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Operazione Madonnina: Milano 1973
Operazione Madonnina: Milano 1973
Operazione Madonnina: Milano 1973
E-book284 pagine4 ore

Operazione Madonnina: Milano 1973

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Info su questo ebook

Milano, 1973. Sono gli anni della grande industria cinematografica italiana, dell'Austerity, della cronaca nera prestata alla politica, della criminalità da farwest, della Polizia con le mani legate, dell'imprenditoria gangster, delle grandi penne del giornalismo. Travolti da questi sconvolgimenti epocali e dalla sfortuna del quotidiano, un funambolo della pubblicità col vizio del gioco contrae un debito di troppo, un oste milanese dalle mani grandi fronteggia lo sfratto della bocciofila che gestisce, un fiorista ciociaro raccoglie i frantumi del proprio chiosco devastato dagli stunt-men di un film con Alain Delon. La morte di un loro vecchio collega, di quando scavavano i tunnel della metropolitana, li riunisce al cimitero. Da qui in poi, il terzetto ne penserà di ogni per risolvere i guai di ciascuno, fino a scegliere di mettere in pratica la più assurda delle idee: rubare il simbolo più alto di Milano, per riscattare i soldi e se stessi. Tutto questo mentre nella Milano calibro 9 Ugo Piazza esce dal carcere, Dino Lazzati detto Fernet sublima i suoi articoli di nera con grande sensibilità letteraria tra una partita al flipper e un cornetto scaramantico, e il Mala, paranoico ispettore di Polizia, si guarda le spalle dalle ombre dei propri sicari. Da un'idea di Luca Crovi, un noir a tre penne, una commedia che al sorriso combina la tensione drammatica ed emotiva dell'Italia degli anni Settanta, gli anni che ci hanno insegnato che l'assurdo non è una sciocchezza, ma l'impossibile che si fa reale.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2013
ISBN9788875638795
Operazione Madonnina: Milano 1973

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    Anteprima del libro

    Operazione Madonnina - Riccardo Besola

    Martedì 23 giugno 1959

    1. E questo lunatico ronzare, nel sole, si fa inutile

    Milano, piazza San Babila, cantiere della metropolitana, ore 10.47

    Oh, africa torna qui! gracchia la voce roca e ferma del Pecòla.

    Se il Pecòla grida a questo modo è meglio fermarsi. E non importa che questa voce se ne esca da un corpo di un metro e sessantacinque centimetri per cinquantanove chilogrammi, da un grissino di uomo da niente, tutto nervi, naso d’aquila e Nazionali senza filtro. Non importa. Perché al Pecòla quando lo si sente parlare si capisce che è un dritto, uno che ha fatto un sacco di cose e che sa come farne un sacco di altre. Più o meno lecite.

    L’uomo chiuso nella tuta blu si blocca al termine della galleria buia e si blocca di colpo, come se quelle parole fossero morse che gli si attanagliano ai piedi, alle caviglie, ai suoi ventisei anni. Davanti a lui restano a guardarlo il cantiere aperto, la terra, i colori, la luce, il sole cocente di questa fine giugno, il cielo, là dove sorgerà la fermata di San Babila, i clacson, i palazzi, i passi frettolosi dei milanesi. Alle sue spalle lo fissa il tunnel buio, i suoi compagni di lavoro di cui appena intravede le sagome. Il morto. Le punte delle scarpe da lavoro rovinate e annerite restano lì, intinte appena nella luce chiara del sole.

    Torna qui baluba, t’è capì? gli dice secco la voce di Lorenzo.

    L’Angelo, chiuso nella sua tuta blu, resta immobile tra la luce, ammiccante e leggera, e quel buio menefreghista e pesante. Batte appena la palpebra sinistra, una goccia di sudore gli è scivolata giù e adesso gli brucia nell’occhio. Gli brucia che Lorenzo lo chiami baluba, gliel’ha detto mille volte che lui mica è un terùn, che non deve chiamarlo a quel modo. Ma Lorenzo se ne frega, è mezzo crucco e nella sua strana geografia son tutti africani.

    Si passa una manica sulla fronte. Una zanzara gli si appoggia appena su un orecchio, indecisa, se ne va, torna e se ne va ancora. Lui resta fermo, inerte a quel ronzio che va e viene. Fa caldo, oggi, un caldo che qua sotto sembra un piccolo inferno.

