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Confessioni di un evirato cantore
Confessioni di un evirato cantore
Confessioni di un evirato cantore
E-book552 pagine7 ore

Confessioni di un evirato cantore

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Info su questo ebook

Venezia, marzo 1791. Un agguato a sorpresa, nel pieno di un incontro amoroso.
Un omicidio. Poi il risveglio notturno. La scelta sofferta di un anziano possidente che si confessa con un giovane prete di campagna ai confini tra il Naviglio e l’Adda.
Si apre così uno squarcio sulla vita di Luigi Marchesi, primo sopranista del Teatro alla Scala, tra successi e pericoli, peripezie e compromessi, in una città divisa tra la dominazione austriaca e l’avvento di Napoleone.
Colpi di scena, battaglie, incontri e scontri con Cherubini, Mozart, Paganini e Foscolo. E il rimpianto del grande amore di Maria Cosway, che per lui dimenticò Thomas Jefferson e lasciò a Londra il marito e la figlia piccola.
Una delle pagine più sconvolgenti della storia tra ‘700 e ‘800, in una Milano in preda ai misteri e ai costumi sempre più disinibiti. Una discesa verso l’inferno, e una corsa contro il tempo alla ricerca della salvezza eterna.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2013
ISBN9788875638689
Confessioni di un evirato cantore

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    Anteprima del libro

    Confessioni di un evirato cantore - Achille Maccapani

    OUVERTURE

    – Marchesi, arrendetevi!

    La porta si apre mentre sono intento ad amoreggiare con la contessa Vendramin. Di colpo mi stacco da lei. Tiro su i pantaloni e afferro la camicia.

    Lui impugna una pistola e la punta dritta verso di me.

    Lei indietreggia e si sposta sulla mia destra.

    Lo scruto. Focalizzo.

    Quella faccia l’ho già vista. Sì!

    È proprio il maggiordomo che mi ha aperto la porta.

    Questa è una trappola! Una maledetta trappola! Una fottutissima trappola!

    Gli attimi si susseguono. Un gioco di sguardi. Io immobile e fermo verso di lui. Lui immobile e fermo verso di me.

    Decido di reagire.

    Gli getto addosso la camicia togliendogli la vista. Mi volto di scatto. Spacco il vetro della finestra e mi ritrovo sul balconcino. Vertigine, paura del vuoto. Pochi metri, si può fare, penso.

    Salgo sulla balaustra in marmo. Non ho tempo per riflettere.

    Mi lancio con le braccia protese in avanti.

    Stringo i muscoli. Devo attutire il più possibile il colpo della caduta.

    Pochi istanti di volo nel vuoto. L’effetto della caduta. L’impatto.

    Che dolore! Sono a terra. Mi rotolo in avanti e guadagno spazio. Così posso rialzarmi subito e riprendere a correre.

    Via, senza paura!

    Sento dietro di me dei passi.

    Uno. Due. Tre spari vengono esplosi in rapida successione. I proiettili mi sfrecciano vicini.

    Tengo duro. Sì, mi inseguono.

    Mi volto.

    Non c’è solo lui. Ce ne sono altri. Vestiti in modo quasi uguale. Tutti corrono verso di me.

    – Arrendetevi, siete un uomo morto!

    Un altro sparo.

    Il proiettile supera la mia spalla destra lasciandomi illeso.

    Intanto vedo avvicinarsi una curva. Un incrocio.

    Bene, ci siamo quasi...

    Uno, due, tre passi, poi volto subito a sinistra.

    Nessun portone all’orizzonte.

    Ma chi sarà mai stato a organizzare questa trappola? Possibile che... Ma sì, ne sono certo, sarà stata proprio lei. La malefica.

    L’onnipotente Luisa Rosa Todi.

    Al diavolo i pensieri! Ci vuole un’altra soluzione, presto!

    L’acqua!

    Salgo sul vicino ponte.

    Uno, due, tre, quattro passi, salita e discesa, mantengo un ritmo velocissimo.

    Loro corrono, e non smettono di urlare.

    – Arrendetevi, Marchesi! Tanto non ci sfuggirete...

    Inspiro affondo. Mi preparo. Mi faccio coraggio. Devo salvare la pelle.

    Ora sono pronto.

    Salto! Dritto in acqua.

    Scendo giù fino a inabissarmi.

    L’impatto nell’acqua del canale è terribile. Acqua stagnante. Alghe un po’ dappertutto. Devo farci l’abitudine, in fretta. Non ho alternative.

    Così tengo gli occhi aperti, trattengo il fiato e mi volto a sinistra. Inizio a nuotare con la massima rapidità possibile.

    Di colpo, sento un altro tonfo nell’acqua.

    Vado avanti. Altre bracciate. Avanti.

    Dietro di me c’è uno dei sicari. Non molla la presa.

    Accelero il ritmo della nuotata. Non mi fermo. Davanti a me ho acqua a sufficienza.

    Ma neppure lui si ferma.

    Ora vedo un’altra curva.

    Stavolta a destra.

    La affronto.

    Ma lui si è avvicinato.

    Mi ha preso per la caviglia... maledizione, mi ha afferrato! Devo divincolarmi. Inizio a ribaltarmi addosso a lui. Caspita, è forte, ha energia da vendere!

    Ora l’acqua tende a frenare i nostri movimenti, e non è per nulla facile trovare un modo per liberarmi dalla presa. Devo giocare il tutto per tutto, a mani nude. Lui crede di avere l’occasione ideale per acciuffarmi, intrappolarmi e riportarmi a terra, magari ferito, dimostrando che ce l’ha fatta da solo, senza l’aiuto degli altri che, trafelati, ci hanno seguito percorrendo le calli una dopo l’altra, fino a che... estraggo un coltellino dalla tasca dei pantaloni e glielo ficco dritto nella pancia.

    Inizia quasi subito a mollare la presa.

    Mi divincolo, restando sempre sott’acqua.

