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Il Ladro che Contava i Cucchiai: Bernie Rhodenbarr, #11
Il Ladro che Contava i Cucchiai: Bernie Rhodenbarr, #11
Il Ladro che Contava i Cucchiai: Bernie Rhodenbarr, #11
E-book361 pagine4 ore

Il Ladro che Contava i Cucchiai: Bernie Rhodenbarr, #11

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Info su questo ebook

Da quando "Il Ladro in Caccia" entrò tra i best-seller nel 2004, gli appassionati hanno sempre chiesto a gran voce un nuovo libro avente per protagonista lo scanzonato Bernie Rhodenbarr dalle mani leste. Ora lo scassinatore più amato torna con una undicesima avventura che lo vede, con la sua amica lesbica Carolyn Kaiser, introdursi abusivamente in case, appartamenti e perfino un museo.
Un romanzo folle e divertente in cui si incontreranno pezzi d'argenteria delle Colonie Americane, un manoscritto di F. Scott Fitzgerald, un ritratto preziosissimo e una notevole quantità di bottoni. E, manco a dirlo, un cadavere, disteso su un prezioso tappeto...

LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2018
ISBN9781386302926
Il Ladro che Contava i Cucchiai: Bernie Rhodenbarr, #11
Autore

Lawrence Block

Lawrence Block is one of the most widely recognized names in the mystery genre. He has been named a Grand Master of the Mystery Writers of America and is a four-time winner of the prestigious Edgar and Shamus Awards, as well as a recipient of prizes in France, Germany, and Japan. He received the Diamond Dagger from the British Crime Writers' Association—only the third American to be given this award. He is a prolific author, having written more than fifty books and numerous short stories, and is a devoted New Yorker and an enthusiastic global traveler.

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    Anteprima del libro

    Il Ladro che Contava i Cucchiai - Lawrence Block

    Capitolo 1


    Verso le 11:15 di un giovedì mattina di maggio ero appollaiato sul mio sgabello dietro il bancone della Libreria Barnegat. Stavo leggendo Jubilate Agno, di Christopher Smart, ma nello stesso tempo guardavo di sottecchi una giovane donna snella in jeans e sandali. La sua camicia color kaki aveva quelle piccole alette per fermare le maniche quando le si arrotolano, e da una di quelle maniche arrotolate spuntavano alcuni centimetri di un tatuaggio. Non potevo capire di che immagine si trattasse, non se ne vedeva abbastanza, e non mi interessava indovinare, né speculare su quale parte nascosta della sua anatomia potesse esibire altri tatuaggi. Prestavo più attenzione alla capace borsa che aveva appesa a una spalla, e al romanzo di Frank Norris che aveva catturato il suo interesse.

    Poiché considererò il mio gatto, Geoffrey, lessi; e alzai lo sguardo verso la vetrina per considerare Raffles, che è il mio gatto. C’è una parte del ripiano della vetrina che il sole riesce a raggiungere nei giorni sereni e quello, col bel tempo o col brutto, è il suo posto preferito. A volte si stiracchia, come fanno i suoi simili, mentre a volte muove le zampe quando sta sognando topi. In quel momento, per quanto capissi, non stava facendo nulla.

    La mia cliente, invece, aveva recuperato un cellulare dalla sua borsa. Aveva posato il libro, e muoveva i pollici. Dopo un po’, mise via il telefono e, raggiante, portò Frank Norris al banco.

    L’ho cercato dappertutto, disse in tono trionfante. E ho fatto una fatica terribile, perché non ricordavo né il titolo né l’autore.

    Capisco come questo vi abbia complicato le cose.

    Ma quando ho visto il libro, disse agitando l’oggetto in questione, è come suonato un campanello.

    Ah.

    L’ho sfogliato, ed è lui.

    Proprio il volume che cercavate.

    Sì, non è bellissimo? E sapete che cosa è ancora meglio?

    Che cosa?

    "C’è in Kindle. Non è fantastico? Voglio dire, è un libro vecchio più di cento anni, e non è che sia come Huckleberry Finn o Moby-Dick, sapete?"