    Dai Angelo, dai. Non fare il pirla dice sbrigativo l’Osvaldo.

    Soltanto adesso, soltanto dopo aver sentito la voce chiara dell’Osvaldo, l’Angelo sposta la punta delle sue scarpe da lavoro rovinate e annerite, appena rischiarate dal sole, annegandole nel buio. Questa voce non l’ha mai chiamato né africano né baluba né in nessun altro modo che non fosse, semplicemente, il suo nome. Lo conosce ancora poco, come gli altri, eppure in quel poco, sente di potersi fidare di lui.

    Dai dice ancora l’Osvaldo.

    Allora l’Angelo si guarda le mani annerite e callose, sporche, le infila nelle tasche, inclina la testa e si muove piano, lasciandosi inghiottire da questo lungo tunnel oscuro che attraversa invisibile la città.

    La zanzara torna, ma non trova più nessun orecchio su cui posarsi. E nessun volto, o pelle, o corpo. Niente di niente. E questo lunatico ronzare, nel sole, si fa inutile.

    Martedì 27 novembre 1973

    La Nera di Lazzati

    Un colpo di Kodak

    Chissà cos’avrebbe pensato il molto onorevole turista giapponese che stamattina ha incrociato, tra gli archetti e le guglie sul tetto del Duomo, i tre bizzarri individui che ammiravano, rapiti, la Madonnina, se avesse potuto comprenderne il dialogo.

    I tre erano, infatti, i magutt¹ che secondo i registri dell’epoca, innalzarono e fissarono la statua, tutta d’oro ma non tanto piccinina, alla guglia più alta della cattedrale, il 30 dicembre del 1774, e da allora vegliano sul proprio operato, orgogliosi del proprio lavoro come solo un milanese sa essere. Non indossano il toni, questi tre spettrali operai, che a mani nude, e col solo ausilio di carrucole azionate dalla semplice forza umana, issarono la Madonna Assunta alta quasi 4 metri e mezzo sulla guglia maggiore: oggi, commentano con sarcasmo, per far quello che loro han fatto solo con le braccia, interverrebbe la tecnologia, certamente, un braccio meccanico, una gru, un elicottero del Genio. Lavorarono, ai tempi, a 108 metri da terra, senza caschetto, senza protezioni, forti solo della loro forza e agilità, e fors’anche, della fede: vederla così bella, quella Maria Assunta di due Giuseppe, scolpita nel legno dal Perego e forgiata dal mastro orafo Bini, scelta per vegliare a braccia aperte e proteggere la loro città, probabilmente li commosse e li motivò al gesto sovrumano di uno sforzo, è il caso di dirlo, senza cantiere.

    E ora, i nostri tre magutt, stan lì, a vegliare su di lei, ancora alla vigilia del suo bicentenario, che si celebrerà l’anno venturo, ancora oggi che è diventata il simbolo più rappresentativo della nostra amata città, un modo di dire comune, addirittura un motivetto internazionale, grazie al talento di Giovanni D’Anzi, che quasi quarant’anni fa, nel 1935, di notte, compose l’inno di vecchi e nuovi milanesi, di nascita e acquisiti, Oh mia bela Madunina.

    Chissà, dunque, cos’avrebbe pensato quel molto onorevole turista giapponese, se avesse anche solo lontanamente intuito di trovarsi accanto a tanto importanti personaggi, protagonisti della storia milanese, ma defunti e dimenticati; chissà se conosceva quel che scrisse nei suoi Quadri di Viaggio Heinrich Heine sulle statue del Duomo, che a mezzanotte tutti quegli uomini di pietra bianca scendono e vengono tra noi, nella piazza, a bisbigliarci vecchie storie segrete. Sicuro sarà rimasto stranito, il nostro ospite del Sol Levante, vedendoli scomparire nel nulla alla sua vista. Poi, certamente, li avrà dimenticati anch’egli, non considerando il fatto degno d’attenzione, acquistando una bibita al chiosco incuneato presso la guglia maggiore.

