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La principessa dei Lupi. I racconti del Grande Nord
La principessa dei Lupi. I racconti del Grande Nord
La principessa dei Lupi. I racconti del Grande Nord
E-book1.133 pagine16 ore

La principessa dei Lupi. I racconti del Grande Nord

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Info su questo ebook

In un mondo governato da ombra e dolore, la fede negli Antichi Dei sembra ormai quasi sconfitta. I Reami del Grande Nord Midgard, Hibernia e Albion, un tempo fieri e gloriosi, hanno perduto la speranza di rinascere dalle loro stesse ceneri, e sono rassegnati a una fine che pare inevitabile. Anche i leggendari Lupi Custodi, da sempre forieri di speranza e riscatto, sembrano scomparsi. Nel momento più buio e disperato, dall'oblio delle Ere passate, una flebile luce arriva improvvisa e inaspettata a rischiarare l'oscurità. Sarà un'ennesima, crudele illusione, o il preludio della tanto agognata rinascita? Il mito dei Celti e dei Norreni in chiave rivisitata Fantasy fa da cornice al primo capitolo de "I Racconti del Grande Nord", dove gli Eroi dei tre Reami daranno inizio al loro impervio cammino verso la riconquista delle loro Terre e della loro Libertà, aiutati dalle forze indomite della Natura e dal fuoco ardente della speranza. Un emozionante viaggio attraverso la forza, l'onore, il coraggio e l'amore. Un romanzo per rivivere il tempo della Magia, degli Dei e degli Eroi. Saga Fantasy "I Racconti del Grande Nord" Libro 1 - La Principessa dei Lupi Libro 2 - La Regina Lupo
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2014
ISBN9788891140203
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    Anteprima del libro

    La principessa dei Lupi. I racconti del Grande Nord - Elena Cavicchi

    Titolo | 1. La Principessa dei Lupi

    Collana I Racconti del Grande Nord

    Autrice | Elena Cavicchi

    ISBN | 9788891140203

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il Preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Copertina e grafica a cura di Luca e Matteo Vanini

    Font First Order ©Iconian Fonts by Dan Zadorozny

    usato su concessione del proprietario. Tutti i diritti riservati.

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall'editore, ai termini e alle condizione alle quali è stato acquistato o da quanto espicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così comel'alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritto costituisce una violazione dei diritti dell'editore e dell'autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

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    A Luca,

    Mamma, Papà, Eleonora,

    Rocco, Neek e Ciccio

    L’ALBA DEL MONDO

    Al tempo dell’alba del Mondo, al di fuori del tempo e dello spazio, dimoravano due fratelli: Abomalith ed Enki, gli Dei primordiali. Immortali e infinitamente potenti, essi erano i Signori dell’Universo.

    Abomalith ed Enki plasmarono molti mondi, popolando l’Universo di una moltitudine di forme di vita diverse tra loro, controllandone l’evoluzione e vigilando su esse costantemente.

    Tra questi mondi, vi era anche la Terra.

    Sentendo ardere in lui il desiderio di essere padre e maestro, Enki generò una progenie di Dei minori, infondendo in ognuno di loro, privandosene, parte del suo immenso potere. I suoi figli sarebbero divenuti i guardiani dei mondi, al fianco dei figli di Abomalith, e i due Signori dell’Universo avrebbero potuto concedersi una meritata e infinita pace.

    Ma il cuore di Enki sbagliò, perché il suo disegno non tenne conto di qualcosa di cui nemmeno Enki stesso era realmente a conoscenza: la vera natura di suo fratello.

    Abomalith, infatti, voleva tutto il potere per sé, e mai avrebbe generato creature a cui donarne una parte.

    A nulla valsero le preghiere di Enki: Abomalith si adirò oltre ogni immaginazione, ormai preda della sua stessa cupidigia e della sete di potere, che offuscavano il suo cuore e la sua mente ammantandoli di una coltre di sinistra tenebra.

    Enki perseguì e realizzò ugualmente il suo sogno, e nella convinzione che Abomalith, alla visione di ciò che egli aveva creato, avrebbe ammansito la sua anima assetata di potere, mandò i suoi figli al cospetto di suo fratello per rendergli omaggio.

    Fu allora che Abomalith cercò di togliere loro la vita, con un vile tradimento. Il complotto fallì, ed Enki riuscì a salvare la sua progenie, ma in quell’infausto giorno le sorti dell’Universo vennero inesorabilmente segnate per l’eternità.

    Enki non avrebbe mai perdonato Abomalith per ciò che aveva commesso.

    Ne scaturì una furibonda guerra che imperversò per un lungo, incalcolabile tempo. In quel nefasto periodo, l’infuriare della battaglia fratricida distrusse innumerevoli mondi, colpevoli solo di trovarsi al centro degli epici scontri. I pianeti superstiti, abbandonati a se stessi, privati della sorveglianza e della guida dei loro stessi Dei, caddero nel caos.

    Le Ere si susseguirono una dopo l’altra, mentre gli oscuri e tempestosi echi del conflitto avvolgevano ogni cosa, fino a che, dopo tanto combattere e tanto dolore, Enki e i suoi amati figli conquistarono la vittoria, e la quiete tornò.