    Bèccati questa, Frank Norris.

    "Cioè, quelli sono famosi, e ci si può aspettare di trovarli come eBook. Ma Il Pozzo? Frank Norris? Eppure, l’ho cercato con Google, ed eccolo là; un paio di click e l’ho preso."

    Così, semplicemente, dissi.

    Non è grandioso? E sapete quanto costa?

    Probabilmente meno del libro che avete in mano.

    Guardò il prezzo scritto a matita dietro la copertina. Quindici dollari. Che è abbastanza giusto, voglio dire, è un libro che ha cento anni, e la copertina rigida e tutto. Ma volete sapere quanto l’ho appena pagato?

    Sì, vi prego.

    Due e novantanove.

    Bellissimo, dissi.

    Carolyn Kaiser, che lava cani due numeri più in là nella Poodle Factory, è la mia migliore amica e, più spesso che no, la mia compagna di pranzo. Chi è di turno prende il cibo in qualche take-away dei dintorni e lo porta nel negozio dell’altro. Oggi toccava a lei e, un’ora dopo che la ragazza col tatuaggio seminascosto aveva lasciato sul mio banco il povero Frank Norris, Carolyn entrò allegramente e cominciò ad apparecchiare per un déjeuner a deux.

    "Tenopace?"

    "Tenopace," confermò.

    Mi domando che cosa sia.

    Lei mise ne prese un boccone, lo masticò, lo inghiottì e considerò il problema. Non saprei nemmeno dire di che animale si tratta, disse. Men che meno quale parte dell’animale.

    Potrebbe essere qualunque cosa, o quasi.

    Lo so.

    Sia quel che sia, dissi, non credo che lo abbiamo mai mangiato.

    Ogni volta è diverso, ma è sempre squisito.

    O anche ottimo, dissi; e le raccontai di Frank Norris e della ragazza col tatuaggio.

    Forse è un drago.

    Il tatuaggio? O questo cibo?

    Entrambi. Lei è venuta nel tuo negozio per capire che libro cercava, poi ha comperato l’eBook da Amazon e si è vantata dell’affare che aveva fatto.

    Non sembrava volersi vantare, dissi. Voleva rendermi partecipe della sua vittoria.

    E fartici mettere dentro il naso, Bern. E non sembri neanche tanto seccato.

    No? Ci pensai e dissi. Be’, penso di no. Sai, era così candida. ‘Che bello! ho risparmiato dodici dollari!’  Alzai le spalle. Almeno mi ha lasciato il libro. Avevo paura che me lo volesse rubare.

    In un certo senso, disse Carolyn, lo ha fatto. Ma se a te non importa, non vedo perché dovrei essere seccata io per te. Questo piatto è buonissimo, Bern.

    Davvero.

    "I Due Tizi di Taichung. Chissà se lo pronuncio correttamente."

    Sono sicuro che le prime tre parole sono giuste.

    Le prime tre non cambiano mai.

    Il take-away, all’angolo tra Broadway e l’11esima Est, di fronte al Bum Rap, ha la stessa insegna almeno da quando posseggo la libreria. Ma ha ripetutamente cambiato proprietari ed etnicità nel corso degli anni, e ogni nuovo proprietario (o coppia di proprietari) ha cambiato solo le ultime parole dell’insegna. I Due Tizi di Tashkent sono diventati I Due Tizi di Guayaquil, poi I Due Tizi di Phnom Penh, eccetera.

    Cominciammo a dare per scontato che prima o poi il nuovo negozio avrebbe chiuso – evidentemente, non era una posizione fortunata – e, quando iniziavamo ad essere stanchi della cucina del momento, potevamo sperare che qualcosa di diverso ne avrebbe preso il posto. Benché raramente passassero più di alcuni giorni senza cibo da due nuovi gestori, vi erano parecchie alternative: la rosticceria, la pizzeria, il caffè-ristorante.

    Poi I Due Tizi di Kandahar buttarono la spugna, arrivarono I Due Tizi di Taichung, e tutto era cambiato.

    Chiuderò prima, dissi a Carolyn.

