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Fu solo per lei
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Fu solo per lei
E-book270 pagine3 ore

Fu solo per lei

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Info su questo ebook

“D’altronde il loro rapporto era cosi, speciale e il più delle volte complesso, come lo erano le loro personalità. Opposte in linea generale, identiche in quello che era il profondo, quell’ io nascosto che solo pochi vedevano e comprendevano.”

Sara e Federico erano amici ormai da diversi anni o almeno così erano convinti di esserlo, ma quella strana sensazione che Federico aveva provato quella sera lo aveva turbato. Proprio lui, sicuro di sé ed egocentrico, che odiava la gelosia: "La forma insicura dell’amore”, ne aveva sentito il morso dritto nelle viscere e aveva deciso di andarsene via. Lasciando Sara attonita, incredula di fronte a quel frastuono.

Lei fagocitata da quell'uomo barcollante in una realtà tutta sua, lei che quella sera aveva guardato con altri occhi una nuova presenza che si faceva spazio nella sua vita.

Loro che iniziarono a pensare:

"Tra Amicizia e Amore dimmi cosa scegli, assaporandone il dolore."
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2013
ISBN9788867555017
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    Anteprima del libro

    Fu solo per lei - Gianluca Bargiacchi

    momento.

    1

    Eppure l’estate era terminata da un pezzo. Il cielo si era ingrigito da tempo e il freddo come uno strisciante serpente, aveva avvolto ogni cosa tra le sue spire. Il mare aveva assunto il colore del cielo e le nuvole all’orizzonte impetuose, avanzavano nere e cariche di pioggia. Fitta pioggia invernale. Eppure lei era là. Seduta a pochi metri dal bagnasciuga, con i piedi immersi nella sabbia, fredda come poteva esserlo solo in quella sacrosanta stagione. Fina e bastarda, da infilarsi in ogni piega dei jeans, in qualche fessura della borsa, tra i lacci delle scarpe. E la mattina dopo sarebbe comparsa misteriosamente lungo gli angoli del corridoio, del bagno e della cucina di casa sua.

    Il vento stava iniziando ad alzarsi, annunciando che da valoroso cocchiere avrebbe trasportato fin sopra quella cittadina quei neri ammassi di pioggia e poi se ne sarebbe andato, a ritmo lento e incostante, lasciando all’elegante signora scesa dalla carrozza l’opportunità di sciogliersi in tutto il suo splendore, fino alla rude terra, che assetata e festosa l’avrebbe accolta a braccia aperte.

    Sara si alzò. Era giunto il momento di tornarsene a casa. Farsi una doccia e uscire di nuovo. Amava quel momento di solitudine. Il dedicarsi completamente a se stessa, senza sforzare le corde vocali e lasciarsi cullare da pensieri insignificanti su questo e su quello, fantasie che il cervello elaborava, perché di fantasticare ce ne era sempre il bisogno. La vita, quella vera, quella con i problemi, che non rimane seduta tre ore su d’una spiaggia in pieno inverno non dava molto spazio alla fantasia. Quei momenti bisognava cercarseli, come un minatore cercava l’oro.

    Guardò l’ora sul cellulare. Le diciotto e ventidue minuti. Federico era in ritardo. Fece qualche passo in avanti, fino a scorgere la strada per intero e vide in lontananza una macchina nera che sfrecciava verso di lei. Sorrise. Il ritardo era una sua costante. Quelle caratteristiche negative che col tempo diventavano un marchio positivo. Un pezzo d’una personalità che non si doveva cambiare. Si scrollò di dosso tutta la sabbia che poté e si rimise le scarpe ai piedi. Pronta per dire arrivederci a quelle tre magnifiche ore di solitudine.

    Federico si fermò proprio davanti a lei e con un sorriso colpevole le aprì sporgendosi più che poteva la portiera.

    << Lo so! Sono in ritardo. >>

    << Venti minuti appena >> il tono era sarcastico, pungente e malgrado in cuor suo amasse quella caratteristica odiosa, non aveva la benché minima voglia di farglielo notare, mai!

    << C’era traffico. >> Mise la prima e partì.

    Sara lo guardò corrucciando le sopracciglia.

    << Quando ci inventeremo un’altra scusa? >>

    << Quando mi ci metterò a pensare. >>

    La guardò spalancando la bocca in un sorriso, poi si girò e riprese a guidare.

