Ormai era giusto così
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Anteprima del libro
Ormai era giusto così - Sandro Ferrieri
grato.
I
Rianimazione
Infarto, infarto del miocardio.
L’aveva intuito da solo ancora prima di arrivare al pronto soccorso, quando aveva letto lo sguardo affatto rassicurante del portiere del condominio mentre lui scendeva le scale sorretto dai portantini su di una sedia. La sirena dell’ambulanza gliene aveva poi dato conferma.
Sala di rianimazione. Monitor dappertutto e un groviglio indecifrabile di cavi elettrici, che seguivano ciascuno la propria direzione. Pensieri che si accavallavano, sovrapponendosi l’uno all’altro in un caotico, incessante susseguirsi, guidati da chissà quale regia.
Marco si ritrovò in sala di rianimazione del reparto cardiologia per colpa di quell’oppressione al petto, che invece di andarsene diventava sempre più insistente.
Era però ancora vivo, anche se non aveva certezza del domani e quasi neppure del presente. Gli pareva di trovarsi in un mondo privo di dimensioni, privo di tempo, dove i pensieri gli si affacciavano senza logica e al di fuori da ogni cronologia. In quella sorta di dormiveglia in cui si trovava, li viveva in una sequenza incessante.
II
Amore coniugale
Era un pezzo ormai che, percorrendo quasi quotidianamente il tratto di cimitero a lui noto, si ritrovava davanti a un sepolcro in costruzione, attorno al quale si indaffaravano alcuni muratori. Ogni volta che ci passava vicino, notava che prendeva sempre più forma, fino ad assumere quella di un parallelepipedo posto longitudinalmente al suolo sul ciglio della strada. Rimase sorpreso, un giorno, nel notare che i muratori se n’erano andati e che la costruzione era terminata: quell’attività edilizia era infatti diventata per lui parte integrante dell’ambiente.
La sorpresa crebbe quando notò, nella parte sinistra del sepolcro, una fotografia accompagnata da un’epigrafe che ricordava ai passanti le qualità del defunto. Dunque, il manufatto aveva raggiunto lo scopo.
Quel che più colpì l’attenzione di Marco fu però la presenza di una donna, seduta su di uno sgabello sul lato opposto della stradina, con lo sguardo fisso su quella fotografia. Dagli occhi vitrei, immobili traspariva un sentimento troppo intenso per poter essere espresso, troppo riservatamente vissuto per poter essere partecipato. In quel rapporto tra i due, tra il vivo e il morto, era racchiusa tutta una vita passata, che continuava ancora: la donna dal proprio sgabello teneva in vita il marito defunto e nient’altro aspettava ormai se non la morte.
Ogni volta che Marco passava di là la scena si ripeteva, qualunque fosse l’ora del giorno: la donna, seduta, estranea alla gente che passava, fissava immobile la fotografia del marito morto, sia che splendesse il sole sia che piovesse. In caso di maltempo la riparava dalla pioggia una tettoia sotto la quale lo sgabello trovava posto.
Era una domenica d’inverno quando Marco, passando di là come al solito, si accorse che la donna non c’era. Doveva certo essere malata, ché sicuramente quello stare lì immobile al freddo ed esposta alle intemperie non poteva aver giovato alla sua salute. Fece per passare oltre quando, d’istinto, volse lo sguardo verso quella tomba ormai a lui familiare: sul lato destro, quasi a equilibrare la posizione dell’immagine di sinistra, scorse la fotografia della donna. Che sembrava guardarlo con la stessa intensità che aveva in vita, tuttavia ormai acquietata.
III
Padre e figlia
Era arrivato a casa più tardi del solito, quella sera, perché aveva avuto da fare in ufficio e non riusciva a finire il lavoro. Trovò Emma china sul vocabolario di greco, che, al primo anno di ginnasio, cercava invano una parola.
"Papà, non si capisce un accidente! È un’ora che cerco epéferon e non riesco a trovare niente! Per me è un imperfetto e allora devo togliere l’aumento,