    E chissà che sorpresa, poi, coi suoi trentotto molto onorevoli compagni di viaggio, una volta calati per le anguste scale giù dalle guglie, non trovare più il deposito per apparecchi fotografici cui era stato loro chiesto, gentilmente, di consegnare le macchinette. Così è, che se sotto la Madonnina non si sta mai con le mani in mano, le mani leste non trovano requie: trentanove ospiti nipponici della nostra laboriosa città sono infatti stati alleggeriti di pellicole e obiettivi grazie a un finto chiosco, quattro cassette della frutta ridipinte, e un cartello in inglese, a dire il vero pure un poco maccheronico, che imponeva il divieto di trasportare le tanto affezionate macchine dei ricordi sullo spazio sacro del tetto del Duomo. Gli astuti ladri han fatto bottino di trentanove portenti della tecnologia fotografica di marca giapponese, tanto care a Senta Berger e Oliviero Toscani, ed una americana Kodak, depositata da una ridanciana e solerte turista dallo stato del Minnesota in coda per caso coi visitatori dal Sol Levante, cosicché l’ignominia ci colga da Oriente a Ponente.

    2. Senz’acca

    Via Ariosto, appartamento di Benito Malaspina, ore 8.14

    L’ascensore scivola lentamente verso il basso.

    Pare un boccone amaro che dal terzo piano viene inghiottito da una stanca gola ingabbiata, una gola di ferro. Le scale e i pianerottoli, intorno, lo deglutiscono muti. Soltanto uno stridio metallico, tra il secondo e il primo piano, prima dell’arresto a piano terra. L’uomo all’interno apre con cautela le porte libere, poi quella esterna in ferro, stando attento a che il meccanismo a scatto, nel richiudersi, non faccia nessun rumore. Poi l’uomo aspetta, immobile. Si guarda intorno, non c’è molto da vedere, la griglia della cassetta delle lettere, il passeggino che gli sposini del primo piano lasciano nell’angolo, la luce chiara proveniente dal gabbiotto della portineria. E non c’è nemmeno molto da ascoltare.

    L’uomo si mette allora a camminare piano, sulla punta delle suole in cuoio delle scarpe, tenendo il tacco sospeso. Sporge la testa nell’androne, a destra verso il cortile interno, e a sinistra verso la strada. Niente e nessuno. Muove un passo verso la luce diafana dell’uscita.

    Domani fanno due mesi! sente gridarsi alle spalle.

    Maria, la portinaia, spunta nell’androne dall’altra scala. Assieme a lei spuntano uno spazzolone, uno strofinaccio, un secchio d’acqua tiepida e un’accusa.

    Eh dice l’ispettore, ma è solo una vocale che sfugge, così, mentre lui, fermo, resta prigioniero.

    Due mesi che Mimmo se ne va col tram!.

    L’ispettore la guarda e non sa bene che sguardo gli viene fuori. Se potesse, con questo sguardo le direbbe che la Simca verde di suo marito Mimmo, rubata due mesi fa proprio nella strada qua dietro, di notte, non l’hanno ancora trovata e non la troveranno mai, probabilmente. Vorrebbe anche dirle che lui, con i furti d’auto, non ha niente a che fare. Il suo lavoro è un altro, in polizia. E se vuole conoscere i dettagli, di questo suo lavoro, può chiedere al commissario capo Puglisi, il suo superiore. Vorrebbe dirle questo e molto altro, con questo sguardo, ma crede di non dirle niente.

    Ha capito? insiste lei.

    Ho capito dice lui allisciandosi l’impermeabile già liscio, perfetto, e che perfettamente gli cade addosso. Mi fa il favore? le chiede.

    Favori, favori, sempre favori a tutti protesta Maria, ma sua moglie non ce l’ha qualche figurina da darmi?.

    Le sta raccogliendo. Ne ha un mazzetto così mente indicando la misura tra pollice e indice.

    Maria ha gli occhi fissi su di lui, gli occhi di chi ha appena ascoltato una cosa assolutamente falsa, ma nonostante tutto appoggia il suo armamentario a metà androne e si avvia verso il portone spalancato, il chiarore della mattina, la foschia bassa, la città. Si guarda intorno. Rientra.

    A posto commissa’. Nemmeno oggi la sparano, dice. Inforca straccio e spazzolone e si mette a lucidare, le piastrelle e i ghirigori già lucidi dell’ingresso lucido.

    Ispettore la corregge lui.

    Tanto è uguale, no?

    L’ispettore lascia che i tacchi delle scarpe battano il tempo dei suoi passi, spuntino guardinghi sulla soglia del portone. Benito Malaspina, ironicamente chiamato Mala dai colleghi, si stringe nel suo impermeabile beige e si guarda attorno. Unisce le mani a pugno davanti alla bocca e ci alita dentro, prima una e poi l’altra, un alito di vapore in questo freddo umido. Via Ariosto se ne frega. Poi le sue pupille si bloccano, muove un passo indietro, nell’androne.