    Da quella spiaggia a casa di Sara ci vollero quindici minuti appena. Quindici minuti dove canti e parole si susseguirono senza un minuto di pausa. D’altronde il loro rapporto era così, speciale e il più delle volte complesso, come lo erano le loro personalità. Opposte in linea generale, identiche al limite dell’incredibile in quello che era il profondo, quell’io nascosto che solo pochi vedevano e comprendevano dopo anni di dura conoscenza.

    Erano già passati tredici anni. Lei quattordicenne alle prese col nuovo, libero e complesso mondo delle superiori. Lui sedicenne con tre anni di quel mondo alle spalle e la convinzione di possedere l’intero istituto. E per come andavano le cose là dentro non si sarebbero mai dovuti conoscere. Lui era al terzo e quelli del terzo non si immischiavano con quelli del primo: era una regola mai scritta e mai pronunciata ai quattro venti, ma risaputa da tempi immemorabili. Almeno ogni studentello così credeva. Era un modo per sentirsi grandi, per far valere la propria superiorità in numero di anni sugli altri. E così come sempre quelli del primo e del secondo superiore guardavano con occhi di ammirazione quelli del terzo e quelli del terzo con stizza nei confronti dei piccoli ammiratori si univano a quelli del quarto a contemplare con ammirazione quelli del quinto, che sfioravano con le dita la maturità, la vita, la libertà. Si conobbero in quei complessi stadi adolescenziali, dove poi il complesso risiede più nei libri, nei film, nelle parole di qualche finto saputello alla televisione che nella realtà. Era un giorno di maggio. Un caldo giorno di maggio. L’ora della ricreazione era già suonata da un pezzo. Federico non se ne era minimamente curato e continuava imperterrito a vagabondare a destra e sinistra, cercando di inventare una plausibile scusa per il professore Servili d’italiano. L’unico che mandava giù tutte le stupidaggini che gli rifilava.

    Fu quel vagabondare che lo condusse nel corridoio dei primi e dei secondi, dove per pavoneggiarsi un po’ ci passava più tempo del previsto, ignorando la contemplazione dei ragazzi del quinto che se ne fregavano di intraprendere un’amicizia con uno di due anni in meno.

    C’erano tutte le porte chiuse e nessuno in vista. Ancora dovevano imparare a farsi le regole per conto proprio. Fece retro front e annoiato decise sbuffando che era ora di ritornare in classe. Qualche passo e vide la porta del bagno delle ragazze leggermente aperta. Alzò le spalle, non era un particolare rilevante, ma furono i piccoli gemiti che vennero da dentro a farlo accostare per cercare di sentire meglio. Uno, due singhiozzi. Qualcuna stava piangendo. Si guardò attorno. Non c’era nessuno. Che doveva fare? Si morse il labbro inferiore e con noncuranza bussò ed entrò.

    Era la prima volta che entrava nei bagni femminili e vide che la differenza da quelli maschili era poco più che irrilevante. Un piccolo ingresso dove si trovavano i lavandini e l’enorme rotolone di carta separava un’altra stanza divisa tra quattro porticine verdi.

    << Ehilà! >>

    Oddio! Ehilà fa film horror!

    << C’è nessuno? >>

    Idiota! Sei entrato, perché una sta piangendo è logico che c’è qualcuno.

    << Che vuoi? >> una voce femminile da dietro la seconda porta.

    << Ci… ciao >> perché stava balbettando? << Ho sentito qualcuno che piangeva e sono entrato a vedere. >>

    Si grattò la testa.

    << Certo! >> non era un certo come per dire grazie << Esci o mi metto ad urlare >> quella voce velata dal pianto si era trasformata nel ruggito di una tigre.

    << Scusa?! >>

    << Guarda che urlo per davvero. >>

    Quella ragazzina era irritata, arrabbiata con lui, perché credeva che… ma che credeva?

    << Senti >> alzò d’un tono la voce << io vengo qui dentro per accertarmi se stai bene e tu mi rimandi a calci nel sedere indietro? >> Forse sto urlando!

    << E da quando in qua un maschio entra nel bagno femminile, perché casualmente ha sentito qualcuna piangere? Forse il casuale non è casuale, forse il maschio caritatevole visto che è un porco si fa le passeggiatine nei bagni femminili! >>

    Porco! IO? << Ma allora sei proprio scema! Sgolati un po’ quanto vuoi. >> Si diresse verso la porta per uscire da quel posto. << E per tua informazione io non vado in giro nei bagni femminili, anzi è la prima volta in tre anni che ci entro e sì! >> enfatizzò come meglio poteva << ti ho sentita davvero piangere. Strozzati! >> mise la mano sulla maniglia << con le lacrime. >>

    Urtato uscì dal bagno, ma sbatté d’improvviso contro qualcosa di morbido. Troppo morbido.

