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Il pozzo Zimmerman
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E-book179 pagine2 ore

Il pozzo Zimmerman

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Info su questo ebook

La vita di Franco scorre tranquilla nel piccolo paese sardo di Fluminimaggiore. Gli amici, giornate felici e incoscienti, qualche lavoro saltuario, la spiaggia e il mare. Molti intorno a lui decidono di prendere la via dell’emigrazione verso il nord. Lui resiste, non vuol piegarsi a quel destino. Ma l’unica possibilità di un lavoro stabile è rappresentata dalla miniera. E allora Franco, seppure a malincuore, decide di seguire quell’unica strada che a migliaia, in quelle terre, hanno percorso prima di lui. Dalla luce dorata del mare al buio dei pozzi, Franco diventa testimone e protagonista di fatiche e tragedie, di legami e solidarietà inimmaginate. E in un processo continuo di formazione umana e culturale, scopre e rivendica infine l’appartenenza alla classe operaia. La sua è un’esistenza scandita dallo sferragliare dell’ascensore che ogni giorno lo conduce, lungo l’abisso di un pozzo, nelle viscere della terra. Anche se poi, da quel buio, ogni giorno risale verso la luce, verso gli amici di sempre, verso una famiglia che si forma e ingrandisce in superficie, verso i nuovi interessi che la miniera ha saputo suscitare. Perché nel percorso dalla luce al buio, andata e ritorno, può generarsi una nuova coscienza, una nuova umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2011
ISBN9788863690910
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    Anteprima del libro

    Il pozzo Zimmerman - Marco Corrias

    Marco Corrias

    Il pozzo Zimmerman

    Storia di un minatore Dalla luce al buio andata e ritorno

    Con Franco Farci

    Presentazione di Bianca Berlinguer

    IL POZZO ZIMMERMAN

    Copyright © Marco Corrias

    Tutti i diritti riservati

    Foto di copertina tratte dall’archivio Bruno Murtas, Fluminimaggiore

    Impaginazione e produzione eBook a cura di Matteo Poropat – eBookAndBook.it

    Prima edizione digitale maggio 2011

    Presentazione

    Un pezzo d’Italia (ma anche di mondo) che scompare: e con esso di estingue una parte di memoria collettiva, di sistema produttivo, di storia del lavoro o della fatica. Vite e parole, esperienze e ricordi, sofferenze e morti che sembrano appartenere a epoche remote e, invece, arrivano a lambire i nostri giorni e hanno come data conclusiva il 1993, giusto l’altro ieri. Ad accentuare questa sensazione di illusoria lontananza, interviene, credo, un elemento particolare: quella che negli studi televisivi e sui set cinematografici viene definita «la luce». «La luce» è quell’insieme di colori e di sensazioni, di riflessi e di sprazzi che illuminano – con intensità variabile-un’immagine p un ricordo e li riproducono nella memoria.

    Nella memoria di noi che non siamo minatori ma – come leggiamo questo libro di Marco Corrias – anche in quella di coloro che sono, o sono stati, minatori, il ricordo della miniera non ha «luce».

    È un ricordo in ombra, oscurato, per certi versi cupo. Non è solo, quell’assenza di «luce», una dimensione fisica e ambientale, legata al fatto elementare che qui (in questa vita, in questa terra, in questo libro) si lavora, si fatica e si muore sotto terra. Quell’assenza di «luce» dipende da molti fattori. Dipende dal fatto che quello del minatore è un lavoro «sporco», nel suo primo ed elementare significato: è un’attività, cioè, che annerisce e illividisce la pelle, lasciando tracce indelebili e segni profondi e incancellabili. E dipende dal fatto, ancora, che nell’iconografia popolare e nel senso comune la vita della miniera inizia quando il sole non si è ancora levato e finisce quando è già tramontato.

