Un destino già scritto (con qualche errore)
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Anteprima del libro
Un destino già scritto (con qualche errore) - Nicola Morgantini
1
Era stata una giornata calda e noiosa. Uscii dall’ufficio un po’ prima del solito, pensando al colletto della camicia che mi stava stretto. Per un attimo pensai anche a Laura. L’avrei trovata davanti allo specchio, intenta a spazzolarsi rabbiosamente i capelli e col volto impomatato. Mi avrebbe salutato senza guardarmi e subito dopo si sarebbe lamentata delle noie che aveva avuto durante il giorno.
Aprii lo sportello della macchina e fui investito da una ventata d’aria bollente. La macchina era rimasta al sole, e i sedili e i comandi erano incandescenti. Sudando e aiutandomi con uno straccio che tenevo nel vano porta oggetti, afferrai il volante, misi in moto e mi avviai verso casa.
Parcheggiai come sempre tra il cassonetto della spazzatura e la fermata dell’autobus, scesi e m’incamminai verso il portone. Salii sull’ascensore e schiacciai il tasto del quinto piano, mi slacciai l’ultimo bottone del colletto e mi allentai la cravatta.
Sono io
, dissi, non appena entrai in casa. Mi tolsi la giacca, la gettai sulla sedia dell’ingresso e andai in cucina.
Ci sei?
, chiesi.
Nessuna risposta.
Aprii il frigorifero per prendere una lattina di birra, quando sentii un rumore provenire dalla camera da letto. Uno strano brusio, inframmezzato da leggeri colpi. M’incamminai lungo il corridoio, verso la camera. Il brusio si era trasformato in un gemito confuso, i colpi erano netti e regolari. La porta era chiusa. L’aprii lentamente e mi trovai davanti a uno spettacolo surreale. Sul letto, completamente nuda, con gli occhi chiusi e il viso trasfigurato dal piacere, c’era Laura. Sopra di lei, peloso come un orso, c’era Gino, il macellaio. La stava penetrando con foga, facendo sbattere il bordo del letto sul muro.
Rimasi a bocca aperta. Non so quanto tempo passò. Forse pochi secondi. L’orso si voltò, mi vide e sobbalzò, non saprei dire se dallo stupore o dalla vergogna. Mia moglie aprì gli occhi e mi vide anche lei. Assunse una strana espressione: un misto d’incredulità e imbarazzo. Balbettò qualcosa, mentre Gino si era già staccato da lei e stava cercando di rivestirsi in fretta.
Laura tirò a sé il lenzuolo e si coprì il viso con una mano.
Oddio…Alberto...oddio
, iniziò a dire, sempre col viso coperto.
L’orso, nel frattempo, era sempre più impacciato nei movimenti. Riuscì a malapena a indossare i pantaloni, dimenticandosi delle mutande, poi afferrò la camicia e le scarpe, e a testa bassa si diresse verso di me. Non fu capace di guardarmi negli occhi, e io non volli cercare il suo sguardo. Lo lasciai passare, senza dirgli niente, e lo sentii uscire da casa.
Laura si era rannicchiata sotto il lenzuolo. Iniziai a provare disgusto. C’era odore di sesso in camera. Mi guardai intorno, tutto era stato violato da quel mostro E per chissà quante volte. Forse non soltanto da lui. Mi venne da vomitare. Avevo voglia d’aria, voglia di fuggire. Uscii, scesi le scale saltando i gradini e in un attimo fui in strada.
2
Laura seguiva una dieta ferrea, faceva molta ginnastica e due volte la settimana andava dal parrucchiere per farsi stendere i capelli, che altrimenti assumevano forme bizzarre. Spendeva una fortuna in vestiti e aveva molto gusto. Madre natura però non era stata generosa con lei. Laura aveva infatti la faccia larga, le gambe corte e tozze, e il seno piccolo. C’è da dire che coi capelli appena stesi e sapientemente truccata poteva sembrare carina. Ma solo a una prima occhiata. Guardandola attentamente si capiva che era tutta una messa in scena. Dava l’idea di una che avesse strappato brevi concessioni alla bellezza, o che fosse scesa temporaneamente a patti con la bruttezza. In effetti se alle undici di mattina, dopo due ore di restauro, era accettabile, già alle quattro del pomeriggio non lo era più: la pelle era diventata lucida e lo sguardo si era spento. Bastava poi un’arrabbiatura o una cattiva digestione per farle spuntare due occhiaie inquietanti. Più che curare il suo aspetto, era in guerra contro di esso. Una guerra che combatteva sin da quando era adolescente. Soffriva e invidiava chi non doveva faticare tanto per essere presentabile. Molte sue amiche, per esempio, ma anche Alberto.