    Poi mi allontano cercando di far perdere le mie tracce. Il modo migliore è quello di continuare a nuotare senza riemergere in superficie, girare al primo incrocio possibile, per poi risalire e fuggire in chissà quale direzione. Con i pantaloni bagnati fradici, non posso andare in giro per Venezia sperando di passare inosservato.

    Fatto!

    Risalgo. Su, su, su. Finalmente!

    Respiro a pieni polmoni.

    Non resisto alla tentazione di vedere e di scoprire se ho davvero ferito gravemente quell’uomo. Mi volto verso il canale. Il corpo del sicario non si vede, ma dal profondo delle acque un fiotto di sangue gorgoglia possente. Ben difficilmente quell’uomo se la caverà. Gli altri suoi compari se la stanno dando a gambe, dopo che una signora da una finestra ha cacciato un urlo tremendo.

    – Sangue! Sangue!

    Dopo pochi minuti lo tirano fuori dal canale. Sembra privo di sensi. Non si muove. La camicia è tutta grondante di sangue. Devo averlo colpito con forza, ma come ho fatto? Mi sento fradicio, inzaccherato. Non posso più restare nascosto dietro il vicino portone. Devo darmela a gambe. Subito. Tornare in casa. Rifocillarmi. Decidere che cosa fare.

    Il cielo è coperto. Ci sono nuvole all’orizzonte.

    Per il momento sono ancora salvo.

    D’improvviso mi trovo seduto sul letto. La luce diafana del mattino s’è fatta largo tra le persiane della camera, scialbandomi il viso. Mi rendo conto con sollievo che si era trattato solo di un sogno. Un nuovo, maledetto sogno di morte. Non mi è bastato abbandonare Milano, cambiare ambiente e condotta di vita per provare a ricostruire nel tempo che mi resta un’esistenza diversa, più dignitosa.

    Il ricordo mi ossessiona. Mi angoscia. La paura di morire, di ritrovarmi a dover affrontare i guai che ho combinato, i peccati che ho commesso, le cose strane che mi sono accadute, non mi abbandona. Anni fa, durante un incontro tra amici a Milano, un uomo, che aveva fama di essere uno studioso di scienze, disse che quando cerchiamo di dimenticare il nostro passato, quando proviamo a togliercelo di mezzo rivolgendo altrove il pensiero, ecco che esso, inatteso, riemerge dai flutti del mare magnum di quel mistero incredibile che è il cervello umano attraverso i sogni.

    Più di una volta ho affrontato situazioni come quella vissuta in sogno, riuscendo sempre a cavarmela. Ma se mi si presentassero ora che sono prigioniero di questo corpo vecchio, stanco, malato, non avrei scampo.

    Quel sogno rappresentava un segnale. Il segnale che la corsa stava finendo. Come il viaggio in carrozza che avevo fatto da Milano per giungere in questa villa, nella quiete della vita agricola, nella calma e nel silenzio delle vicine campagne.

    Non posso rimanere indifferente. Non posso permettermi di far finta che stanotte nulla sia accaduto, perché non è vero. Il mio destino, il mio futuro, ciò che potrà accadere dopo la fine della mia vita, dipende dalle scelte che sono chiamato a fare. Non posso più rinviare.

    Mi alzo dal letto. Quasi trascinandomi, mi accosto alla finestra.

    Pochi passanti, attirati dai rintocchi della campana, si affrettano per raggiungere la chiesa.

    Mi dirigo verso la porta. Ho ancora tempo a sufficienza. Ho riflettuto parecchio. Ho ponderato le opzioni rimaste aperte. Ora non mi resta che agire.

    Lei aspetta una risposta. Ha fatto di tutto per convincermi della bontà dei suoi consigli. Me li ha ripetuti per anni. E io non le ho creduto. Me li spiegava con pazienza. E io che facevo di tutto per cambiare argomento.

    Così, dopo aver percorso il lungo corridoio in totale silenzio, raggiungo lo studio.

    Mia amata Maria,

    Vi scrivo dopo aver meditato a lungo sulle Vostre parole, in ispecie quelle scambiate nel corso del nostro ultimo incontro a Lodi.

    Credo proprio che Voi abbiate ragione. Mi devo decidere. La salvezza dell’anima mia non ammette ulteriori ritardi o inutili rimandi. La mia salute diviene ogni giorno più fragile e sento approssimarsi la fine dei miei giorni.

    Come ben sapete, una buona e ostinata parte dei miei dubbi derivava dalla sfiducia, per non dir altro, che da tempo nutro nei confronti degli ambienti ecclesiastici e di quelli curiali in particolare. Ho avuto modo di conoscere, a Milano, quei corridoi fin da giovinetto, quando cominciavo a intonare le prime melodie sotto le navate del Duomo. Ho preferito sino a ora tenermi a debita e opportuna distanza.

    Come già accennai, però, nel corso del mio attuale soggiorno, ho avuto fortunatamente modo di apprezzare il sacerdote della zona. Don Francesco, bergamasco di Pontirolo Nuovo, di famiglia contadina, si è trasferito da pochi anni a Inzago, destinazione della sua prima nomina. È stato per me facile e salutare scorgere nelle sue parole e nei suoi comportamenti l’entusiasmo spontaneo, la fresca gioia dell’agire, la generosità verso il prossimo e la serena consapevolezza della propria missione. Doti rare, e che Vi invito, qualora voleste, a scoprire. Anzi, sarei davvero lieto se anche Voi poteste incontrarlo, per confermargli la bontà di queste mie intenzioni.

    Ho accantonato i dubbi e ritengo che don Francesco possa essere davvero l’atteso intermediario che potrà condurmi consapevolmente ai Santissimi Sacramenti. A lui penso inoltre di potermi rivolgere per una felice destinazione delle mie sostanze. Desidero infatti che i beni, frutto sì di una fortunata carriera artistica, ma anche di condotte peccaminose, lascive e orrende, vengano messi a disposizione dei poveri della mia attuale comunità, magari attraverso la costruzione di un ospedale.