    Alzò gli occhi, sgranati e increduli, fino a vedere la faccia della Matriosca. NO! La chiamavano così quella bidella, a tal punto da non ricordarsi più il vero nome. Nazionalità russa. Sguardo gelido e impenetrabile. Capelli biondi raccolti costantemente in uno chignon. Seno e pancia di dimensioni pazzesche. Carattere: malvagio.

    << Che ci facevi là dentro? >> Alito che sapeva di cipolla e corde vocali che stridevano come vecchia ferraglia arrugginita.

    << Niente! >> Aveva di nuovo alzato la voce. Per terrore?

    <> Chiuse gli occhi in segno di disperazione, quando sentì l’odiosa ragazzina senza volto urlargli contro ancora chiusa nel cesso.

    Vide la Matriosca afferrarlo per un braccio e - Dio quant’è forte! - indirizzarsi a passi da gigante nel bagno e urlare: << Tre secondi per uscire, signorina! >>

    Era finita! E una Sara quattordicenne, bella e col fisico minuto, gli occhi gonfi di pianto e la bocca corrucciata uscì dal bagno, scambiando il primo sguardo carico di odio ad un brufoloso e moro ragazzino di sedici anni. Finché non sentirono entrambi la Matriosca urlare sferragliando:

    << Preside! >>

    Allora si contemplarono meglio negli occhi e Te la farò pagare! fu il primo pensiero che i loro cervelli produssero all’unisono.

    Federico parcheggiò davanti la stradina di un vialetto irregolare che conduceva dritta ad un porticino bianco.

    CASA RANDELLI. Così annunciava la targhetta sopra il campanello, che faceva tanto di famiglia numerosa con sei figli, dieci nipotini, nonno e nonna davanti al caminetto con gatto e copertina. In realtà casa Randelli includeva una single ventisettenne, lunatica, provocante e con un’avversione estrema per tutto ciò che sapeva di romantico, nuziale e per-sempre-felici-e-contenti. Tranne naturalmente la targa del campanello.

    << Oddio! >> alzò gli occhi al cielo << Anche oggi salva e intera. >>

    La odiava quando diceva quella battuta.

    << Eppure sempre con le chiappe su questo sedile! >>

    << Veramente oggi volevo prendere la mia e sapevamo anche che era il giorno di solitudine e contemplazione in riva al mare! Ma qualcuno >> lo guardò sgranando gli occhi << voleva compagnia per pranzo, giurandomi che mi avrebbe lasciato presto al mare e che sarebbe venuto a prendermi alle diciotto >> Alzò le braccia al cielo ridendo << Risultato? Mare ore quindici, cioè tardissimo. Ritardo venti minuti, ovvero potevo raggiungere casa a piedi e morte sfiorata ogni singolo metro dal mare a casa! >> Concluse il tutto con un energico sì, che disegno col capo.

    << Quindi non sapevo che il favore era >> la invitò con la mano a guardare sui sedili dietro, mettendosi ad imitare la sua voce << Oddio visto che ci siamo partiamo alle undici che mi devo fermare in un negozio! >> alzò il sopracciglio sorridendo << Il risultato? >> amava riprendere le parole che l’interlocutore aveva già sottolineato, specie quelle di Sara << Dodici negozi, sette scomode buste di cui sei che per non so quale strano manuale di cavalleria ho dovuto portare io. Quattro delle quali contenenti scatole di scarpe che mi hanno tartassato le gambe con i loro maledetti angoli appuntiti e pranzo, che tra l’altro ho pagato io, nel posto che piace a te. Mi sono perso qualcosa? >>

    Sorrise, forse aveva vinto la gara sul dialogo a raffica? Succedeva poche volte con Sara.

    << Vinto >>

    Lei aveva ceduto.

    << Sì >> accompagnò la vittoria con un piccolo, tutto personale applauso.

    << Ora vado >> aprì la portiera, mise un piede per strada ma si girò con il ghigno << Io non c’e la faccio a portare tutte le buste. >>

    Maledetta! << Non ti aiuterò! >>

    Strinse gli occhi. << Please >> e mise le mani a mo’ di preghiera.

    << Lo sai che fai schifo? >>

    << Me lo dicono in pochi. >> si mise un dito sulle labbra << Anzi solo tu! >>

    Rise e uscì definitivamente dall’auto, sculettando per mettere in evidenza quello che aveva appena detto e Federico sospirò. Aveva ragione.