Lui aveva lineamenti regolari, capelli neri e folti che non richiedevano nessun trattamento, e la pelle naturalmente luminosa. Inoltre era alto, con belle spalle, e gambe lunghe e dritte.
All’inizio del loro rapporto si sentiva gratificata del fatto che Alberto fosse appunto un bel ragazzo, ma poi, dopo il matrimonio, e dopo che i successi nella dura lotta contro le tendenze antiestetiche del suo corpo erano diventati sempre più effimeri, il divario fisico divenne un problema. Non era giusto che lei dovesse passare due ore dal parrucchiere e a lui bastasse pettinarsi. O che lei dovesse stare attenta a ciò che mangiava mentre lui poteva impunemente ingozzarsi una vaschetta di mascarpone, andare a dormire e poi svegliarsi con la pelle a posto e il ventre piatto. No, non era giusto.
Divenne gelosa in modo viscerale. Lo era sempre stata, ma negli ultimi tempi questo sentimento si caricò di altri significati. Non denotava una semplice mancanza di sicurezza. No, esprimeva qualcosa di più profondo e di più perfido. Era un modo per dominarlo, uno dei tanti, e per dominare idealmente la bellezza che a suoi occhi lui incarnava e che lei non riusciva a possedere. Gli faceva scenate del tutto gratuite e con pretesti insulsi. Gli frugava nel portafogli, nel telefono cellulare, gli apriva la posta. Alberto la lasciava fare, anzi cercava di prevenirla: se riceveva un messaggio glielo faceva leggere e se si trattava di una chiamata metteva il telefono in viva voce. Ovviamente non aveva nulla da nascondere, ma Laura trovava sempre il modo di tormentarlo. Soprattutto quando lui non riusciva a ricostruire dettagliatamente l’elenco di persone, in ordine di tempo, che aveva visto o sentito nel corso della giornata. Inoltre pretendeva che facessero ogni cosa insieme. Almeno si fosse trattato di condividere un interesse, anche il più banale. Niente affatto: l'esigenza di stare insieme era fine a se stessa.
Ogni volta che uscivano, Alberto stava attento a non lasciare che il suo sguardo si posasse su qualunque femmina tra i quattordici e i cinquant’anni; idem per la televisione: se in un programma appariva una ragazza discinta, cambiava subito canale o si fingeva distratto. Ma non bastava, lei lo accusava comunque di aver indugiato sul seno o sul fondoschiena di qualcuna. Era così condizionato dalla gelosia di Laura da non provare realmente alcun interesse per il genere femminile. Scambiava la paura delle sue sfuriate col genuino sentimento di fedeltà. Pur di essere lasciato in pace era disposto a mettere a tacere la più innocente delle pulsioni, senza capire che per placare l’ossessione di Laura ci sarebbe voluto ben altro. Ad esempio un uomo che la facesse sentire bella, che fosse addirittura geloso di lei. Alberto era sempre stato troppo impegnato a difendersi da certe accuse e non comprendeva che per liberarsene avrebbe dovuto rovesciare le parti: molestare per non essere molestato. Inoltre la vedeva per quella che era. Chi mai avrebbe potuto corteggiarla? Ma non aveva fatto i conti col suo bisogno di piacere, né con una categoria di uomini che, pur di allungare l’elenco delle loro conquiste, sarebbero disposti a tutto. Neppure aveva fatto i conti con la nefasta influenza su Laura di alcune sue amiche, ricche e annoiate come lei, che per vincere appunto la noia andavano a caccia di giovanotti. Laura non voleva essere da meno. Il fisico non la aiutava, ma a forza di sorrisi e occhiate languide riuscì a catturare l’attenzione di un paio di arrapati perenni. Uno dei quali era proprio Gino, il macellaio. Cinquant’anni portati abbastanza bene, la battuta a sfondo sessuale sempre pronta e la nomea di tombeur de femmes nel quartiere.
3
Di Gino non c’era traccia. Meglio per lui, pensai. E anche per me. Non avrei potuto fare finta di niente. Avrei dovuto affrontarlo, e se lui avesse fatto lo sbruffone avrei dovuto alzare le mani. Sì, era meglio per entrambi che fosse sparito.