    Vogliate accettare il mio ringraziamento caloroso e sincero, soprattutto per avermi nel corso degli anni ostinatamente incoraggiato e spronato a intraprendere questo nuovo cammino che ora ho davanti. Senza la vostra ripetuta sollecitazione, mai mi sarei riaccostato alla fede dopo averla allontanata sin dalla giovinezza per inseguire grette ambizioni di riscatto sociale.

    Non disperando d’averVi mia ospite, mi auguro sinceramente che Voi rimaniate in buona salute come l’ultima volta che Vi vidi e che il buon Dio continui a preservarVi e a proteggerVi nella quotidiana azione di carità che avete coraggiosamente intrapreso.

    Vogliate accogliere da parte mia i più deferenti ossequi.

    Inzago, 5 novembre 1827,

    Vostro Luigi

    ***

    È stagione. Pochi giorni ancora e sulle acque dell’Adda cominceranno a soffiare le nebbie.

    Nebbioni pesanti come coltri, soffocanti, che tolgono la visuale e impediscono la prospettiva. Il cielo cupo e la nuvolaglia bassa di questo umido mattino paiono messi lì per ricordare quello che accadrà nei prossimi lunghissimi mesi.

    Ancora non vi ho fatto il callo.

    Mai avrei creduto di dover faticare tanto per adattarmi a questi luoghi.

    Se ripenso alla soddisfazione che avevo provato il giorno che appresi che l’arcivescovo Gaysruck mi aveva destinato proprio qui, nella parrocchia di Inzago, a una manciata di chilometri da casa, in un ambiente rurale come quello in cui ero stato allevato.

    La prossimità dei luoghi, stranamente, non ha mai favorito una mia piena integrazione. Sento, so di non essere parte di questa comunità, ma in una posizione defilata.

    Non mi riesce di intromettermi nei discorsi della gente, non riesco a pronunciare quelle parole, in quell’impasto di milanese, cremonese e trevigliese.

    L’ambiente, poi! Mondo rurale, pensavo. Ho invece capito come la nervatura del paese fosse costituita da pochi proprietari terrieri. In definitiva, un ristretto e ricco manipolo di nobili e di borghesi d’alto lignaggio, colto e preparato, che non abbisogna di intermediari per ben comprendere le funzioni religiose.

    Seguo le voci e trovo in sacrestia i due chierichetti, già vestiti, distratti a giocare tra loro.

    Mi si fanno incontro per offrirmi aiuto, appena imbarazzati. Rifiuto. Recupero da me gli abiti sacri che il sacrestano ieri sera ha provveduto a lasciare appoggiati sulla panca dell’armadio. Sono pronto.

    Con un cenno della testa ordino ai chierichetti di prendere posizione ai lati della porta d’ingresso. Il maggiore dei due tira la corda della campanella.

    Due semplici rintocchi, il segnale del mio ingresso in chiesa.

    Dò una rapida occhiata ai fedeli che attendono, seduti nelle nuove panche della chiesa. Al suono della campanella si alzano in piedi, divisi tra i due lati, gli uomini nel lato sinistro e le donne in quello destro. M’inginocchio dinanzi all’altare, seguito dai due chierichetti posizionati ognuno al mio fianco.

    In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.

    In risposta giunge un amen stentoreo e profondo, il cui eco si disperde nell’aria che circonda l’intera struttura della chiesa. Quelle formule antiche simboleggiano il ricrearsi del miracolo della parola e dell’eucarestia, e riconfermano anche in me, povero peccatore e servo di Dio, il valore di questa fede, che non so quanti possano comprendere fino in fondo tra coloro che fugacemente rispondono all’invocazione come se conoscessero quelle formule in latino a memoria, forse perché le portano dentro di sé dalla più giovane età.

    Sono questi i momenti nei quali mi immergo completamente nella preghiera, nella comprensione del Verbum Domini che sto enunciando, che sto esprimendo ad alta voce, con le spalle rivolte ai fedeli e lo sguardo quasi sempre volto all’altare.

    In quei momenti percepisco il suono di quelle parole, di una presenza di persone che pregano, che condividono con me il riaffermarsi dell’eucarestia e del sacrificio di Cristo. Mi rendo conto di questa partecipazione nel momento dell’atto penitenziale.

    Confiteor Deo omnipotenti...

    È ormai vicino il momento della lettura, preceduta dall’orazione. Tutti si siedono mentre m’appresto ad iniziare a leggere l’epistola di san Paolo ai Romani.

    Sì, dobbiamo deporre le opere delle tenebre e rivestire le armi della luce. Chissà quale luce, penso. Impera sovrano il buio in questa chiesa di recente costruzione. La luce del giorno non riesce a irradiare i propri raggi. Le poche vetrate, situate in alto sulle pareti, illuminano a malapena le navate laterali, lasciando al buio quella centrale. Così soltanto l’accensione delle candele sull’altare maggiore, oltre che su quelli laterali riservati alla preghiera individuale, consente di ridurre quest’oscurità.

    I fedeli si rialzano in piedi per il canto dell’alleluia. Nel frattempo altri sono entrati in chiesa.

    Non riesco a cogliere quali persone siano giunte tra i banchi: devo procedere nella lettura del vangelo secondo Luca, mentre sto recitando la formula che precede l’inizio.

    Dopo una breve pausa per prendere respiro, mi avvio con un po’ di trepidazione. Ma non ne conosco ancora la ragione.

    Terminata la lettura del vangelo, non è prevista l’omelia: oggi è giorno feriale. Dò inizio all’offertorio: la consacrazione del pane e del vino.

    Dopo la breve oratio, si recita il Sanctus che precede la consacrazione del pane e del vino. Silenzio totale. Ma non riesco a vedere nessuno, sono sempre rivolto verso l’altare.

    Giunge il momento della comunione. Mi avvio verso i fedeli che si stanno disponendo in un’unica fila.

    Noto che è invece rimasto seduto, in una panca situata presso una delle prime file, un signore distinto, non più giovane, ma di un certo portamento. Avrà una settantina d’anni, lo sguardo chino verso il basso, con le mani giunte intento a pregare.