    Oggi è il gran giorno, eh?

    E la notte. Pensavo di tornare in centro in tempo per venire con te al Bum Rap, ma non ha senso.

    Specialmente perché tu berrai solo minerale Perrier. Bern, vuoi che ti accompagni?

    Direi di no.

    Sei sicuro? Perché non avrei problemi a chiudere presto. Devo solo passare al phon un Borzoi, e la sua padrona passa a prenderlo alle tre; anche se fosse in ritardo posso uscire per le tre e mezza. Potrei tenerti compagnia.

    Eri con me durante la missione di ricognizione.

    Solo un sopralluogo, disse con soddisfazione. Niente di che. Una bazzecola.

    Penso sia meglio se agisco da solo, questa volta.

    Potrei guardarti le spalle.

    Non voglio che le telecamere di sicurezza ti vedano due volte. Una va bene, ma due diventa sospetto.

    Potrei travestirmi.

    No, sarò io a travestirmi, dissi. E una parte importante del mio camuffamento sarà che questa volta non sarò accompagnato da una piccola donna con i capelli con un taglio da lesbica.

    Direi che ‘piccola’ suona meglio di ‘bassa’, disse. E non è proprio un taglio da lesbica, ma ho capito. E che ne dici se aspetto presso l’isolato di fianco? No? Okay, Bern, ma avrò il cellulare. Se hai bisogno di me . . .

    Ti chiamo. Ma non è probabile. Ruberò il libro, andrò a casa, e basta.

    Prima guarda su Amazon, disse. Vedi se hanno l’eBook. Magari ti risparmi un viaggio.

    Capitolo 2


    Martin Greer Galton aveva smesso di assillare i suoi simili nel 1964, quando un aneurisma cerebrale aveva fatto quello a cui avrebbero volentieri contribuito molte sue conoscenze e colleghi di lavoro. Dopo trenta e più anni vissuti come l’ultimo dei Baroni Ladroni e quasi altrettanti come avido pensionato, il vecchio si prese la testa tra le mani, emise un suono simile a quello di un corvo irritato e crollò a terra. Atterrò nel bel mezzo di un enorme tappeto Aubusson nella Grande Sala di Galtonbrook Hall, la montagna di marmo che era stata la sua casa e che sarebbe stata il suo monumento funebre.

    Galtonbrook Hall troneggiava a meno di mezzo miglio dal Columbia Presbyterian Hospital, e un’ambulanza arrivò nel giro di pochi minuti, ma non servì che avessero fatto in fretta. Martin Greer Galton, nato il 7 marzo 1881 a Latrobe, Pennsylvania, era quasi certamente morto ancor prima di toccare terra.

    Ora, cinquanta anni dopo, la sua casa gli sopravviveva. Aveva dedicato la prima metà della sua vita ad accumulare denaro e la seconda metà a spenderlo, collezionando a profusione oggetti d’arte, edificando Galtonbrook Hall per ospitare sé stesso nel corso della vita e i suoi tesori per tutta l’eternità.

    Questo, almeno, era il suo piano; e aveva finanziato l’impresa quanto era bastato per vederla realizzata. Quella che era stata una residenza era adesso un museo, aperto al pubblico sei giorni la settimana. Raramente i turisti si spingevano fino a Galtonbrook; le guide turistiche non la segnavano come attrazione principale, ed era lontana miglia dalla città e dal Miglio dei Musei della Upper East Side. Come risultato, raramente era affollato.

    Dovevate sapere della sua esistenza e dovevate avere una ragione per andarvi; e se eravate nei dintorni sareste probabilmente finiti a visitare i Cloisters del Metropolitan. Andremo al Galtonbrook la prossima volta, vi sareste detti; ma poi non ci sareste andati.

    Né Carolyn né io ci eravamo mai stati fino alla nostra visita di cinque giorni prima, di giovedì pomeriggio. Eravamo rimasti ad ammirare il ritratto di un uomo con un cappello piumato, che la targhetta di bronzo indicava essere un’opera di Rembrandt. La guida che avevo consultato aveva qualche dubbio e ripeteva una vecchia osservazione: Rembrandt dipinse duecento ritratti, trecento dei quali sono in Europa e quattrocento negli Stati Uniti.