    Dio quant’è bella!

    Sentì qualcosa dentro esplodere, come un palloncino troppo stretto, per troppo tempo, da due grandi e forzute mani. Scosse la testa, deglutì e con evidente e ironico risentimento prese le sei buste rimaste.

    Arrivarono davanti al portoncino e come sempre qualche minuto se ne andò a farsi benedire, mentre la ricerca delle chiavi in una borsa lunga poco più d’un astuccio dell’elementari, contenente tutto ciò che una donna poteva portarsi dietro, si rendeva ardua.

    << Ma togli quello che hai dentro e le chiavi escono fuori. >>

    Lanciò uno sguardo che lo trafisse.

    << Se togliessi anche solo una delle cose che ho dentro, mi ritroverei con tutto il contenuto sulle mani. Il che significa che non potrò prendere le chiavi e per prenderle dovrò far cadere tutto. >> finì la frase, proprio mentre l’indice e il medio si era tuffati di nuovo dentro la borsa e annaspanti avevano tirato fuori un piccolo mazzo di chiavi, preso con la parte superiore dell’unghia.

    <> le sventolò in segno di vittoria e aprì.

    Federico respirò a pieni polmoni l’odore di quella casa e come ogni volta un piccolo brivido gli si formò dietro la schiena, dandogli il benvenuto.

    Era un misto tra il profumo di Sara e quello di lavanda a rendere quel luogo irresistibile per il suo fiuto. Viveva di odori, fin da quando era ragazzino. Giudicava le persone in base ad essi e l’attrazione che provava verso una donna passava dal primo indiscutibile punto: il suo profumo.

    Portò le buste in camera e le lasciò cadere sul letto, mentre Sara si diresse in bagno. Era confortevole quella casa e arredata con buon gusto. Le pareti erano di un impercettibile giallo e i colori che dominavano il resto passavano da gradazioni di rosso a verde e viola rendendo il tutto delicatamente armonioso e accogliente.

    << Io devo farmi una doccia e sono già in un ritardo pazzesco, quindi fai come ti pare. Se vuoi rimani, anche se penso che ti dovrai cambiare? >>

    Lo guardò dalla testa ai piedi. Anche lui abbassò lo sguardo sul suo abbigliamento.

    << Bè direi. Troppo elegante. >>

    Indossava un maglione di cotone aderente nero, che lasciava intravedere il colletto bianco della camicia, pantaloni semi eleganti anch’essi neri.

    << E poi tutto questo nero! >> Sara allargò le braccia e strinse la bocca in una strana espressione.

    << A me piace. >> le sorrise.

    << E io ora mi chiudo in doccia. >>

    Si tolse il giubbetto in pelle rossa, che lanciò sul letto e si alzò la maglia fino all’ombellico. Federico non si mosse.

    << Che fai? >>

    << Volevo vedere a che punto arrivavi. >> alzò un sopracciglio.

    << Ci sono i giornaletti che tieni nascosti sotto il letto per questo >> si avvicinò alla porta.

    << Okay >> disse ridendo << Vado. >>

    Ma che succede? Era in macchina Federico quando questo pensiero inspirando lo lasciò privo di forze per un momento. C’era qualcosa di strano. Qualcosa che aveva provato altre volte, ma quelle volte erano state fuggevoli, rapide. Mentre in quel giorno, senza apparente preavviso, quella sensazione era durata più del previsto. Oddio! meglio non pensarci. Non può essere!.

    Accese l’auto, ingranò la prima e scuotendosi le spalle partì.

    Aveva l’abitudine di canticchiare vecchie canzoni quando il getto bollente della doccia le massaggiava l’intero corpo. Sara amava quella sensazione di benessere, quelle coccole tutte per lei, accompagnate dal profumo alla pesca del bagnoschiuma. Ma malgrado lo stesso bagno, la stessa doccia, il medesimo bagnoschiuma, la temperatura dell’acqua perfetta, la bocca non riusciva ad emettere alcun suono. Quella casa vuota stava ascoltando il silenzio, mentre lei era intenta ad ascoltare il battito accelerato del cuore. Stasera è il momento.

    2

    Erano le diciannove e quarantacinque, quando guardò l’ora sul display del cellulare e si accorse che stranamente era in un ritardo pazzesco. Era uscito in quel momento da un rilassante bagno caldo, con una vasca ricolma di acqua, sapone e oli al profumo di cocco. Quelli erano estremi momenti di piacere, che solo l’inverno in tutta la sua bellezza poteva concedere. Si accorse che stava sgocciolando su tutto il pavimento e si affrettò a darsi un’asciugata veloce e ad arrotolarsi un asciugamano intorno all’inguine. Poi con la mano destra fece una serie di cerchi circolari sullo specchio appannato dal vapore e riuscì a vedere nitidamente la sua immagine.