    Lo avevo visto qualche volta tra le contrade di Inzago, mentre camminava pensoso, sempre da solo. Non m’era capitato di vederlo qui in chiesa, e per giunta durante una messa feriale.

    Resto stupefatto per pochi secondi della sua presenza, proprio in questa occasione. Ma non ci penso più di tanto: devo impartire la santa comunione.

    Uno dopo l’altro i fedeli ritornano al proprio posto per poi inginocchiarsi e raccogliersi in preghiera. Dopo che si conclude il flusso della fila, mi riavvio pian piano verso l’altare.

    Mentre ripongo il calice con le eucarestie rimaste, dopo averlo debitamente ripulito col panno purificatorio, mi domando chi sia mai quell’uomo comparso di colpo, quasi senza preavviso. Probabilmente era venuto per parlare con il signor prevosto.

    È giunto intanto il momento di concludere la celebrazione. Con la benedizione finale.

    Ite, Missa est.

    Poi i due chierichetti mi si avvicinano e ci avviamo così verso la sacrestia.

    Raggiungo l’armadio. Salgo sulla solita pedana per togliermi i paramenti sacri. Firmo il quaderno delle celebrazioni.

    Proprio in quel mentre sento una voce chiara, cadenzata e apparentemente sicura, dall’ingresso della sacrestia.

    – Permesso? Siete voi, don Francesco... Zoja?

    Di fronte a me c’era il signore che aveva partecipato alla messa, ma non aveva voluto accostarsi al sacramento della santa comunione ed era rimasto, invece, assorto in preghiera.

    Lo squadro. È alto all’incirca un metro e settanta, ben vestito. Dev’essere assai benestante: gli abiti non sono certo quelli d’un fattore di campagna. Non era un paesano, ma non mi pareva neppure uno di quei nobili milanesi che si fermavano in paese nei fine settimana presso le loro ville campestri.

    – Sì, sono io. Cercavate forse il signor prevosto? Se volete aspettarmi un attimo, posso rintracciarlo...

    – No. Ho bisogno di parlarvi.

    Rifletto un attimo. Mi sento sorpreso.

    Il rumore improvviso della porta che si apre.

    Passi più vicini.

    È il prevosto, che poi si allontana.

    – Per quale motivo, signor...?

    – Marchesi. Mi chiamo Luigi Marchesi.

    – Signor Marchesi, appunto.

    – Ho bisogno di potermi incontrare con voi, don Francesco.

    – Per quale ragione, se mi è consentito di chiedervelo?

    – Ho avuto modo di potervi conoscere, sia pure a distanza, e di capire dopo profonde riflessioni che con voi posso trovare un punto di riferimento per riaccostarmi a Dio, a Gesù e ai Sacramenti.

    – Quindi?

    – Ho bisogno di vedervi, di parlarvi, di confessarmi. Non mi resta molto da vivere, credetemi. Non voglio essere risucchiato negli inferi dal Commendatore, voglio morire in pace con il conforto del Signore!

    Quel cognome, Marchesi, non mi era nuovo: ne avevo sentito parlare durante alcune riunioni in parrocchia, forse proprio da parte del prevosto, ma non mi ricordavo per quale ragione.

    Continuo nel frattempo a scrutarlo: doveva essere stato un bell’uomo da giovane, almeno per quel che mi pareva di capire dai lineamenti, anche se ora la sua fisionomia, dai tratti scavati, mi faceva ritenere che l’entusiasmo giovanile avesse col passare del tempo lasciato il posto a un’anzianità passata nel pieno del riposo più austero. Non capivo quale potesse essere tuttavia la fonte dei suoi guadagni o perlomeno del suo elevato tenore di vita, visto che non era neppure un nobile.

    – Va bene, signor Marchesi. Potremmo vederci domani mattina, dopo la messa delle sette, qui in chiesa, per poi recarci al confessionale.

    – Sì, ma...

    – Dite pure.

    – Credo che non basterà un solo incontro.

    – In che senso, signor Marchesi?

    Breve attimo di riflessione.

    – Vedete, don Francesco, forse non sono riuscito a spiegarmi in modo esauriente. E di questo mi scuso. Qui è in gioco l’intera mia esistenza, che ho trascorso nel peccato. È giunto il momento in cui devo riconciliarmi con Dio. Ne sono certo, la mia vita è finita totalmente fuori strada. Ora voglio ritrovare la via giusta verso il Signore.

    – Va bene, va bene, signor Marchesi. Ho capito. Sarà il primo di una serie di incontri al confessionale.

    – Bene, allora mi sento più tranquillo. Cominceremo da domani. D’accordo?

    – Sì, va bene. A domani, allora.

    – A domani.

    Stretta di mano. Poi se ne va.

    ATTO PRIMO

    – Maestà, abbiamo da farvi una gradita sorpresa.

    L’imperatrice Maria Teresa d’Austria si voltò verso il figlio Giuseppe, il nuovo coregnante. Incerta, ma nel contempo curiosa per l’iniziativa fuori programma prevista durante il pranzo celebrativo della sua visita a Milano.

    Il caldo in città era ancora opprimente durante quel primo pomeriggio di settembre del 1765. La morte del principe consorte Francesco Stefano di Lorena aveva fatto precipitare la situazione in tutto il regno: non solamente in Austria, ma in particolare a Milano, la cui dipendenza dai vertici di Vienna era ben più consistente di un cordone ombelicale.

    Puntuale e immancabile era iniziato il giro delle capitali per la presa di possesso del potere del novello coimperatore. Prima su tutte, Milano. I soliti incontri ufficiali con tutti i consiglieri di governo, la magistratura e l’esercito.

    L’intero protocollo della visita era stato pianificato minuto per minuto. Con l’eccezione del pranzo ufficiale, organizzato presso la sede della corte d’Austria, presso il palazzo dell’arciduca Ferdinando e della sua consorte Beatrice.