    Quindi è un falso, disse Carolyn.

    Se lo è, dissi, lo sappiamo solo perché ce lo dice la guida. Potremmo andare a vedere i Rembrandt al Metropolitan, e sapremmo che sono autentici, ma lo sapremmo solo per il posto dove sono esposti. E avremmo pagato venticinque dollari a testa per vederli, invece dei cinque che chiedono qua, e avremmo gente che ci spintona e ci respira sulla nuca.

    Odio quando capita. Questo è un bel quadro, Bernie. Dal volto del tizio sembra di ricavare tutte le sfaccettature della persona.

    È vero.

    Deve essere stato un gay non dichiarato, non credi?

    Per il cappello con le piume?

    No, è solo l’impressione che dà. Benché se non so quanto sia affidabile il mio gay-radar, anche perché siamo due secoli dopo. Ma il punto è che il quadro mi dice molte cose anche solo guardandolo, quindi che m’importa se è veramente di Rembrandt?

    Be’, a me non importa, dissi. Perché dovrebbe? Non sto mica pensando di rubarlo.

    Questo accadeva di giovedì, e adesso era martedì; il cielo era coperto, ma non si aspettava pioggia fino a dopo mezzanotte. Sarebbe piovuto tutto mercoledì, secondo il meteorologo di Canale Sette, con il loro esclusivo Servizio Meteo – benché non abbia mai capito che cosa ci sia di esclusivo in qualcosa a disposizione di chiunque avesse la televisione.

    Non importa. Il Galtonbrook chiudeva di mercoledì, quindi non ci sarei andato in quel giorno, pioggia o sole. E mi piaceva l’idea di fargli una visitina il giorno precedente a quello di chiusura. Sarebbe stato più difficile che notassero che mancava quello che avevo intenzione di prendere. Il loro Rembrandt, autentico o no, era al sicuro, come tutto ciò che era appeso a un muro o posato su un piedistallo.

    Ma lo stesso, non vedevo come potesse far male un giorno di sicurezza in più dopo la mia visita.

    Così, quella mattina avevo lasciato il mio appartamento con intenti criminosi e una tasca dei miei pantaloni conteneva un anello con piccoli aggeggi d’acciaio considerati dalla legge come strumenti da scasso, il cui semplice possesso costituisce reato. Invece non è reato portare una borsa per la spesa di D’Agostino, e che essa contenesse un cappellino con la visiera, una camicia sportiva e un paio di occhiali da sole, ma anche questi avevano la loro parte nel crimine che meditavo di commettere.

    Erano circa le tre quando portai nel negozio il mio tavolo delle occasioni, misi a Raffles dell’acqua fresca, chiusi tutto e me ne andai. Avevo sempre la borsa di plastica, e naturalmente i miei aggeggi da scasso non avevano mai lasciato la tasca dello scassinatore.

    La libreria Barnegat è sulla 11esima Strada, tra University Place e Broadway, e il Galtonbrook è sulla Fort Washington Avenue, in Washington Heights o a Inwood, a seconda di quale agente immobiliare stia cercando di convincervi. Il modo migliore per arrivarci è un elicottero, e probabilmente si potrebbe atterrare sul tetto piatto del museo; ma io presi la linea L fino alla 14esima Strada e poi la linea A su fino alla 190esima.

    In questo modo arrivai a tre isolati dal museo, e camminai per un isolato nella direzione opposta in cerca di un posto dove cambiarmi. Le cabine telefoniche andavano bene per Clark Kent, ma da quanto non ne vedete una? Quando il proprietario di uno spaccio dominicano mi disse che la toilette era solo per i clienti, tirai fuori un dollaro e presi una copia de El Diario. Lui alzò gli occhi – lo imparano appena il loro aereo atterra all’aeroporto Kennedy – e mi indicò una porta sulla parete di fondo.