    Ma no lì! gracchia la custode, Non vede che sto passando lo straccio?.

    E quelli? dice lui. Con il mento indica una Fiat 124 blu con a bordo due uomini. È ferma sul lato opposto del marciapiede, sigarette e motore accesi.

    Son gli amici del Fabietto.

    E chi è?.

    Come chi è? Il figlio dei mantovani. Quelli del secondo.

    I Corsi?.

    Corseri

    Ma sì. Corsi. Corseri. Corsetti. La odia in ogni declinazione. Lei. Le sue ciabatte. Le sue calze corte di quel marrone da vecchia che le strozzano il polpaccio, e quelle altre, di lana, inguardabili e basse, infilate sopra. Il suo camiciotto verde pisello. Il suo maglione rosso. I suoi bigodini gialli inforcati sotto a questo foulard nero da vedova. Il suo tono di voce, con quell’accento che se n’è rimasto a Bari e di fare le valige e partire per il nord non ne ha nessuna voglia. Il suo modo di sottovalutare la situazione. Il pericolo. Perché lui, Benito Malaspina, ispettore di polizia criminale in servizio alla Questura di Milano di via Fatebenefratelli, è in pericolo. Serio. Lo sa. Eccome se lo sa. Qualche mese fa ha ricevuto una busta anonima, proprio nella cassetta delle lettere, a questo indirizzo, e dentro ha trovato un collage di lettere ritagliate dai giornali. Gliel’ha giurata, l’Americano. Tre anni fa non doveva mettere sul piatto le prove contro Ugo Piazza, lo sa bene, non doveva. È che i suoi superiori hanno insistito tanto, l’hanno riempito di pacche sulle spalle, di sorrisi, di congratulazioni, di vedrai, farai, sarai. Il commissario capo Puglisi era in prima fila quando lui ha fatto l’eroe, ma ora che dell’eroe Malaspina se ne sono dimenticati tutti, Puglisi lo ha relegato ad un ruolo marginale.

    Cammina con le tue gambe fincé puoi.

    Su quel biglietto c’era scritto proprio così, fincé. Una minaccia senz’acca resta pur sempre una minaccia.

    Tre anni fa s’è condannato da solo. Avrebbe fatto meglio a tacere, a continuare a far finta di non sapere. Perché uno come Ugo Piazza a San Vittore non ci resta dei secoli e prima o poi esce e gliela fa pagare. Non si può sbattere al gabbio il cassiere della banda dell’Americano senza pagarne le conseguenze. Non si può.

    Non si può spostare? chiede malamente Maria.

    L’ispettore Mala fa un mezzo salto di spavento. Ha i nervi a fior di pelle.

    Sta tranquillo, dai. Un errore. Hai fatto solo un errore. Adesso te ne freghi. Non vedi, non senti e non parli. Vedrai che stiamo tranquilli, ripete ogni tanto sua moglie.

    Mala vorrebbe crederle. Solleva il bavero dell’impermeabile, inspira dal naso, profondamente, insacca la testa e si muove rapidamente sul marciapiede, raso al muro. Evita di guardare i due nella Fiat 124 blu, sigarette e motore accesi, perché saranno anche gli amici del Fabietto, il figlio dei mantovani del secondo piano, ma questo non significa che non possano avere i ferri e dei brutti pensieri. Non si fida. Di niente e nessuno. Non più.

    Commissa’ si sente richiamare.

    Fa un mezzo salto. Si ferma. Si gira. Ispettore, vorrebbe correggerla ancora, invece la guarda soltanto.

    Le figurine! gli grida la portinaia.

    Lui fa cenno di sì con la testa. Ci mancavano le figurine della Mira Lanza. Ma sono il prezzo perché Maria, ogni mattina, da tre anni a questa parte, ispezioni la strada come un segugio prima che lui esca. Da due mesi però s’è aggiunta la tortura del furto della Simca verde di Mimmo e lui, Benito Malaspina, come stamattina preferirebbe quasi rischiare di essere gambizzato piuttosto che subire le accuse sull’inefficienza sua e delle forze dell’ordine tutte nel ritrovare quell’ammasso di lamiere, vetri e motore travestito da automobile. Si volta e riprende a camminare, sempre più velocemente. Gira l’angolo, a momenti calpesta un cagnetto al guinzaglio di un’anziana alta come un fungo.