    Nulla ne lasciava intuire il carattere improvvisato. Erano state infatti accomodare ai posti assegnati le autorità milanesi, in base a un ferreo cerimoniale applicato con precisi criteri. Perfino l’ordine delle bandiere era stato studiato e ristudiato fino alla notte antecedente l’arrivo dell’imperatrice e del coreggente.

    Tutta Milano era in festa. Bandiere austriache sventolavano tra le strade della città dove transitava la carrozza con l’imperatrice e il figlio che stava imparando a fare l’imperatore, tra le urla gioiose della gente.

    Per il pranzo, i cuochi avevano lavorato duramente. Decine e decine di piatti con le più prelibate pietanze venivano serviti dai maggiordomi in livrea, mentre gli ospiti erano intenti a conversare amabilmente.

    Sullo sfondo, un’orchestra da camera eseguiva musiche di Haydn e di Händel. Soprattutto il genio sassone, tanto prediletto dall’imperatrice, era stato scelto per le sue composizioni strumentali, seppur poco conosciute nei teatri d’opera milanesi.

    A un certo punto l’imperatrice chiese di interrompere l’accompagnamento musicale.

    Fu subito accontentata.

    Da dietro la porta laterale di ingresso non riuscivo a capire cosa stesse dicendo, ma intercettai alcune frasi.

    – ... È importantissimo che Milano possa contare finalmente sulla presenza e sull’operatività di un grande teatro lirico, come il Burgtheater di Vienna. Questa città dispone di grandi intelligenze artistiche, dalla composizione alla drammaturgia, che potranno essere messe al servizio di una nuova era per l’opera. Dopo Gluck, ci aspettiamo l’avvento di nuovi compositori, austriaci e milanesi, ma anche di nuovi strumentisti, di nuove voci, per un rinnovamento del bel canto italiano, che possa davvero evolversi nel modo migliore possibile, e che veda sempre più unito l’asse delle due città: Milano e Vienna. Per questo mi complimento con questa eccellente kammerorchester, e mi auguro di tornare un giorno a Milano, quando ci sarà un nuovo teatro degno di questa città che mi ospita con grandissimo rispetto...

    Seguirono gli applausi di tutti gli ospiti e delle autorità presenti.

    Il maestro concertatore ricevette quindi il cenno di riprendere con il programma strumentale. Una suite händeliana, di quelle che erano tanto care all’imperatrice.

    Tra gli strumentisti, c’era il primo trombettista, Giovanni Marchesi. Puntuale negli attacchi, pronto a seguire il konzertmeister, un po’ emozionato per quanto sarebbe accaduto. Si era trasferito da parecchi anni da Modena a Milano con la moglie, al seguito dell’arciduca. Prima suonava nella fossa dell’orchestra dell’opera. Ora si dedicava alle musiche d’accompagnamento, ogni tanto alle arie operistiche, specialmente se erano a disposizione cantanti lirici di ottimo livello.

    Mio padre.

    Era stato inserito un fuori programma all’interno dell’elencazione delle musiche previste durante il pranzo di gala offerto all’imperatrice. Sarebbe stato il mio battesimo del palcoscenico. Pur avendo soltanto nove anni, mi esercitavo da tempo, prima in alcune formazioni corali per bambini, poi con il maestro di cembalo della corte, abituato ad accompagnare la piccola orchestra, specie durante le grandi occasioni.

    Erano tutti vestiti con abiti elegantissimi. Pure io, che attendevo dietro una porta di servizio. Ero sudato e pallido.

    Quando l’arciduca aveva casualmente sentito la mia voce, aveva voluto assolutamente incoraggiare i miei genitori: – Quel bambino ha del talento, Giovanni! Dovreste approfittarne, ha un’intonazione incredibile. Pensate cosa potrebbe fare da grande in un teatro. Ha una voce perfetta da soprano...

    Ecco. La mia voce bianca. Chiara. Fluida. Da soprano, pur essendo di sesso maschile.

    Una voce che piaceva, così dicevano.

    Una voce che commuoveva, così sostenevano.

    Una voce che conquistava senza riserva.

    L’orchestra continuava a suonare. Ancora pochi istanti, poi sarebbe stato il mio turno.

    Anch’io avevo scelto, su consiglio di mio padre, una romanza di Händel. Diceva che era adatta per la mia voce angelica. Quando l’avevamo provata, assieme al maestro di cembalo, mi aveva chiesto di essere più espressivo. Non capivo nulla del valore di quelle parole.

    – Ci siamo! È il tuo momento. Vai, Luigi...

    Mi diedero una spinta alle spalle, la porta si aprì, e mi ritrovai solo davanti all’orchestra pronta a cominciare.

    – Altezza, vorrà gradire ora una sorpresa. Signore e signori, l’usignolo di Milano: Luigi Marchesi!

    Partì un applauso dal pubblico seduto a tavola.

    Poi, quando lo scroscio si spense, il maestro concertatore fece partire l’intonazione del si naturale. Lo seguii pure io.

    Bene, ora si poteva iniziare.

    Osservai il maestro, affinché potesse dare il cenno d’avvio.

    Pronti...

    Lascia ch’io pianga

    mia cruda sorte,

    e che sospiri

    la libertà.

    Distendevo la voce con docile tensione. Seguivo il tempo dell’orchestra, respiravo con l’orchestra, ma non mi concedevo alcun vibrato. Ero piuttosto agitato, perché sentivo che quell’aria era rivolta a un pubblico adulto, e mi pareva di essere inserito in un contesto lontano dal mio mondo di infanzia.

    Però mi faceva impressione il poter cantare con un’orchestra da camera, davanti a un pubblico, e trovarmi intonato con gli strumentisti. Così, quando giunse la seconda strofa, quella dello sviluppo, prima della ripresa del tema, mi distesi un tantino di più.

    Il duolo infranga

    queste ritorte

    de’ miei martiri

    sol per pietà.