    Quella mattina ero andato al lavoro con dei pantaloni beige e una T-shirt presa al Gap, originariamente nera ma lavata per anni sino a diventare un gradevole color grigio scuro. La camicia che avevo portato con me era di stile hawaiano, benché quel capo particolare probabilmente era arrivato da una fabbrica-lager nel Bangladesh senza mai passare nemmeno vicino a Waikiki. Aveva disegnati dei pappagalli, e si poteva quasi capire quello che dicevano.

    La toilette era piccola, ma sempre più spaziosa di una cabina telefonica. Indossai la camicia con i pappagalli sopra la mia T-shirt. Non era proprio un travestimento, poiché chiunque mi conoscesse mi avrebbe identificato subito. Ehi, ecco Bernie Rhodenbarr, avrebbe detto. Ma che diavolo ci fa con quella camicia orrenda?

    Ma non avevo scelto la camicia per ingannare un conoscente, né mi aspettavo di incontrarne uno. I pappagalli erano per gli estranei. La camicia avrebbe attirato l’attenzione, e avrebbero notato quella invece del tizio stilisticamente svantaggiato che la indossava.

    Inforcai gli occhiali da sole, misi il cappellino a visiera (blu, con il logo dei Met in arancione) e lasciai la bodega senza guardare il gestore. Se avesse alzato ancora gli occhi al cielo non era cosa che mi interessasse. Avevo ancora in mano la borsa per la spesa, ma ora conteneva solo El Diario, e avevo già pagato il mio dollaro per la sua utilità. Puntai di nuovo nella direzione da cui ero arrivato, gettando il giornale in un cestino che incontrai mentre mi avvicinavo al Galtonbrook.

    Io riconobbi la donna che prese i miei cinque dollari, e per un momento temetti che anche lei si ricordasse di me. ‘Oh, di nuovo voi. Bella camicia, ma dov’è la vostra piccola amica con i capelli tagliati alla lesbica?’ Ma lei si limitò a ringraziarmi e darmi un biglietto.

    Camminai qua e là, con un’altra lunga sosta davanti al presunto Rembrandt. Il museo era ancor meno affollato di come l’avevamo trovato Carolyn e io, ma ebbi come la sensazione che quei pochi visitatori mi notassero un po’ troppo. La camicia doveva attirare l’attenzione, ma non trattenerla. Un’occhiata, un’alzata di spalle e un’occhiata da un’altra parte – questo è quello che avevo in mente.

    Forse non era la camicia. Indossavo forse un cappellino della squadra dei Met in un territorio degli Yankee? Se anche fosse stato, avrebbe attirato sguardi ostili per la strada o nel cortile di una scuola, ma non in questo tempio della cultura.

    Oh, cavolo. Gli occhiali scuri. Non era nemmeno una giornata di sole, ma il discorso era un altro, perché chi è quell’idiota che tiene gli occhiali da sole in un museo? Non era un caso se il beffardo soggetto di Rembrandt mi sembrava più scuro di come lo ricordavo.

    Se la camicia doveva essere notata dalle persone, il cappellino e gli occhiali erano per le telecamere di sorveglianza. Mi avrebbero aiutato a nascondere la faccia, in modo che io fossi anonimo e non identificabile se qualcuno avesse riguardato i nastri. Ma se attiravano l’attenzione ancora prima . . .

    Alla mia sinistra, una donna di una certa età teneva gli occhi fissi sul ritratto, ma potevo sentire che faceva uno sforzo per non guardarmi. Se c’è una cosa che ogni newyorkese impara presto, è di non guardare in faccia uno squilibrato, e questo può essere particolarmente difficile se non gli vedete gli occhi, perché la sua mente disturbata glieli ha fatti nascondere dietro degli occhiali da sole.

    Retinite pigmentosa, pensai. Dirò che ho la retinite, è genetica, rende estremamente sensibile alla luce e alla fine mi condurrà alla cecità, e per questo voglio vedere ogni Rembrandt nel tempo che mi resta, e . . .