    Villano!, blatera quella.

    Ancora una ventina di metri lo separa dalla sua Prinz bianca.

    Ma quella distanza e la giornata gli sembrano infinite.

    3. Beba e il regista

    Piazza Amendola, ore 8.59

    La gallina muove su e giù la testa, ritmicamente.

    Qualche pulcino, intorno, la fissa immobile. Il becchime la fissa immobile. I piccoli numeri sul quadrante tondo la fissano immobili. Poi la sveglia si mette a trillare come se il mondo dovesse finire in questo preciso istante. Un braccio maschile si allunga da sotto le coperte, la mano tasta lo spigolo del comodino, lo segue, trova la sveglia, inavvertitamente la muove indietro, la fa cadere, le dita la inseguono, la trovano, la tastano, la spengono.

    Lorenzo Eller inspira col naso tutta l’aria della stanza buia, o quasi, si mette sulla schiena e la inarca, si stira. L’odore di sigarette aleggia ancora fra le pareti, fra i quadri incomprensibili, l’arredamento pop tanto di moda in questi anni d’avanguardia. Ha la bocca ancora impastata del vermut di ieri sera, quando la apre quello che se ne esce, assieme alle parole, è da dimenticare.

    Ma che ore sono?.

    In risposta ottiene un mugugno che non riconosce subito.

    Soltanto adesso, dopo questo mugugno che non riconosce subito, apre gli occhi di colpo, sbatte le palpebre provando a capire qualcosa di tutto questo buio che lo avvolge. Intanto con il braccio sinistro tasta il corpo sdraiato nel letto con lui, appoggia la mano a una spalla, la scuote.

    Oh.

    Mmmh dice la voce femminile, la voce che mai e poi mai Lorenzo Eller avrebbe voluto sentire alle otto del mattino qui, in questo letto che non è il suo, in questa stanza che non è la sua, in questo appartamento che non è il suo.

    Scosta l’angolo dalle coperte, si siede sul bordo del materasso, si strofina i palmi delle mani sulla faccia, poi si solleva e si muove alla ricerca dei vestiti, a partire dagli slip. Accende un piccolo abat-jour di plastica rossa, la luce è fioca. Sfila gli slip neri calzati sul paralume, la luce aumenta insieme alla sua idea, sempre più netta, di essere dove non avrebbe mai dovuto, anche se questa è già la terza volta in due mesi che si sente così. Se li infila, perde l’equilibrio e scivola a metà tra il letto e il piccolo frigobar. Il bicchiere appoggiato sopra cade sulla moquette arancione e gli rimbalza sul piede, con l’altro lo scalcia sotto al letto, finisce contro al battiscopa, rimbalza indietro, proprio un attimo prima che lui appoggi il piede sinistro su uno dei passi per uscire dalla camera. Il bicchiere gli si sbriciola sotto al piede e Lorenzo si taglia, un poco, e impreca, molto. Quando ha finito di imprecare circumnavigando la sala come uno zoppo, torna in camera e articola una domanda severa.

    Ma quante volte te lo devo dire? grida alla donna ancora nel letto, Sto parlando con te, Beba! quasi le grida.

    Oh, lascia in pace dice lei, e lo dice calma, con quel suo tono calmo da svedese calma, che è venuta in Italia in modo calmo, con un aereo calmo, per fare la modella delle riviste di moda, roba da donne. Tutta quella calma gliela regalano il suo metro e settantasette al netto di qualunque scarpa col tacco, un corpo da statua e questi capelli naturalmente e splendidamente biondi come spighe di grano al sole.

    Se mi addormento mi devi svegliare! dice lui agitato, si sposta in sala alla ricerca dei pantaloni, della camicia, della cravatta, della giacca, del paltò, delle calze, delle scarpe, del cappello, di una decenza che deve aver dimenticato nel bicchiere vuoto che ha schiacciato sotto al piede sinistro, esplosione di vetri sulla moquette. Sposta una sedia e la rimette com’era, sbattendola.

    Beba, calma, resta nel letto, impassibile.

    Ho una moglie, io, una famiglia, son mica free come te. T’è capì? dice lui, torna nella camera da letto, si avvicina a Beba, la scuote, T’è capì o no? le dice secco.

    Dormi come uno bambino dice lei aprendo calma gli occhi, guardandolo, piegando le labbra in un sorriso calmo dei suoi, in questa stanza buia illuminata nell’angolo dall’abat-jour.