    Non pensavo affatto all’idea di concedermi qualche variazione, qualche vocalizzo in più. Ero troppo preoccupato di seguire bene la mia parte vocale. Semplicemente ero terrorizzato. Ma non volevo fare brutta figura. Sarebbe dispiaciuto tremendamente a mio padre. A lui piaceva la mia voce, e voleva che fosse apprezzata da tutti.

    Quando terminò l’aria, un lungo applauso si levò dai tavoli. A mano a mano, tutti si alzarono in piedi. L’applauso non accennava a diminuire. Mi sembravano piuttosto convinti. Mi sentivo molto frastornato. Tutte quelle luci, colori, camerieri in livrea, nobili vestiti in alta uniforme, un mondo mai visto prima.

    Dal tavolo centrale, l’imperatrice alzò il braccio destro, facendomi segno di raggiungerla. Mio padre, che aveva seguito il tutto a poca distanza senza farsi vedere, mi accompagnò con passo discreto.

    Intanto gli applausi non accennavano a diminuire. Mi trovavo così condotto a ricevere le felicitazioni della regnante d’Austria. L’emozione cresceva progressivamente. Cercavo di restare calmo, ma non era facile.

    Alla fine giunsi di fronte a lei.

    – Voi siete Luigi Marchesi.

    – È mio figlio, maestà – disse mio padre, inginocchiatosi dinanzi all’imperatrice, – ha nove anni, una voce di soprano meritevole, e una forte applicazione allo studio della musica.

    – Bene, bene... – rispose, accarezzandosi il mento, – conosco le opere di Händel, e credo fortemente nel valore della musica per la crescita delle nazioni. Anche Milano ha bisogno di voci valenti come quella di vostro figlio.

    Poi si rivolse a me: – Ditemi, Luigi, vi piacerebbe cantare in un grande teatro?

    La osservai. Non potei che rispondere nel modo più ovvio:

    – Sì, vostra maestà. Il mio più grande sogno è quello di studiare e di cantare in teatro e interpretare i ruoli degli eroi della storia, da Ariodante a Giulio Cesare...

    – Proprio come le opere di Händel... Bravo, Luigi.

    Infine ci congedò, salutando mio padre: – Mi raccomando. Questo bambino ha una voce favolosa. Non va dispersa. Merita di essere incoraggiato per diventare, un giorno, un grande cantante lirico che potrebbe poi calcare i palcoscenici di Milano e di Vienna.

    Il mio destino era segnato.

    Che stanchezza! Era difficile dormire in carrozza. Avevo anche paura per quello che mi aspettava di lì a poche ore.

    Dopo essere stato incoraggiato dall’imperatrice, tutta la mia vita era stata un turbine. Addio giochi, addio vita tranquilla in corte. Mi ero dovuto trasferire a Modena per prendere lezioni di canto. Lezioni a ritmo incessante. Dovevo diventare un ottimo cantore. Ma prima dovevo salvare la voce.

    Con una scelta decisiva e dolorosa: essere evirato.

    Non avevo alternative, mi spiegarono gli insegnanti. Altrimenti la voce sarebbe cambiata, e non avrei potuto più cantare in teatro. E questo mi dispiaceva tantissimo. Ormai tutti i giorni mi esercitavo nelle arie sacre, nei mottetti e anche nel repertorio operistico. La voce rappresentava tutto per me, la mia esistenza, i miei sacrifici, il mio desiderio di fare musica con gli altri, con un clavicembalista come pure con un’orchestra da camera, davanti a un piccolo o un grande pubblico.

    Un giorno questa voce sarebbe sparita per sempre. Non ci sarebbe stato nulla da fare. L’adolescenza, più vicina di quanto potessi pensare, sarebbe stata la fine delle mie aspirazioni, delle mie velleità artistiche coltivate fin dall’infanzia.

    Per fortuna, non sarei stato castrato. Mi dissero, anche se non lo capivo ancora, che non avrei perso tutto della mia virilità.

    Avrei dovuto, però, affrontare un’operazione chirurgica. Terminato l’intervento, mi sarei trovato con la voce intatta, e soprattutto con i testicoli svuotati per sempre: non avrei potuto purtroppo avere dei figli, se un giorno li avessi voluti.

    Ufficialmente, i miei genitori non avrebbero dovuto sapere nulla dell’operazione. Le leggi austriache erano molto severe: mio padre avrebbe rischiato di perdere il posto di lavoro alla corte. Non avevamo scelta: volevo cantare, diventare un sopranista, seguire le orme di Farinelli, di Senesino, dei grandi principi del canto d’opera. La responsabilità della scelta sarebbe stata soltanto mia.

    Decidemmo pertanto di inscenare una sorta di rapimento, organizzato da uno dei due insegnanti modenesi, Giovan Battista Caironi. Per farla franca, si fece in modo che il viaggio per Bergamo, luogo dell’operazione, non avesse inizio da Milano, bensì da Modena. Preferimmo partire di notte in carrozza, per non dar nell’occhio.

    Il mio era un sonno irregolare, interrotto dagli sbalzi sulla strada. Il continuo sballottamento della carrozza, trainata da una coppia di cavalli, lungo le strade che conducevano verso Bergamo, tendeva a riportarmi alla dura realtà notturna, fatta di percorsi quasi nascosti, a malapena rischiarati dalle lampade appese ai due lati del veicolo. Un percorso tortuoso, fatto di lunghi, lunghissimi tratti, e poi improvvisamente di curve repentine, salite brevi, senza effettuare alcun tipo di sosta perché si voleva evitare il più possibile di incorrere in qualche posto di blocco delle gendarmerie pontificie o di quelle austriache.

    Giunto a destinazione, passai dalla carrozza direttamente alla stanza dell’operazione. Era richiesto il digiuno, sicché non potei rifocillarmi.

    Lo studio si trovava nel cuore di Bergamo, in uno di quei vicoletti che poi sfociano nel grande piazzale. Una posizione di facile accesso, ma nel contempo quasi nascosta ai curiosi. Con un po’ di timore, dunque, seguito dal mio accompagnatore, raggiunsi l’abitazione del medico che funzionava anche da studio.