    Oh, santo cielo, dissi a voce alta, e mi tolsi gli occhiali, scuotendo la testa per la mia sbadataggine. Mentre li mettevo nella tasca della camicia, sentii che la donna si rilassava. I suoi occhi non avevano lasciato il quadro, ma il suo sollievo fu palpabile. Non ero matto, dopo tutto, ero solo distratto, e l’ordine del suo universo era stato ristabilito.

    Una cosa che avevo determinato durante la mia precedente visita era la posizione delle toilettes. Adesso ci andai, ma invece di entrarvi spinsi la porta senza contrassegni direttamente di fronte, che si aprì su una rampa di gradini in discesa. Feci qualche passo esitante, e vidi quello che avevo sperato, un labirinto di tavoli, scatoloni e schedari.

    Vidi anche una giovane donna che intuì subito la situazione. State cercando la toilette, disse. Avete girato a destra invece che a sinistra.

    Mi spiace, dissi. Che sciocco.

    Succede sempre, disse. È colpa nostra, che non abbiamo messo un cartello sulla porta. Questa porta, intendo. I bagni sono indicati. La loro porta ha una scritta che dice ‘Toilette’.

    Immagino che doveva essere ovvio, dissi, ma io quella scritta non l’ho vista; ho visto questa porta qua, che . . .

    Che non è contrassegnata, quindi avete pensato che fosse quella che cercavate e che noi volessimo solo essere discreti. Dovremmo proprio mettere un cartello su questa porta, no? Ma che cosa dovrebbe indicare?

    Hmm. Forse ‘Non-Toilette’ ?

    O magari ‘Dietro di voi’.

    Per amor del cielo, stava flirtando. E io pure, diciamolo. Era una biondina vivace, con una bella bocca e il mento aguzzo; gli occhiali da nerd la facevano sembrare una bibliotecaria sexy – cosa che poteva ben far parte del suo curriculum. Non vi è nulla di male a flirtare, ma per quello vi sono un tempo e un luogo giusti; e questo non era né il tempo, né il luogo.

    Bene, dissi, Sarà bene che io, ah . . .

    Mi voltai e me ne andai.

    Nella nostra visita precedente avevo dovuto attendere che il bagno fosse libero, ma questa volta, comodamente, lo era già. Mi chiusi dentro – o, più che altro, chiusi fuori gli altri – infilai la mano in tasca e tirai fuori i miei ferri da ladro.

    E mi misi al lavoro sulla finestra.

    Il piano principale del Galtonbrook era cinque o sei gradini al di sotto del livello della strada, e quindi la base della finestra era all’altezza del marciapiede esterno. Una robusta rete di protezione, di acciaio inossidabile, lasciava entrare la luce ma impediva l’ingresso a tutto il resto. Era tenuta fissa da una dozzina di bulloni, ed era collegata al sistema antifurto da un complicato intrico di fili elettrici. Avevo potuto esaminarla bene giovedì pomeriggio, e per aiutare la memoria le avevo anche fatto una fotografia col cellulare. Ora mi misi subito all’opera.

    Innanzitutto, l’allarme. Adesso era disinserito, naturalmente, e lo sarebbe rimasto fino alla chiusura notturna, così io potei lavorarci su senza fare partire tutte le sirene. Dovetti solo staccare un paio di fili e collegarli in modo differente, così che la finestra poteva essere aperta e chiusa senza scatenare l’inferno elettronico. È una cosa complicata e richiede conoscenza e un tocco delicato, ma non fu particolarmente difficile.

    Poi fu la volta della rete di protezione. I bulloni erano solidi e ben fissati, ma avevano la testa con il taglio per il cacciavite e sapevo che avrei potuto svitarli. Non avevo un cacciavite la volta prima, ma avevo una moneta da dieci centesimi, che era della misura giusta. Adesso, col mio cacciavite, fu semplicissimo.

    A metà dell’opera incontrai una vite un po’ più dura delle altre; e ovviamente proprio in quel momento qualcuno cercò di aprire la porta, la trovò chiusa, e vi bussò con forza.

    Solo due minuti, dissi.

    E ci volle proprio poco, perché riprovando riuscii a sbloccare il bullone, e tutti gli altri cedettero poi abbastanza facilmente. Me li misi in una tasca, tolsi di mezzo la rete di protezione, girai la maniglia e afferrai una finestra che, verosimilmente, non era stata aperta da anni.