    Non possedendo il potere necessario a distruggerlo, essi confinarono Abomalith nell’Abisso, un piano di esistenza parallelo all’Universo, ma dominato dal vuoto e dal caos. Un luogo temuto da tutte le creature viventi, persino dagli Dei stessi. Un luogo da dove Abomalith non sarebbe mai potuto fuggire. Mentre veniva gettato nell’Abisso, maledicendo Enki, che gli aveva preferito i suoi figli, Abomalith scagliò un incantesimo su un frammento di uno dei mondi distrutti dalla guerra, trasformandolo in un’oscura cometa. Thu’Skalith, il Dio caduto, la chiamarono.

    Disperato per il tradimento del fratello, affranto per aver dovuto separarsi per sempre da lui, e dal pensiero di non poterlo mai più rivedere, Enki guardò con occhi colmi di infinita tristezza la distruzione attorno a lui. Fu allora che uno dei suoi figli più potenti ridestò il suo cuore indicandogli un mondo che, per miracolo, era stato risparmiato dagli orrori della guerra.

    Quel mondo, rimasto ormai isolato dagli altri, ma sopravvissuto in tutto il suo splendore, era la Terra. Enki allora, consapevole di non poter rimanervi a vegliare, poiché il suo aiuto era richiesto dagli altri mondi, troppo distanti da lì, designò quattro dei suoi figli come Guardiani di essa.

    Infuse inoltre parte della sua stessa Essenza nelle creature più nobili, fiere e selvagge che egli stesso avesse mai creato: i Lupi, nominandoli così Custodi e Guardiani di essa sulla Terra.

    Fu così che Zeus, Odino, Dagda e Amon-Ra, figli di Enki, strinsero un’alleanza indissolubile con i Lupi Custodi, e giurarono al loro padre di proteggere e guidare la Terra con devozione e impegno, in attesa del suo ritorno.

    Odino e Dagda si stabilirono a Nord, Zeus e Amon-Ra a Sud. Tutti e quattro ebbero la loro progenie e con essa plasmarono e diedero vita alle più grandi e splendenti civiltà che la Terra avesse mai conosciuto.

    Ogni cinquecento anni la cometa magica di Abomalith tornava a farsi vedere nel cielo della Terra, quasi per ricordare ai quattro Guardiani che anche se il fratello del loro padre giaceva nell’Abisso, li osservava attraverso quel corpo celeste, aspettando il momento giusto per riprendersi ciò che da sempre considerava suo. Sapevano che Thu’Skalith era pericolosa, poiché essa costituiva il ponte tra l’Abisso e il loro mondo.

    Ma Zeus, Odino, Dagda e Amon-Ra, figli di Enki, non la temevano: fin quando essi fossero riusciti a mantenere salda la fede dei loro popoli, la Terra sarebbe stata al sicuro.

    LA PRINCIPESSA DEI LUPI

    MIDGARD - LA DISCEPOLA DELLE RUNE

    Quel giorno di mezzo autunno, Belthasar scrutava assorto l’orizzonte dalla cima della sua dimora, una torre alta e circolare situata nei meandri più remoti della Foresta di Skollnir. Il suo sguardo saggio e senza tempo trafiggeva le nuvole, vedeva lontano, scrutava le sorti delle terre di Midgard.

    Il cielo era plumbeo e minaccioso, le cime innevate delle montagne erano solo contorni indefiniti sotto la coltre nebbiosa dei cirri che velocemente si spostavano verso ovest. Un vento insolitamente freddo per quella stagione spirava violentemente da est, portando con sé il rabbioso e ritmico rombo del Mare di Ghiaccio, che infrangeva le sue onde gigantesche sulla vicina scogliera a picco. A ogni folata, la veste candida dello stregone si sollevava vistosamente, ed egli, da lassù, sembrava un bianco stendardo che prepotentemente sventolava sfidando la furia della tempesta imminente.

    Belthasar era alto e dalla corporatura muscolosa. I suoi capelli, bianchi come la neve, con qualche ciocca argentata, erano sempre raccolti ordinatamente in una coda di cavallo; la sua barba, ben curata e corta, più scura rispetto alla capigliatura, conferiva al suo viso un aspetto austero e colmo di fascino. Belthasar non era più giovane, ma, nonostante il suo aspetto tradisse una certa maturità, nessuno avrebbe mai potuto stabilire quale fosse la sua reale età. Senz’altro il suo sguardo, illuminato da vivida luce celeste, incuteva rispetto e soggezione in chiunque si trovasse a incrociarlo.

    Belthasar era uno Stregone di grande potere: i numerosi inverni trascorsi a studiare le Arti arcane gli avevano conferito una grande maestria nel manipolare e canalizzare ogni tipo di energia magica, maestria che, insieme alla sua immensa saggezza, facevano di lui uno dei più potenti incantatori che il mondo avesse mai conosciuto. Beneficiato del dono di lunga vita, forse anche per merito della stessa magia che praticava, era conosciuto e amato da molti popoli, anche ben oltre i confini di Midgard.

    Vieni, Althaea. Disse, senza voltarsi.