    Dopo una breve spiegazione introduttiva, il medico mi porse una bevanda a base di oppio. Dopo poco tempo persi totalmente i sensi.

    Improvvisamente mi risvegliai.

    In preda a un dolore allucinante e tremendo.

    Diedi calci a destra e manca, non capivo più nulla.

    Mi avevano detto che con questa operazione avrei salvato la voce, mi piaceva cantare, da solo o in coro, e non comprendevo perché stessi soffrendo in quel modo così indicibile.

    Dovettero bloccarmi le braccia e le gambe.

    Pur con qualche difficoltà, l’operazione era stata portata a termine. Il medico mi applicò abbondanti garze di panno attorno agli organi genitali, per limitare la fuoriuscita di sangue, e assieme a un paio di garzoni non mancò di prestare tutte le cure occorrenti pur di ridurre, per quanto possibile, i dolori terribili.

    Non ce la facevo più. Mi riaddormentai profondamente e per parecchie ore. Credo, anzi, per tutta la giornata.

    Al risveglio il dolore non si placava.

    Le fitte all’inguine continuavano ad assalirmi spezzandomi il respiro.

    Con lucida determinazione, mi alzai dal letto, mi rivestii serrando i pugni per non urlare, uscii dall’albergo e chiamai la carrozza che doveva riportarmi a Milano.

    Era fatta. La mia voce era salva. Anche per il futuro, oltre la mia pubertà. Quello che in cuor mio, a rifletterci bene, volevo con tutta la grinta possibile.

    – Dunque voi siete Marchesi Luigi, nato a Milano l’8 agosto 1754.

    – Sì, eminenza.

    – Volete diventare musico soprano del Duomo di Milano?

    – Certamente, eminenza.

    Era la mattina del 18 maggio 1765. Poco tempo dopo essermi ripreso dall’operazione chirurgica, accompagnato da mio padre, mi presentai presso la sede della cantoria per sottopormi a un’audizione.

    Avevo saputo che il ruolo era vacante dopo la rinuncia del Caccianiga. Mi si presentava così l’opportunità per continuare a studiare canto, perfezionandomi con ripetute prove e continue esibizioni. Non solo. Mi sarebbe stato corrisposto un salario fisso.

    Era la mia occasione!

    Erano presenti l’arciprete del Duomo, monsignor Ambrogio Fagnani e Giovanni Andrea Fioroni, il direttore del Coro della Cappella del Duomo.

    Quest’ultimo, compositore e direttore di musica sacra, conosceva bene le caratteristiche del rito liturgico ambrosiano ed era autore di musiche pregevoli, utilizzate per le Solenni celebrazioni eucaristiche celebrate alla presenza dell’arcivescovo. In quel periodo dirigeva anche il Coro della Cappella della chiesa di San Marco, sempre a Milano. Era un musicista fortemente impegnato, molto esigente, rigoroso e costantemente alla ricerca di validi cantori, collaboratori di alto livello che potessero beneficiare della sua esperienza e competenza e crescere nello studio quotidiano della musica e della sua interpretazione.

    Fu proprio il Fioroni a consegnarmi lo spartito di un mottetto. Diedi un’occhiata alle pagine musicali: le conoscevo bene, per fortuna!

    Presi un attimo di respiro. Mi concentrai, consapevole che questa tappa della mia vita avrebbe dovuto essere superata, e iniziai a cantare. Non m’accorsi dell’impatto della mia voce sui presenti. Cercai comunque di dominare il flusso vocalistico, giocando sul legato e sulla dizione chiara, senza strafare, seguendo alla lettera il rigo musicale.

    Poi Fioroni scrisse sulla scheda di ammissione alla cantoria che avevo dimostrato di essermi "diportato competentemente bene, e con buona voce, facendo sperare voglia riuscire un buon Musico".

    Ce l’avevo fatta.

    Fui ammesso nella Cappella del Duomo con la carica di musico soprano alunno. Mi assegnarono un salario di sei lire al mese, pagato dalla Veneranda Fabbrica del Duomo. Mi dedicai, dunque, a seguire con assiduità e continuità l’attività del coro. Tale obbligo avrebbe dovuto essere garantito fino a quando avessi mantenuto la voce da soprano, con conseguente verifica in caso di mutamento della voce stessa.

    Si svolsero così gli anni della prima giovinezza. Mi dividevo tra gli studi della musica e la partecipazione all’attività della cantoria.

    Nel frattempo la vita sociale milanese proseguiva a ritmi intensi, sotto la guida dell’imperatore d’Austria Giuseppe II. Dal lascito testamentario del principe Antonio Tolomeo era stato creato il Pio Albergo Trivulzio, sede di un ospizio per anziani indigenti.

    Il governo aveva assunto d’imperio il controllo sulla stampa, sottraendolo all’arcivescovado.

    Con una legge, si stabilì di seppellire i morti non più nelle chiese e nei chiostri, ma presso cimiteri posti al di fuori delle mura di Milano.

    Cesare Beccaria, reduce dal grande successo del suo trattato Dei delitti e delle pene, svolgeva la sua attività di insegnamento universitario con forte riscontro tra gli studenti.

    Anche nel Duomo fervevano i lavori. Quando entrai nella cantoria erano appena iniziate le opere per la realizzazione della guglia maggiore. E pochi anni dopo si iniziò a parlare della Madonnina da collocare sulla guglia più alta.

    Nel frattempo, non smettevo di studiare e di cantare. Cantare e studiare. Senza pause. Non sentivo altre necessità o desideri che potessero attrarre la mia mente o il mio cuore. Passavano gli anni, uno dopo l’altro. Il maestro Fioroni credeva che prima o poi la mia voce si sarebbe scurita.

    Si sbagliava.

    La voce restava intatta. Argentea, squillante, potente. Anzi, ancor più agile nei sovracuti.

    Ben presto mangiò la foglia.

    Comprese che ero un evirato.