Ripresi a camminare, ancora incredulo della scena a cui avevo assistito. Ma com’era stato possibile, come! L’espressione lussuriosa di Laura mi danzava davanti agli occhi, il sangue mi pulsava forte nelle tempie, ebbi un capogiro e dovetti appoggiarmi a una vetrina per non cadere. Laura, la mia Laura. E quel maledetto cafone, in casa mia, nudo, nel mio letto. L’ultima persona al mondo che mi sarei mai immaginato di trovare lì. A dire il vero non ero mai riuscito a immaginarlo in nessun luogo che non fosse il bancone della macelleria, tra quarti di bue e costolette di agnello. Inspirai profondamente e mi coprii il viso con le mani, ma non piansi. Mi sforzai di farlo, ma le lacrime non uscirono. Detti la colpa alla cronica incapacità di esternare le emozioni. Ci riprovai, invano. Col passare dei minuti, inoltre, mi sorpresi di provare più stupore che dispiacere. Anche un po’ di rabbia, che però non sorgeva spontanea. Insomma, stavo sforzandomi di essere in collera.
Mi diressi verso il centro. Le strade erano piene di gente e mi ritrovai a camminare in mezzo alla folla a un’ora per me insolita. Mi sedetti su una panchina proprio davanti alla fontana della piazza principale. Gli schizzi d’acqua e una leggera brezza rendevano l’aria piacevolmente fresca. No, non ero affatto arrabbiato, era inutile che fingessi con me stesso. Credetti che lo shock avesse annullato ogni sentimento. Pensai ancora a Laura con gli occhi chiusi e la bocca piegata in una smorfia di piacere. Poi pensai a quando aveva aperto gli occhi, e a Gino, che si era staccato da lei con un ‘plop’ secco ed era fuggito come inseguito da una muta di cani. Mi venne da ridere. Detti ancora la colpa allo sconvolgimento emotivo ma comunque sorrisi. Gino, Laura... che figura di merda. Provai a fare qualche ragionamento: due operazioni aritmetiche, un sillogismo, la ricostruzione del percorso che avevo fatto per giungere fino alla piazza. Ci riuscii senza problemi. Calcolai che dal momento in cui avevo parcheggiato la macchina sotto casa non doveva essere trascorsa neanche un’ora. Guardai l’orologio: le diciannove e trenta. Dunque erano trascorsi cinquanta minuti. Dunque avevo indovinato. Dunque ero lucidissimo, macché sconvolto.
Non avevo mai fatto caso a quante belle ragazze ci fossero in città. O forse me lo ero dimenticato. Ognuna sembrava avere un particolare straordinariamente attraente, e sembrava che tutte avessero deciso di passarmi davanti per farsi notare. No, era impossibile. Allora pensai che lo shock mi facesse credere l’incredibile o quantomeno mi spingesse a concentrare altrove l’attenzione. Era un modo per evitare di soffrire? Era una forma di compensazione?
Mi sentivo confuso, questo sì, ma a poco a poco tra il turbamento e lo stupore di non essere arrabbiato si fece strada un altro sentimento: l’euforia. All’inizio tentai di resistergli. Mi sforzai ancora di provare avvilimento, rabbia. Tutto inutile, ero inspiegabilmente e irresistibilmente euforico. Smisi di fare congetture e mi godetti la vista delle bellezze femminili, e il microclima della fontana. Il sole era ormai tramontato, ma il via vai di gente non accennava a diminuire.
Ehi, ce l’hai da accendere?
, mi chiese una ragazza dal seno generoso, che svettava da sotto un’anonima canottiera bianca.
La ragazza era un po’ trasandata, ma bella. Che cosa avrebbe potuto farle o dirle quell’orso schifoso di Gino? Probabilmente le avrebbe regalato due fette di carne, accompagnandole con una battuta volgare, alla quale lei non avrebbe riso affatto. Non avrebbe neppure accettato di ricevere la carne in regalo: avrebbe preteso di pagarla e preteso pure lo scontrino.
Be’, allora?…
, insistette, con un sorriso.
Sorridendo a mia volta scossi la testa. Lei mi fece l’occhiolino e si allontanò, con la sigaretta tra le labbra e con l’orlo dei pantaloni troppo lunghi che strusciavano sull’asfalto. Provai l’impulso di raggiungerla e di raccontarle che cosa mi era successo poco prima. Avremmo riso, poi saremmo andati in un bar a berci una birra. Invece rimasi lì a guardarla mentre si allontanava, fino a sparire. A frenarmi fu la paura di fare la figura dello scemo. Non volevo rovinare il momento che stavo vivendo. Erano anni che non provavo il gusto dell’euforia, il gusto di vivere intensamente l’attimo,