    Ti chiedo scusa, non volevo distoglierti dai tuoi pensieri. Althaea aveva silenziosamente raggiunto la cima della torre alla ricerca del suo mentore, ma avendone notato l’assoluta concentrazione, non aveva voluto disturbarlo. Era così rimasta immobile a osservarlo, per un breve istante, prima che lui ne percepisse la presenza.

    L’aspetto di Althaea era più unico che raro, dalla sua pelle argentea, del colore dell’agata grigia, agli occhi grigio azzurri, ai lunghi capelli color platino. Le labbra carnose, celesti come i riflessi dei suoi occhi, celavano un sorriso radioso e istrionico. Il suo volto era una perfetta sinergia di lineamenti straordinariamente incantevoli, e il suo corpo, esile e di media statura, era regale e aggraziato. Persino le sue mani, affusolate e levigate come marmo, erano splendide. Fasciata nella veste color antracite che Belthasar le aveva regalato pochi giorni dopo il suo arrivo alla torre, Althaea era una bellissima apparizione dalle sembianze quasi ultraterrene.

    Le Terre di Midgard sono sull’orlo della rovina ormai. Non c’è più tempo da perdere. Mugugnò Belthasar come in un pensiero a voce alta, ignorando completamente le parole di Althaea.

    I Lupi sono irrequieti. Non è normale. Commentò lei.

    In lontananza, numerosi ululati si levavano dalla folta vegetazione della foresta, in un incessante concerto dai risvolti pieni di inquietudine.

    "I Custodi sanno." Fu la criptica risposta dello stregone.

    I Lupi Custodi. Splendide, maestose creature selvagge alle quali Althaea doveva la sua stessa vita. Essi l’avevano tratta in salvo dalle macerie della sua casa, quando ogni cosa le era sembrata perduta, e l’avevano condotta al sicuro, da Belthasar. Era passato molto tempo da allora, ma i Lupi non l’avevano mai abbandonata, vegliando su di lei anche quando non se ne accorgeva, standole accanto, infondendole il coraggio e la fiducia nel futuro, due elementi indispensabili per affrontare quei tempi così oscuri. Lo straordinario e stretto rapporto che legava gli uni all’altra era quasi simbiotico, un’indissolubile alleanza che rendeva entrambe le parti più forti. Mai Belthasar aveva visto un’affinità tanto elevata quanto quella che esisteva tra le maestose creature selvagge e la sua giovane adepta. Per questo, affettuosamente, la chiamava Principessa dei Lupi.

    È giunto il momento che aspettavi da tanto disse Belthasar. Preparati, domani si parte all’alba.

    Althaea rimase inebetita a guardare il vuoto. Tutto si sarebbe aspettata, ma non di partire l’indomani stesso.

    "Aspetta Belth!" gli gridò dopo qualche istante, inseguendolo.

    Belthasar si fermò e, volgendosi verso di lei, rivelò un sorriso compiaciuto. Sorpresa? Eppure sapevi che questo giorno sarebbe giunto.

    Non credevo di sentirmelo dire così, a bruciapelo. Mi aspettavo un preavviso un po’…

    Più lungo? la interruppe Belthasar. Eppure sai bene in che periodo siamo. Manca poco ormai.

    Althaea non rispose e abbassò lo sguardo.

    Aveva contato il susseguirsi dei cicli di stagioni con crescente impazienza, eppure, ora che l’annuncio della loro partenza era arrivato, gli unici sentimenti che riusciva a provare erano timore e insicurezza.

    Belthasar le si avvicinò, e le posò una mano sulla spalla. Sei pronta ormai: sai tutto ciò che devi sapere. Hai imparato tutto quello che dovevi imparare. E ora, il tempo stringe. Abbi fiducia nella tua forza interiore. È lei che ti ha condotto sino a qui. La tua strada e lì, già segnata davanti ai tuoi piedi: devi solo percorrerla, la rincuorò.

    Si ritirarono nelle loro stanze dopo una cena alquanto frugale.

    Nel silenzio della sua camera, Althaea non riuscì a prendere sonno. Non si era mai resa effettivamente conto di quanto amasse quella torre.

    Era arrivata là da ragazzina impaurita e persa, la cui vita era stata distrutta. E là si era trasformata, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, nella donna di cui Belthasar andava tanto fiero.

    Tra quelle mura aveva studiato faticosamente la magia delle Rune, imparando a manipolarne l’immenso potere, fino a diventarne un’indiscussa Maestra.

    Aveva trascorso tutto quel tempo nella convinzione che la sua casa fosse sempre stata quella dove aveva vissuto con sua madre e suo padre. Ricordava con nostalgia la loro dimora, dove era cresciuta e aveva trascorso momenti indimenticabili, e fino a quel momento aveva considerato la torre di Belthasar come una sistemazione momentanea.

    Solo quella notte realizzò quanto quella convinzione fosse sbagliata, e quanto lei fosse affezionata a quel luogo. In realtà, era proprio quella torre la sua vera casa, perché era là che Althaea era diventata ciò che era, crescendo e maturando ogni giorno, affrontando sfide sempre nuove, imparando ad accettare le sconfitte come inestimabili insegnamenti.

    Ora che era arrivato il momento di lasciarla, Althaea sentì un profondo dolore. Ebbe paura di non rivederla più. Provò un forte senso di insicurezza, di timore e paura, sensazioni che da tempo era riuscita a sopire, e che ora tornavano prepotentemente a tormentarla.