    Non è che avesse molta voglia di muoversi, ma ci misi tutta la mia forza, ed ecco che si aprì, benché non senza dar voce ai suoi sentimenti. Se il rumore che fece fu sentito da qualcuno, posso solo supporre che lo attribuissero alla stessa crisi intestinale che mi tratteneva nel bagno.

    Mi spiacque richiudere la finestra, dopo tutto quello che c’era voluto per aprirla, ma lo feci; e questa volta i relativi effetti sonori furono minimi. Rimisi al suo posto la rete, ma invece di rimettere i bulloni la fissai con un paio di pezzi di nastro telato larghi tre dita, appena sufficienti a impedire che cascasse. Si sarebbe staccata subito se l’avessero tirata con le dita, ma chi lo avrebbe fatto? Mancavano solo dieci minuti, mi confermò l’orologio, all’ora di chiusura. Il bagno avrebbe potuto avere un altro visitatore prima che ci facessero uscire tutti dall’edificio, e uno o due dipendenti avrebbero potuto usarlo prima di tornare a casa; ma c’erano scarse probabilità che qualcuno andasse a toccare i miei piccoli preparativi.

    Ci misi un attimo a strofinare le superfici che potevo avere toccato. Non so bene come mai, ma avevo dimenticato i guanti, ma se anche li avessi portati non avrei potuto metterli prima di chiudermi nel bagno, e mi avrebbero tolto un po’ di destrezza manuale. Bastava usare una salviettina di carta e pulire con quella.

    Feci un respiro ed emisi un sospiro. Mi sembrava di avere dimenticato qualcosa, ma non capii che cosa. Attrezzi da scasso? Tasca destra dei pantaloni. Bulloni della finestra? Tasca sinistra, accanto al portafogli. Occhiali da sole? Taschino della camicia. Cappellino? Sulla testa. Camicia con i pappagalli? L’avevo indosso.

    Che altro? Il giornale in spagnolo? L’avevo buttato.

    Aprii la porta. Chi aveva bussato aveva superato l’urgenza di usare il bagno, o aveva trovato un diverso modo per soddisfarla. Il museo era ormai quasi vuoto, visto che mancavano pochi minuti alla chiusura delle porte. Lanciai un’occhiata di sfuggita al Rembrandt, mi tirai il cappellino un po’ giù sulla fronte, misi gli occhiali da sole e tenni la testa china mentre passavo dall’uscita.

    Camminai per un isolato con passo volutamente noncurante, aspettandomi un certo numero di cose spiacevoli: una voce allarmata, una mano sul mio gomito, il trillo di un fischietto della polizia. Non che me li attendessi veramente, ma non si sa mai.

    Nulla. Però non riuscivo a scacciare la sensazione di avere dimenticato qualcosa. Camminai per più di due isolati prima di arrivarci. Dannazione.

    Avevo dimenticato di usare la toilette.

    Capitolo 3


    Lo so, lo so. Ero stato in due bagni, prima nel negozio latino e poi nel museo: avevo comperato un giornale che non so leggere per andare nel primo, e commesso un reato nel secondo. E, in ognuno, ero stato troppo occupato per utilizzarlo nel suo modo tradizionale. Non ne avevo veramente sentito la necessità, non abbastanza per agire, ma adesso sì.

    Dannazione.

    Camminai ancora tre isolati e trovai un bar dal nome irlandese e una clientela prevalentemente latinoamericana. La TV era sintonizzata su una partita di calcio senza audio. Il barista, un tizio tarchiato con lunghi baffi, non sembrava contento di essere lì, e la mia presenza non lo risollevò. Portavo ancora gli occhiali da sole, e forse questo era uno dei motivi, perché che ci faceva un tipo strano con quegli occhiali in un bar poco illuminato?

    O forse era un tifoso degli Yankee.

    Non volevo nulla, ma dovetti prendere qualcosa per avere diritto al bagno. Non potevo bere birra,

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