quale era fiera portabandiera. La penombra della sera, l’impulso depressivo che quella timida luce porta con sé, si sposavano perfettamente con quel fetore, sempre lo stesso, che aveva ormai intriso le pareti di casa. Era come se tutte le componenti giocassero la stessa partita contro di noi: erano troppe, dunque invincibili. La nostra casa sembrava un concentrato di forze oscure che avevano come unico scopo quello di tenerci perennemente con la testa sotto il fango. Quando mio padre decise che ne aveva inghiottito a sufficienza e se ne andò, la porzione pro-capite aumentò e nostra madre decise che avremmo meritato anche il dessert, e iniziò a rimpinzarci di sensi di colpa per la decisione maturata da papà. Non che fino ad allora lui fosse il nostro angelo custode, tutt’altro. Ma la sua assenza non fece che inasprire il caratteraccio di mia madre che, privata del suo bersaglio preferito, concentrò le angherie su di noi. Non faceva che accusarci di essere la causa dell’abbandono, salvo poi ricordarci continuamente di essere come lui, di avere i suoi stessi difetti e che, per questo, sperava che nessuna donna ci avrebbe mai voluti.

    Quando perdeva la testa e si lanciava nei suoi lunghimonologhi, io avevo il mio nascondiglio segreto: mi chiudevo in camera e lasciavo che il suono di un vecchio giradischi coprisse con la musica il frastuono di quelle urla disumane. Era un regalo dello zio, lo stesso che incoraggiava mio fratello con la pittura. Anche i dischi erano suoi, a volte me ne regalava pure qualcuno.

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