    Si mise a gironzolare per la stanza prendendo tra le mani ogni piccolo oggetto, ogni ammennicolo, stringendolo tra le dita come per salutarlo un’ultima volta, lentamente, quasi come se stesse svolgendo un rituale. Pianse.

    Uscì dalla sua camera e prese a girovagare per tutta la torre, rimirandone ogni angolo, e fu presa ancor di più dallo sconforto. Le luci erano pallide e soffuse, il silenzio assoluto. Si guardò attorno come se fosse stata la prima volta che entrava in quella dimora, quando invece ogni cantone le ricordava qualche momento passato con Belthasar. Si sentì alquanto sciocca pensando a quanto aveva tormentato il suo mentore con la sua impazienza, pregandolo di metterla alla prova, per darle la possibilità di dimostrare che era pronta ad affrontare il suo destino; ripensò ai litigi e alle discussioni che ne scaturivano immancabilmente, quando Belthasar le ripeteva che non era ancora il momento. Ricordò quel giorno d’estate, quando lei aveva da poco passato i venti inverni, in cui lo stregone, esasperato dal suo continuo scalpitare, l’aveva portata con lui a sgominare un piccolo accampamento di mostri dell’Abisso, e lei aveva quasi perso la vita a causa della sua stessa superbia. Anche in quella occasione i suoi Lupi l’avevano salvata, e Belthasar le aveva insegnato qualcosa di molto importante. Nonostante ciò, aveva trepidamente atteso il momento in cui lo stregone l’avrebbe giudicata pronta per partire, e a dare finalmente inizio alla loro missione.

    Quel momento era giunto, e Althaea si rese conto di provare l’esatto contrario di quello che aveva sempre immaginato. Non voleva andare via. La sua vita, dopotutto, le piaceva molto, con le sue piccole abitudini e la sua gradevole quotidianità.

    Il tempo trascorse lento, e finalmente sonno e stanchezza presero il sopravvento. Ritornò nella sua stanza e si stese sul letto, cadendo in un sonno agitato.

    Quando l’oscurità della notte stette per lasciar spazio alla pallida luce del mattino, e i primi canti d’uccelli echeggiarono dalla foresta, Althaea aprì gli occhi.

    Alzatasi dal letto, aprì la grande finestra e ammirò lo spettacolo dell’alba su Midgard, la quale ancora giaceva addormentata e silenziosa. Le stelle divenivano sempre più velate con l’incedere della luminosità, la neve brillava di riflessi rosati, rifrangendo quel tenue e delicato colore anche sulle pendici dei monti; un freddo e secco vento spirava dal Nord, facendo frusciare in lontananza le fronde degli alti alberi secolari della foresta.

    Althaea respirò a pieni polmoni.

    Stette a rimirare il panorama per qualche altro istante, cercando di carpirne più particolari possibili, inebriata dalla sua selvaggia e incontaminata bellezza. Non sapeva quando, e se, avrebbe rivisto l’alba da quella finestra.

    Poi, consapevole di non poter indugiare oltre, si preparò.

    Indossò un abito nero che a prima vista poteva sembrare poco femminile e piuttosto spoglio, ma che, ponendovi più attenzione, rivelava una stoffa estremamente pregiata, costellata di intarsi di metallo flessibile raffiguranti le rune nordiche. La casacca, aderente e allacciata sulla schiena, era di ottima fattura ed estremamente elastica, per lasciare spazio anche ai più intrepidi movimenti; i pantaloni, di identica fattura, con l’unica differenza dello spessore della stoffa usata, che era del doppio rispetto alla casacca, erano anch’essi aderenti, e seguivano perfettamente le forme delle gambe. La stringeva in vita una cintura di anelli neri alla quale era fissato un lungo fodero che conteneva un’affilata e leggermente ricurva spada elfica, imponente ma leggera come una piuma. Sulle spalle, un lungo, lucido manto nero con cappuccio, dagli orli finemente ricamati con filo argenteo, che richiamavano i motivi dell’abito. Ai piedi, stivali di cuoio fino al ginocchio, anch’essi rigorosamente neri.

    Althaea si rimirò nel grande specchio posto poco distante dal letto, e si ritenne più che soddisfatta.

    Puntualissimo, Belthasar bussò alla porta dopo pochi istanti.

    Vieni, mancano ancora due cose al tuo… equipaggiamento. Le disse, non appena lei gli aprì.

    Althaea lo seguì silenziosa e incuriosita.

    Si inoltrarono nei labirintici sotterranei della torre, alla sola luce della fiaccola che Belthasar stringeva nella mano destra. Arrivarono a una remota porticina in fondo a un corridoio buio e stretto. Althaea non sapeva nemmeno della sua esistenza: non aveva mai prestato molta attenzione ai cunicoli sotto la dimora dello stregone, ritenendo di non trovarvi nulla di misterioso né, tantomeno, interessante; in ogni caso la appassionavano molto di più le passeggiate nella foresta con i suoi amati lupi, e preferiva di gran lunga l’aria aperta e la sfavillante luce di Midgard, alle claustrofobiche e polverose gallerie sotto terra.