    E, poi, le gallerie e i crolli, l’illuminazione debole e il nero come colore dominante. Ecco, questa uniformità di toni e di colori non è, certo, mera suggestione o elaborazione letteraria. È un’immagine di realtà: ma che rischia di trasformarsi in un dagherrotipo polveroso, in stereotipo rigido, in luogo comune banale. E rischia, quindi, di «spegnere» definitivamente la realtà delle miniere, una volta esaurita la loro attività produttiva e di consegnarla, buia e inerte, agli archivi della storia economica. È come osservare l’archeologia industriale dell’Argentiera o di Ingurtosu durante l’inverno. È appunto, e ovviamente senza «luce». Provate a visitarla durante l’estate: vi sembrerà rischiarata e animata da suoni e voci e colori. Sono suoni, voci e colori della memoria che ritorna. Una sensazione analoga ve la darà, io credo, questo libro di Marco Corrias. Corrias ha preso la materia buia e inerte di una storia conclusa e l’ha rischiarata e animata di vite vere, di esistenze reali, di biografie autentiche. Ha strappato all’oblio una vicenda umana e sociale che merita di essere ricordata.

    Bianca Berlinguer

    Capitolo primo

    Nessuno ai lati della strada principale. Nessuno sui gradini del bar. Nessuno che si segni con la croce o si ritragga furtivo dietro una finestra, per vedere passare, senz’essere visto, chi se ne va al camposanto. I fluminesi, in questo pomeriggio d’aprile tormentato dal vento, sono tutti dietro le bare di Stefano e Giovanni. Le nuvole si aprono e si chiudono passando veloci dalla punta di Pedrefogu alla corona rocciosa di is Concas. E a me sembra che in coincidenza con le note funebri della banda musicale il cielo si oscuri, per poi invece allargarsi in una luce argentata, che arriva a ondate e tutto avvolge, quando gli strumenti tacciono. C’è sempre un grande silenzio quando passa un morto nello stradone. Si dice proprio così a Fluminimaggiore: quando passa un morto. Come se in questa valle i morti fossero in grado di andarsene per loro conto al camposanto. Ma il silenzio che c’è oggi ad accompagnare Stefano e Giovanni, io non l’ho mai sentito. E non ho mai sentito neanche un peso così forte sullo stomaco.

    Dicono che il boato dell’esplosione sia arrivato, rotolando per i canali dei monti, fino alle prime case di Billittu. Forse è vero. O forse gli abitanti di quel rione hanno confuso l’esplosione con un tuono. Perché quella notte del 2 aprile 1979 lassù a Pedru Cara si erano riuniti tutti i diavoli dell’inferno. Pioveva, tuonava, lampava e tirava un vento che teneva svegli anche i cinghiali, rannicchiati nel tepore delle foscinas. Stefano e Giovanni erano alla fine del loro turno.

    Lavoravano nel cantiere di ricerche di Pedru Cara dopo la chiusura della miniera di Santa Lucia e l’assunzione alla Progemisa. Erano felici di lavorare in quel cantiere sulle montagne. Da lassù, affacciandosi su certi costoni di roccia, potevano vedere le case di Flumini, distese lungo la valle del rio Mannu, e immaginare le loro famiglie immerse nella quiete. Stefano aveva 32 anni e Giovanni era il padre di sua moglie. Dividevano gli affetti e quel lavoro comune di minatori che aveva finito per farli diventare amici più di quanto potesse farlo l’intreccio dei legami familiari.

    Quella notte a Pedru Cara mancava mezz’ora alla fine del turno e non si è mai saputo con certezza quel che accadde. Si sa soltanto che Stefano e Giovanni stavano trasportando dell’esplosivo dentro la benna di una pala meccanica, che guidava Stefano nello spiazzo antistante il cantiere. O forse lo stavano bruciando dentro il grande cucchiaio del mezzo meccanico, perché la polvere di mina avanzata dopo le volate, alla fine del turno, deve essere distrutta. E allora, ma nessuno lo potrà mai sapere, può essere che tra la polvere fosse rimasto un detonatore e che loro non se ne siano accorti. Oppure che un fulmine li abbia cercati e gli sia caduto proprio addosso. Fatto sta che in quella notte di bufera, quando le montagne, come dice Pinuccio, «s’azzapuànta a pari», si sbattevano l’una contro l’altra, Stefano e Giovanni sono saltati in aria, brandelli di uomini illuminati dai lampi.