    Ma quale bambino e bambino! Ce li ho a casa i bambini, due ne ho. Adesso quella chi la sente?.

    Tua marita?.

    Moglie si dice. Moglie. scuote la testa Senti dice cambiando tono, sedendosi sul materasso vicino a lei, carezzandole i capelli piano, muovendoglieli dietro all’orecchio, me lo fai un favore?.

    Soldi finiti dice Beba girandosi dall’altra parte.

    E dai, solo qualche spicciolo, su.

    Finiti.

    Per offrire la colazione al regista, mica son per me. Hai capito o no che non son per me?.

    Quale regista?.

    Ce l’hai un cerotto? dice lui guardandosi la pianta del piede.

    Lorenzo si solleva, si muove zoppicando verso la sala e finisce di vestirsi, intanto parla, perché solo così riesce a mentirle fino in fondo, mentre con lei lì davanti, con quegli occhi e quel corpo che sembrano possedere tutta la calma di questo mondo a lui gli monta su il nervoso e va a finire che non riesce a fingere in questo modo spudorato.

    Quale regista? chiede ancora lei.

    Dai che lo sai. Oh, ‘sto cerotto dov’è che lo nascondi? In cantina? dice Lorenzo zoppicando verso il bagno.

    Sono tre mesi che parli di regista, di film che io faccio, ma io non visto mai dice Beba sbucando dalla camera da letto, nuda come mamma l’ha fatta. Attraversa la sala, sparisce in cucina.

    Caffè? chiede.

    No dice Lorenzo, si siede sul divano, si pulisce il sangue sotto la pianta del piede con un pezzo di carta igienica, poi mette il cerotto, si infila il calzino, la scarpa, si solleva, e si mette a fare il nodo alla cravatta davanti a una specchiera ellittica, Allora?.

    Borsa è dietro divano. Ma io non visto mai regista.

    È sempre impegnato, come te lo devo dire, è gente di un certo livello quella, è già un miracolo che riesce a vederlo il sottoscritto, il grande Lorenzo Eller.

    Grande?.

    Oh, miss simpatia, ieri sera chi è che faceva le fusa? dice lui armeggiando con la borsa di Beba trovata a terra dietro al divano giallo, come ha detto lei. Sfila il borsellino, lo apre, prende due pezzi da mille, e poi altri due che a lasciarli lì orfani è un vero peccato. Le lascia la moneta. Lo rimette nella borsa.

    Rubato tutto? chiede lei, in piedi, vicina a lui. Con questa diamine di moquette che attutisce ogni rumore non ci si accorge di niente. Lorenzo la guarda negli occhi. Azzurri.

    Te li ridò, cosa ti credi? le dice inclinando la testa per baciarle un seno.

    Mai visto soldi da te, grande Eller.

    Lo vuoi fare questo film o vuoi continuare a fare i balletti per i Caroselli?.

    Va via, stonzo dice lei.

    Stronzo si dice. Stronzo. Con la erre, t’è capì?.

    Poi la porta sbatte alle sue spalle sul ballatoio affacciato sul cortile interno della casa di ringhiera. La targhetta di plastica con inciso B. Svensonn cade sulle piastrelle screziate. Quella B sta per Barbara, ma quando lui le ha fatto il provino le ha detto che le serviva un nome d’arte, e gliel’ha anche trovato, Beba, che è il nome di una attrice che a lui piace da matti. Lorenzo Eller cammina a singhiozzo e scende per la scala interna due piani, attraversa il piccolo cortile, s’infila nella carraia prima che lo spesso portone in legno lo sputi nella nebbia bassa di piazza Amendola, proprio davanti alla Fiera, a un cartello di divieto di sosta e al parcheggio dei tassì. Si guarda intorno, si stringe nel paltò verde, vede la Giulia milletré blu parcheggiata vicino all’edicola. La pianta del piede sinistro gli brucia, ma a lui viene da sorridere. Così, dopo un’occhiata veloce al Seiko automatico che ha al polso, decide di andare direttamente alla Solex di via Cenisio, l’agenzia di pubblicità per cui lavora da un paio d’anni. Solex, tra l’altro, proprietaria dell’Alfa Romeo Giulia milletré blu che si stacca dal marciapiede e s’accoda al traffico della mattina. Gliel’hanno concessa in uso dopo

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