    La serratura del minuscolo uscio scattò, e alla ragazza si presentò davanti una stanzetta piena di cimeli conservati con gran cura. Belthasar, una volta entrato e adagiata la torcia nel supporto a muro, aprì un immenso baule ed estrasse un prezioso cofanetto cubico.

    Ecco, questa è molto preziosa. È una Tiara. Può sembrare solo una piccola corona nera, ma in realtà protegge molto di più di un elmo. Con questa sulla testa, mia cara, non dovrai temere che il tuo bel viso subisca alcun danno disse lo stregone porgendo il cofanetto a una stupefatta Althaea.

    La giovane aprì il contenitore e vide una splendida coroncina nera, finemente intrecciata secondo le migliori arti degli Elfi della Luce. La guardò estasiata, con grande meraviglia, quasi catturata dal suo innegabile fascino.

    Su, provala, dovrebbe andarti benissimo la incalzò Belthasar sorridendo soddisfatto.

    Althaea si pose in testa il prezioso cerchietto e subito sentì uno strano senso di sollievo. Sulla fronte ricadeva, con la punta verso il basso, il centro della corona formato da due teste di lupo stilizzate che si andavano quasi a baciare. Non ebbe nemmeno bisogno di aggiustarsi i capelli: la tiara andò a cingerle la capigliatura in modo impeccabile, integrandosi perfettamente con la sua dritta chioma argentea. Le stava davvero d’incanto.

    "Belth… è straordinaria… disse Althaea vedendosi riflessa in un lungo specchio adagiato in un angolo della stanza. Ma da dove viene?"

    Un giorno te lo dirò, non temere. Glissò lo stregone.

    Poi si diresse verso l’angolo più buio della stanza, e da sotto un telone scuro estrasse una staffa, anch’essa nera, con un rosso e splendente rubino incastonato sull’estremità superiore. Non era particolarmente lavorata, ma Althaea stessa, nel vederla, capì che si doveva trattare di un oggetto appartenuto a un mago molto potente.

    Questa, ragazza mia… questa è la cosa più importante del tuo equipaggiamento disse Belthasar con voce grave. Immagino tu non la riconosca.

    Dovrei? rispose Althaea dubbiosa.

    Forse. Ma ho paura tu non abbia mai avuto occasione di vederla.

    "Belth…cosa stai cercando di dirmi?" chiese Althaea, un po’ infastidita dallo strano atteggiamento assunto da Belthasar.

    Prima non vuole rivelarmi la provenienza della corona, ora questo mistero sulla staffa. Pensò, con un certo disappunto.

    Lo stregone le sorrise. Perdonami. Esordì angelicamente. È che provo sempre una certa emozione nel rivedere questa staffa. E sono un po’ turbato, ora che è venuto il momento di consegnartela. Disse abbassando lo sguardo.

    Althaea lo fissò, preferendo rimanere silenziosa, nell’attesa di una spiegazione, che, per fortuna, non tardò ad arrivare.

    Questa è la staffa magica più potente che io abbia mai impugnato. Dopo la mia, s’intende. La magia scorre in essa come il sangue nelle vene degli Uomini, Althaea. Era di tua madre. Ora è tua. Proclamò Belthasar, porgendole l’imponente oggetto magico.

    Lei lo fissò attonita. Stupore, meraviglia e sgomento si mescolarono sul suo viso in una smorfia contrita. Allungò la mano e strinse con forza la fredda e bellissima staffa, girandola e rimirandola da cima a fondo.

    Ma com’è possibile? Come l’hai avuta? chiese infine.

    Tua madre avrebbe voluto che ciò che apparteneva a lei andasse a te. Non potevo permettere che questa staffa andasse perduta rispose lo stregone. È appartenuta alla tua famiglia sin dalla prima generazione.

    Belth… Come al solito le tue risposte sono evasive ed enigmatiche disse Althaea, visibilmente frustrata.

    Solo quando le domande sono troppe, e poste nel momento sbagliato rispose Belthasar, risoluto.

    Althaea sospirò: D’accordo, mi arrendo. Anche perché non credo di avere alternative.

    Saggia decisione sorrise Belthasar malignamente.

    In ogni caso... proseguì Althaea, grazie. Per questa, e per tutto il resto… gli disse in segno di pace.

    Belthasar ricambiò il sorriso, visibilmente rincuorato. Vieni, è ora di partire le disse alzandosi e uscendo dalla piccola stanza.

    Althaea sentì un colpo al cuore. Mentre, insieme a Belthasar, tornava in superficie, cercò di respirare profondamente, per scacciare l’angoscia che le stava strisciando dentro in maniera subdola, facendo vacillare la sue sicurezze.

    Ricordò le tre regole che il suo mentore le aveva insegnato durante il lungo ed estenuante addestramento che le aveva impartito. Parole impresse nella sua mente come un marchio a fuoco:

    "Regola numero uno: mai attaccare per rabbia."

    "Regola numero due: il potere è nulla senza controllo."

    "Regola numero tre: la conoscenza è potere, sempre."

    E, finalmente, si sentì pronta.