    Per fortuna, non ero il solo a essermi sottoposto all’operazione. Altri due cantori non avevano subìto il cambiamento della voce, un altro sopranista e un contraltista. Insomma, ero in buona compagnia. Tutti i miei coetanei vennero congedati con la dovuta educazione.

    Fioroni non la prese bene. Ce lo disse a chiare lettere. Ma aveva bisogno di voci soliste. Così mi affidò apposite parti all’interno delle composizioni sacre eseguite durante le celebrazioni religiose nel Duomo.

    Il tenue raggio di sole che si faceva avanti dalla finestra illuminava i mobili, la poltrona e gli affreschi del grande salone. Quasi al centro, il maestro al cembalo e io. L’ennesima prova di una romanza di Cimarosa.

    Quegli orripilanti saliscendi di note, quelle vocalizzazioni che restavano in alto, lì, sempre più su, e che non volevano affatto ricadere in basso, creavano un’atmosfera argentea fatta di chiarore sonoro e di musicalità soave. Il frutto di ore e ore di esercizi, lo sfogo ideale dopo l’ordinarietà dei mottetti, dei Kyrie, di tutti quegli inni sacri che mi venivano a noia, ma che dovevo comunque accettare, volente o nolente, per provvedere alle spese degli studi di canto.

    Non avevo alternative.

    – Caro Marchesi – mi diceva spesso il maestro Fioroni, – se volete continuare a cantare anche nei prossimi anni, e dedicarvi al teatro, ammesso che questa sia la scelta migliore per la vostra vita, sappiate che l’unico mezzo sul quale dovrete fare affidamento è la vostra voce. Dovrete saperla modulare e gestire in tutte le occasioni e sempre nel miglior modo possibile. Dipende solo da voi – aggiungeva con convinzione, – e bisogna che siate in grado di mantenerla nel migliore dei modi, con regolari esercizi, facendo le giuste scelte di repertorio e di parti vocali, senza strapazzarvi. Soprattutto – concludeva, – dovete garantirvi una condotta di vita regolare. Vi sarà molto utile ricordare questi consigli.

    Una vita da monaco, insomma, voleva impormi il maestro di cappella. Così, almeno in quegli anni di apprendistato giovanile, non smettevo di esercitarmi, di prepararmi ad affrontare tappe artistiche ben più prestigiose e significative di quelle finora conseguite: non era certo una mia ambizione avere un breve momento solistico durante l’ennesimo Credo in unum Deum, in occasione di una solenne concelebrazione presieduta dal cardinale arcivescovo, la cui voce si disperdeva nel vuoto delle guglie del Duomo. Provavo un senso di desolazione. La mia voce si allontanava e scompariva, senza che vi si potesse associare una qualsivoglia identità artistica. Ma io ero Luigi Marchesi, aspirante cantante lirico, desideroso di salire sul palcoscenico di un teatro e pronto a esibirsi davanti al più ampio e prestigioso pubblico.

    Questo logoramento fatto di esercizi, scale ascendenti e discendenti, senza mai un attimo di pausa, per ore e ore e per interi pomeriggi, non sembrava avere fine.

    Qualche volta la compagnia era del solo cembalista. Altre volte andavano e venivano, sia pure con estrema discrezione, alcune giovani ragazze. Una di loro era piuttosto carina. Meglio far finta di niente, pensavo.

    Fino a quel giorno.

    Il mio sguardo, la mia tensione, il mio cuore erano tutti rivolti verso la musica, verso la musica che si creava dal silenzio del salone del palazzo del governo. Questo groviglio di camere, stanze e locali, in parte riservate alla nobiltà e in parte alla servitù e ai musici.

    Gli orchestrali non vivevano assieme alla servitù, ma una serie di appartamenti ad essi riservati era comunque vicina sia ai camerieri sia alle stanze destinate agli ospiti. Da tempo sentivo dire che dentro il palazzo esistevano altre camere segrete. Accessibili solo a poche persone.

    Non le avevo mai visitate. Mia madre aveva sempre opposto un risoluto divieto agli sconfinamenti.

    Mi sarebbe piaciuto addentrarmi in uno di quei locali, ma non sapevo ancora come avrei potuto fare e come mi sarei comportato di nascosto da tutto e da tutti, dal mondo circostante, dai miei genitori, da chiunque potesse eventualmente sorvegliarmi e tenermi sotto controllo. Ma erano solo fantasticherie che non mi sarebbero mai state concesse.

    Fino a quel giorno.

    Lei era lì. Davanti a me. Mi fissava in continuazione. Non si era appoggiata al clavicembalo. Ci era mancato davvero poco. Nei giorni precedenti veniva nel salone, accompagnata da un’amica. Di tanto in tanto parlottavano a bassa voce. Forse ero l’oggetto dei loro discorsi, ma non potevo esserne certo.

    Avevano più o meno i miei anni. Giovani, belle e dallo sguardo furbo. Non smettevano di osservarmi, di ascoltare i miei esercizi vocali, e pensare che erano di una noia mortale all’ascolto altrui. Invece loro non se ne andavano, anche perché non disturbavano nessuno, entravano nel salone con discrezione e vi restavano per parecchio tempo in quasi totale silenzio.

    Quel giorno era sola. Vestita con un abito che lasciava le spalle con i capelli castani sciolti. I suoi occhi celesti puntati dritti su di me, intento a provare un’aria di Gluck. Ero imbarazzato dal suo sguardo e dal sorriso dolce che mi indirizzava, non sapevo come ricambiare, concentrato com’ero sul canto, e incapace di rispondere agli evidenti segnali che lei mi stava lanciando.

    Intanto il maestro andava avanti con le arie previste per la lezione odierna. Una dopo l’altra. Nessuna interruzione, nessun momento di pausa. Sembrava quasi irritato per la presenza nel salone di quella nobile leggiadra. Ma non si fermava, né accettava di mutare il programma della lezione a favore di arie da corteggiamento.

    "No, le ragioni della musica sono sovrane, e vengono prima d’ogni

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