    A salutarli sono arrivati da tutte le miniere. Delegazioni da Iglesias e da Buggerru, da Guspini e da Carbonia. Molti portano il casco sulla testa e indossano le tute blu. Tutti hanno il passo pesante di chi sente che sarebbe potuto essere al posto di quei morti. Distinti tra la folla, alcuni uomini dall’impermeabile bianco. Non sono minatori. Sono funzionari e dirigenti delle società minerarie. Si capisce dai loro impermeabili bianchi e candidi. Nessun minatore porterebbe mai un impermeabile di quel colore. Perché l’idea del fango e della polvere che possono sporcargli i vestiti un minatore se la porta dentro anche nei giorni di festa, o di lutto.

    L’angoscia, quel peso insopportabile alla bocca dello stomaco, mentre accompagnavo Stefano e Giovanni al camposanto, la sentivo come l’avevo sentita nel mio primo giorno, in fondo alla galleria -150 di San Giovanni.

    Ventitré più ventitré fanno quarantasei. Ventitré anni sono la metà della mia vita. L’altra metà l’ho trascorsa in miniera. La schiena mi prude di un fastidio diffuso, che nasce dalla roccia spigolosa su cui l’ho appoggiata. L’immagine di Stefano e Giovanni che se ne vanno al camposanto nel vento d’aprile non vuole uscirmi dalla mente. Avrei anche fame, ma più che altro è un’idea. A quest’ora, di solito, ho già aperto il sacchetto di carta che ogni giorno la Società ci consegna spacciandolo per un pasto. Non si può dire che la scatoletta di tonno, la bustina di affettato, il panino e la birra che vi sono contenuti siano immangiabili. La mangio da ventitré anni questa roba, e ormai i sapori si sono fusi in un unico, indistinguibile, gusto. Stasera però non ho proprio voglia di aprirlo quel sacchetto. Anche gli altri non sembrano avere intenzione di mangiare. A «+80» s’è fatto silenzio e gli stomaci sono bloccati.

    Il cancello principale della galleria è sbarrato. Se lo sono chiusi alle spalle i compagni del secondo turno e ora siamo in 24 ad occupare la miniera qui a Su Zurfuru. Stamattina alle dieci un compagno del sindacato si è attaccato al telefono e dal cantiere di San Giovanni ha chiamato Campo Pisano, Masua, Acquaresi, San Benedetto e Su Zurfuru.

    Era la telefonata che aspettavo: « È arrivato l’esplosivo, non possiamo rimandare, si occupa».

    Di corsa ho salito la rampa che porta a «+124», e ancora con l’affanno ho dato l’annuncio ai compagni dell’avanzamento, il punto più estremo della galleria sul fronte del filone metallifero: «Fermate le pale di tutti i mezzi: siamo in sciopero e in occupazione».

    Il Jumbo è immobile da quel momento, bestia gialla addossata alla parete di roccia, i fari spenti, il lungo braccio ritratto su se stesso. Macchina d’acciaio dal nome tenero, capace però di penetrare nella roccia più dura. Da dietro la bestia ogni tanto si sente uno scricchiolio. È il reparto notte, e quelli del primo turno, che sono entrati al lavoro questa mattina alla sette, uno dopo l’altro stanno crollando. Gli scricchiolii sono provocati dai corpi che si rigirano sui pannelli di polistirolo, gli stessi che usiamo per armare le volte delle gallerie. Li abbiamo trasformati in materassi. Scomodi, ma sempre meglio della terra battuta e umida che costituisce il pavimento di «+80».

    Per Su Zurfuru «+80» è come il cuore di un paese, la piazza principale. Qui ci si incontraprima di iniziare il lavoro, da qui le squadre partono per i cantieri assegnati dai capiservizio. È una piazza irreale, una pura indicazione altimetrica che significa 80 metri sopra il livello del mare, eppure è un cuore vivo. Su questa piazza s’affacciano il deposito dei carburanti, il magazzino dei pezzi di ricambio, l’ufficio del caposervizio e dei sorveglianti. Manca il carburante per il Jumbo? Lo prendi dal deposito di «+80». Ti serve un pezzo di ricambio o una lampada nuova o un paio di stivali di gomma? Trovi tutto qui, ai grandi magazzini di «+80». Da qui parte ogni turno di lavoro, qui si ritorna a fine giornata. Ci si siede per terra, si fuma una sigaretta, si attende che siano partite le volate, che poi sono le mine piazzate sulla fronte delle gallerie e collegate con gli esploditori. Insomma, tutto passa da qui. La chiacchierata allegra o la discussione politica, la decisione sindacale o il pronto soccorso per un compagno ferito. Solo che, a differenza della piazza del paese, a «+80» non si è mai visto il sole.