    Federico nella sua interezza. Stette per tergiversare, per contemplare un po’ qualche imperfezione lungo il corpo, per farsi una chiacchierata in completa solitudine con se stesso riflesso, ma decise che quelle cose dovevano essere rimandate ad un altro giorno. Stava facendo troppo tardi.

    Si asciugò meglio e uscì di corsa dal bagno, lasciando cadere l’asciugamano a terra. Percorse quei due metri che dividevano il bagno dalla camera completamente nudo, quando il cellulare intonò l’arrivo di un messaggio. Tornò in bagno e lo lesse. Destinatario: Ludovica Bar. Alzò per un secondo gli occhi al cielo e si mise a leggere quello che gli aveva scritto.

    Bar in realtà non era il cognome, semplicemente il luogo dove l’aveva conosciuta. Uno dei migliori bar di quella città.

    Era la terza consecutiva mattina di fine settembre che andava a fare colazione in quel posto. Il bar aveva aperto da poco, l’ambiente era accogliente e dietro al bancone tre splendide ragazze servivano caffé e cappuccini. Una di quelle tre lo aveva adocchiato già dal primo giorno e del resto anche lui l’aveva notata, in realtà era più un loro collettivo, ma era controproducente farglielo sapere. Così c’erano stati alcuni giochi di sguardi, qualche sorriso di troppo e la terza mattina la sua mano aveva oltrepassato l’immaginaria linea che divide il bancone dalla parte dei clienti con quello dalla parte dei baristi e si era presentato. Ludovica aveva la carnagione scura, i denti bianchissimi, gli occhi marroni e un adorabile profumo fruttato sulla pelle. Qualche parola e il primo passo, lo scambio dei numeri, avvenne senza troppe difficoltà. Il primo appuntamento poi fu dopo due giorni, in un ristorantino appena fuori città. Si ritrovarono, con gran sorpresa a scherzare e parlare come due buoni amici e ad ordinare più vino di quanto il corpo snello di Ludovica potesse sopportare. Era passata da poco mezzanotte quando l’aveva riaccompagnata a casa. Salirono due rampe di scale, fino a ritrovarsi davanti al suo appartamento. Federico fece la finta di salutarla e andarsene via, quando alle sue spalle sentì il fatidico: << Vuoi entrare? >>. Sorrise mentre era ancora di spalle e quando si girò si limitò semplicemente ad annuire. Poi il resto fu storia o logica quantistica.

    La mattina successiva si svegliò con il sorriso stampato sulle labbra e se ne andò a passi felpati per non svegliarla. Sapeva che non era un gesto galante, ma per sopperire a quel neo aveva imparato il trucco del biglietto sul cuscino.

    BUONGIORNO. DOVEVO LAVORARE, NON VOLEVO SVEGLIARTI. ERI TROPPO BELLA NEL SONNO.

    Il trucco consisteva nel racchiudere in quelle poche parole tutto ciò che una donna voleva sentirsi dire. Il buongiorno appena si svegliava e ti cercava con la mano dall’altra parte del letto. Una buona motivazione per non sentirsi sola e tradita e il lavoro era una giustificazione più che valida. Un gesto di premura nei suoi confronti, che le dava l’idea di aver fatto piano solo per il suo bene e il complimento finale che le incorniciava il sorriso e le faceva racchiudere il cuscino in un abbraccio. Il bello di tutto era che molte donne avrebbero detto che non sarebbe bastato, ma l’esperienza gli aveva insegnato il contrario.

    Era stata strana la consapevolezza, finito il terzo anno delle superiori, del suo aspetto. Fino a quel momento l’acne giovanile aveva deciso di subaffittare con la pelle il viso, la barba si era concentrata unicamente sotto il naso, con qualche sporadico ciuffo sulle guance. Il che sommato ad un fisico di media statura, mingherlino non dava certo i segni d’una bellezza esaltante. Poi tutto era mutato, stranamente in concomitanza col periodo di odio/amore con Sara.

    Si era reso conto che per piacere alle ragazze doveva cambiare qualcosa. Consapevolezza che Giulia, unica sorella e più piccola d’un anno, gli aveva infilato in testa come un tarlo. Così il primo passo fu la farmacia, dove acquistò dei prodotti per il viso.

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