    Il mattino era fresco e limpido. Nel cielo azzurro scuro solo piccole e innocue nuvole bianche passavano lentamente sopra le loro teste. Il soffice e sottile strato di neve scricchiolava leggermente sotto i loro agili e silenziosi passi, la delicata brezza mattutina scuoteva le fronde degli imponenti pini della Foresta di Skollnir, generando un rilassante e gradevole fruscio.

    Il timore di Althaea, di doversi separare per lungo tempo dai suoi amici lupi, si rivelò ben presto infondato. Essi infatti erano partiti con lei e Belthasar, seguendoli ai lati del sentiero. Erano molto numerosi, e proseguivano discretamente in mezzo agli alberi. Althaea si sentì rassicurata dalla loro presenza, rincuorata che quelle straordinarie creature vegliassero su di lei anche in quel momento.

    Belthasar era silenzioso, e stranamente guardingo. Non avevano percorso molta strada, la torre era vicina, e Althaea aveva ancora una certa familiarità con quei luoghi, tuttavia lo stregone era preoccupato.

    Saremmo dovuti partire prima, abbiamo indugiato troppo disse egli infine.

    Cosa intendi? Siamo ancora in territori conosciuti, che pericoli potrebbero attenderci? chiese Althaea.

    I tempi stanno cambiando rapidamente, ragazza mia. Nemmeno in questi luoghi, ormai, si può più essere sicuri. Un’oscura forza si avvicina. Lo sento rispose Belthasar.

    Althaea alzò il livello di guardia, cercando di tendere l’orecchio il più possibile, e si sforzò di camminare ancora più silenziosamente. Ciò che Belthasar temeva non doveva essere sottovalutato: egli non parlava mai inutilmente di preoccupazione o brutti presentimenti. In effetti, notò la ragazza, anche i lupi avevano iniziato a muoversi più prudenti e silenziosi.

    Il sole era già girato verso ovest, il pomeriggio era iniziato, e, a dispetto del monito di Belthasar, fino ad allora i due pellegrini non avevano incontrato né udito nessun segno di pericolo, né alcun ostacolo di rilievo. Avanzavano molto velocemente, grazie alla sicura guida dello stregone.

    Althaea ormai sapeva dove si trovavano solo per lo spiccato senso dell’orientamento che da sempre possedeva, ma si accorse, guardandosi attorno, di non aver memoria di quei luoghi. Molto probabilmente, se fosse rimasta sola, soltanto i lupi l’avrebbero potuta ricondurre a casa. Notò che il rumore del Mare di Ghiaccio si era sempre più affievolito, sino quasi a scomparire. Ciò significava che si erano allontanati dalle scogliere, addentrandosi nella foresta verso ovest.

    Arrivò il crepuscolo, così decisero di trovare un posto sicuro per accamparsi e trascorrere la notte. L’oscurità non era infatti consigliabile per i viaggiatori nella foresta, nemmeno per quelli esperti come Belthasar.

    Trovarono una piccola radura poco distante dal sentiero ma ben nascosta, e si accomodarono per mangiare qualcosa e riposare. Dei lupi non v’era traccia.

    Non accesero alcun fuoco per paura di essere individuati da eventuali predatori, così Belthasar dovette ricorrere alla magia per scaldarsi quel tanto che bastava da smettere di tremare. Althaea, al contrario, non ebbe alcun problema con la bassa temperatura della notte: lei sopportava il freddo in maniera invidiabile, tanto da vestirsi pressoché allo stesso modo sia in inverno che in estate.

    Mangiarono in silenzio. Althaea si stupì di se stessa: c’erano mille domande che, nei giorni antecedenti la partenza, le avevano affollato la mente ma, in quel momento, erano tutte misteriosamente svanite.

    Meglio coricarsi, adesso disse sottovoce Belthasar. Domani ci aspetta una lunga giornata. Così dicendo si imbacuccò nelle coperte e cadde in un sonno profondo.

    Più lunga di quella appena passata? Non credo proprio pensò Althaea. Non aveva sonno, nonostante la stanchezza. Raramente sentiva il bisogno di dormire, e accadeva solo nelle occasioni in cui sentiva troppa ansia, o dopo un viaggio durato giorni. Si appoggiò con la schiena a un albero e prese a rimirare le stelle nel cielo terso e illuminato dalla luna nel suo primo quarto. Pensò a Thu’Skalith. Ricordò la prima volta che la vide, e tutto ciò che era accaduto dopo. Subito cercò di scacciare i brutti pensieri e rammentare soltanto ciò che i Lupi avevano fatto per lei in quel momento così buio della sua vita. Si perse in queste infinite rimembranze e non si accorse di cadere addormentata.

    Il canto degli uccelli la svegliò poco prima dell’alba. L’aria si era fatta frizzante e l’oscurità andava lentamente affievolendosi. Si girò per destare Belthasar, ma con sua grande sorpresa vide che egli non c’era. Si mise a sedere di scatto guardandosi attorno, non osò chiamarlo, perché sapeva di non dover fare rumore, ma si sentì decisamente allarmata. Poco dopo, udì dei passi avvicinarsi velocemente, e, senza pensarci un istante, estrasse la lunga spada dal fodero. Ritta in piedi a lama sguainata, attese.

    Da un cespuglio sbucò lo stregone con un recipiente pieno d’acqua in una mano, e un mazzo di erbe officinali nell’altra.