    Sono ormai le dieci di sera. Sono stanco e i piedi mi fanno male. Dovrei togliermi gli scarponi ma non ho voglia del benché minimo movimento, e poi forse avrei freddo. La luce dei neon sbatte sulle pozzanghere creando un effetto anice più acqua. È lo stesso colore lattiginoso che risalta sulla fronte lucida di Antonio Carrogu, ora che si è girato di fianco col volto verso le lampade. Sento che mi osserva ma faccio finta di niente. Ha un occhio socchiuso e sull’altro, aperto, ha arcuato il sopracciglio. È il suo modo di dirmi che mi sta osservando e che sa che io soche lo sta facendo. È uno « segau a cavua», Antonio, tagliato con la roncola, ruvido. La voce, già baritonale per conto suo, si fa cavernosa e allo stesso tempo alta, urlata, quando è impegnato in una discussione. Su quella sua voce e su tutto il resto del suo aspetto Antonio scherza volentieri, e specie quando si trova davanti alle donne, racconta sempre la solita storiella. Dice, con finto orgoglio incomprensibile a chi l’ascolta per la prima volta e non ne conosca quindi il carattere burlesco, di aver ingoiato da piccolo un’arancia intera e che ancora se la porta incastrata tra la gola e l’ugola.

    «Stavolta quei burdi ci vogliono fregare davvero», mi fa, incurante del mio sguardo volutamente lontano. «E se non togliamo fuori le palle quelli ci sbranano. Ci toccherà tornare a fare fascine, se non stiamo attenti».

    Ventitré più ventitré fanno quarantasei. È stato ventitré anni fa che sono diventato minatore.

    Era una sera di maggio, di quelle sere che annunciano l’estate e nient’altro. I gradini di travertino della piazzetta dopo l’inverno non erano più tanto freddi. E noi, voglio dire io e gli altri amici, come ogni giorno ci avevamo passato, seduti sopra, l’intero pomeriggio. La scorta comune delle sigarette era finita e ce ne stavamo lì a far niente, in attesa dei rinforzi di tabacco che sarebbero arrivati con qualche amico più in grana di noi, senza preoccuparci di darlo a vedere. D’altra parte c’era ben poco da nascondere. In paese ci conoscevano tutti, e tutti conoscevano la situazione. Il lavoro era raro da trovare, e noi, per la verità, non è che avessimo una gran fretta di trovarlo.

    Passavamo così pomeriggio lunghissimi e quasi mai noiosi, a dispetto del ripetersi di quel nulla fatto di chiacchiere, di occhiate furtive alle ragazze, di battute cattive e di sfottò all’indirizzo di qualche malcapitato perdigiorno. I nostri bersagli erano per lo più fissi, e a turno, ogni giorno, ciascuno di loro incassava la sua brava razione di insulti. Poteva essere il povero Palanchinu, barbone alcolizzato d’incerta provenienza, estate e inverno avvolto in un cappotto-straccio.

    Digrignava i denti e faceva la faccia feroce, Palanchinu, ma ahi lui quelle inutili esibizioni di orgoglio ferito finivano per sbriciolarsi contro il muro delle nostre risa sguaiate. Anche le maledizioni che ci spediva contro Fida Catta, madamina sardo-torinese caduta in disgrazia, subivano l’adeguato esorcismo del nostro sarcasmo. Fida Catta, che in realtà si chiamava Carta, ma che doveva la propria storpiatura del nome oltre che all’abitudine tutta fluminese di eliminare le erre anche alla sua passione per i gatti, accolti

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