    Belth! disse quasi arrabbiata. Perché non mi hai svegliata quando ti sei allontanato? Mi sono preoccupata!

    Nessuno sano di mente, mostro dell’Abisso o no, attaccherebbe alle prime luci dell’alba, con il rischio di trovare le sue prede già sveglie, e pronte al contrattacco rispose Belthasar angelicamente, alzando le spalle. Queste ci serviranno durante il viaggio disse poi, sistemando il vaso colmo d’acqua e le erbe nel suo zaino.

    Althaea sospirò e scosse la testa, ma non rispose. Il sollievo per essersi allarmata inutilmente fu più forte di qualunque vena polemica.

    Consumarono una frugale colazione a base di pane dolce e acqua, dopodiché radunarono in gran fretta le loro cose, e si apprestarono a proseguire il loro cammino.

    Trascorsero la mattinata in una faticosissima scalata, per arrivare al passo che li avrebbe condotti sul versante opposto delle sconfinate Montagne Jamtland, una catena montuosa che percorreva tutta Midgard da nord a sud, e le cui pareti dolomitiche si tuffavano a picco verso ovest, nel Mare di Ghiaccio, creando spettacolari e suggestivi fiordi. Le Montagne Jamtland sembravano non conoscere i cicli di stagione, perché le loro cime erano costantemente innevate, e le temperature ad alta quota sempre rigide ed estreme.

    Il territorio era ostile e selvaggio, il vento continuava a ululare tra gli alberi secolari, sferzando violentemente i due pellegrini, che proseguivano il loro cammino con grande difficoltà. La neve ghiacciata scricchiolava sotto i loro passi, dalle loro labbra fuoriuscivano piccole nuvolette di vapore acqueo, mentre il loro respiro era sempre più affannato.

    Althaea non aveva immaginato di dover affrontare un viaggio così arduo, e si trovò in più di un’occasione a pensare se ne valesse veramente la pena. Erano chiaramente dubbi temporanei, derivanti più che altro dall’immane fatica del momento. Quella salita sembrava non avere fine.

    Finalmente, tuttavia, essa finì.

    Era da poco passato mezzodì, il sole era a picco su di loro, quando raggiunsero il passo. Althaea rimase senza fiato, quando alla sua vista si aprì, in tutta la sua magnificenza, uno straordinario panorama. Da quel punto, si potevano ammirare i picchi delle Montagne Jamtland, le lontane e verdi pianure sottostanti, un immenso lago e il delizioso altopiano pedemontano che andava gradualmente appiattendosi fino a divenire pianura vera. I colori spaziavano dal bianco delle vette, al grigio delle pareti rocciose, sino al verde smeraldo dell’altopiano e a quello chiaro della pianura, in una perfetta sinfonia cromatica, orchestrata dalle infinite sfumature di quella natura così incomparabilmente bella.

    Si sedettero in contemplazione, consumando un pranzo a base di carne essiccata e frutta fresca.

    È davvero spettacolare disse Althaea, non appena ebbe finito il pasto.

    E non hai ancora visto niente ribatté Belthasar, con piena soddisfazione.

    Si rimisero in cammino poco dopo, con l’estremo sollievo di dover affrontare una via completamente in discesa. Soltanto a pomeriggio inoltrato i Lupi tornarono al loro fianco, ai margini del sentiero.

    La strada si era fatta sempre meno ripida, sino a divenire quasi piana, segno che la valle sottostante era ormai a pochi passi. Anche la foresta stava gradualmente diradandosi, lasciando spazio sempre più spesso a grandi radure che odoravano di sottobosco e more.

    "Accidenti, non ero più abituato a simili passeggiate" si lamentò Belthasar, dopo aver percorso un lungo tragitto senza parlare. Lo stregone si concesse una pausa, chinandosi in avanti per potersi sgranchire la schiena.

    Brutta cosa, l’avanzare del tempo lo canzonò Althaea.

    Belthasar spalancò la bocca e le rifilò un’occhiataccia scherzosamente offesa, ma non ebbe il tempo di rispondere a tono, perché si udirono strani rumori in avvicinamento.

    I lupi si fermarono all’unisono in attento ascolto, e così fecero i due pellegrini.

    Althaea si mise all’erta, ogni singolo muscolo teso, l’udito finissimo che percepiva ogni fruscio, mentre il rumore di arbusti e foglie secche calpestati si faceva ogni attimo più forte.

    Il rumore, da confuso, divenne distinto: erano chiaramente passi, e, ormai, erano vicinissimi.

    D’un tratto, un uomo sbucò dagli alberi e, inciampando su una radice sporgente, cadde rovinosamente rotolando sul sentiero, a ridosso dei due viaggiatori.

    HIBERNIA - LA STRANA COPPIA

    Era una tiepida giornata d’autunno quando Mirreath e Tanek comparvero sul sentiero polveroso e scosceso che si snodava, contorcendosi in innumerevoli curve come un gigantesco serpente, nel mezzo alla Foresta di Nemon. Il delizioso contrasto tra il colore sfavillante di conifere e tassi, e le infinite gradazioni dal dorato al rosso delle foglie dei non sempreverdi, si sposava armoniosamente con i raggi del sole che, sebbene a fatica, penetravano tra le fronde degli alberi e creavano curiosi disegni di ombre sulla rossa terra battuta del sentiero.

    Le foglie secche scricchiolavano sotto i piedi della strana coppia di viandanti che proseguiva in silenzio, quasi a volersi gustare i profumi e la quiete di quel posto così isolato e solitario.

    Mirreath era alto, molto più di quanto non fosse la statura media di Hibernia. Il suo viso, spigoloso, dall’espressione costantemente ombrosa e dai lineamenti affascinanti e austeri, incorniciava magnetici occhi neri, profondi e glaciali allo stesso tempo. I suoi capelli, lunghi e scuri, erano dritti come fusi; da essi facevano capolino le orecchie stranamente appuntite, che ricordavano quelle degli Elfi della Luce, anche se nessuno prendeva Mirreath per un Elfo, nonostante la sua avvenenza.

    Mirreath aveva l’abitudine di vestire sempre di nero, il che lo rendeva misterioso e intrigante, anche se un po’ lugubre. Ciò che però lo rendeva davvero attraente, al di sopra di ogni altra cosa, era senz’altro l’alone mistico che lo circondava. Egli non nascondeva minimamente, infatti, di essere un mago esperto e potente. Tutto in lui parlava di magia: dallo sguardo al cipiglio, dalle movenze alla postura, per finire con il tono di voce.

    Quando Mirreath faceva il suo ingresso in una taverna, avvolto dal lungo e fluttuante mantello nero di lana cotta che frusciava elegante assecondando ogni suo piccolo movimento, istantaneamente tutti gli sguardi delle signore presenti si fissavano su di lui come per ipnosi. Egli solitamente si avvicinava al bancone e, indifferente a tutto quell’interesse, ordinava un bicchiere di sidro arricchito da chiodi di garofano, o una birra doppio malto, a seconda del suo umore.

    Sarebbero certamente bastate quelle caratteristiche a fare di Mirreath una creatura indiscutibilmente fuori dall’ordinario, ma la sua vera, autentica unicità, stava in realtà in un’ulteriore peculiarità, che lo innalzava oltre ogni ragionevole dubbio nel firmamento dei combattenti leggendari: oltre ad avere indiscusse doti da grande incantatore, infatti, egli era anche molto abile con la spada. Possedeva una delle lame più impressionanti che si fossero mai viste in battaglia da molti inverni. Quell’arma, che più volte doveva aver decretato la parola fine alla vita di uomini e mostri, era di certo la più bella che ogni guerriero avesse mai potuto immaginare in vita propria. Una lama enorme, che era stata concepita per essere usata a due mani. Invero, giudicandola con occhio esperto, ben pochi uomini, fra quanti lui ne conoscesse, avrebbero potuto sollevarla, e ancor meno maneggiarla. Mirreath amava quella spada, forse teneva a essa più che a ogni altra cosa al mondo. Non permetteva a nessuno di avvicinarsene, né tantomeno di toccarla. Ogni sera la lucidava con cura quasi maniacale, seguendone tutto il perfetto filo della lama, tagliente come un rasoio, accarezzandone la superba elsa d’indubbia e raffinata lavorazione elfica e saggiandone gli splendidi intarsi e le pietre incastonate, per poi riporla con estrema cura nel suo fodero, oggetto di altrettanta qualità manifatturiera.

    A differenza del suo ombroso e affascinante compagno di viaggio, Tanek era di aspetto solare e luminoso. Anche la sua statura era superiore alla media, sebbene non raggiungesse neanche lontanamente quella di Mirreath. Il suo fisico era decisamente più tarchiato e muscoloso, cosa che contribuiva a non conferirgli l’aspetto slanciato del suo compagno di viaggio, mentre i suoi capelli, di un biondo talmente chiaro da sembrare quasi bianco, erano corti, con l’unica licenza di due ciuffi che gli ricadevano simmetricamente sulle tempie. Indossava un’armatura di maglia che ne rendeva l’aspetto ancora più imponente, stivali di cuoio borchiato e un lungo mantello blu che, a differenza di quello di Mirreath, non arrivava a toccare terra. I suoi occhi azzurri tradivano una perfetta combinazione di allegria, bonarietà, furbizia e intelligenza.

    Tanek era un guerriero estremamente abile, veloce, preciso e forte. Come Mirreath, maneggiava con una mano sola uno spadone bastardo originariamente concepito per essere brandito a due mani, e lo faceva volteggiare con la maestria di un vero veterano, senza dare alcun segno di fatica, o cedimento, nemmeno dopo ore di allenamento. Vestiva l’armatura come se fosse stata banale stoffa e, contro i nemici, la sua furia era implacabile quanto inarrestabile.

    Tanek era prestante, bello e vigoroso, ma quando si trattava di far colpo sul gentil sesso, contro il fascino misterioso e oscuro del suo compagno di viaggio, sembrava non avere alcuna partita. Questo lo innervosiva particolarmente, soprattutto perché, a differenza sua, Mirreath non mostrava alcun interesse per le tante giovani che dovunque andassero pendevano dalle sue labbra.

    Il cibo a chi non ha fame, era solito commentare, con una punta di rammarico.

    Tanek era originario di Albion, dove era nato e vissuto fino alla maturità con i suoi genitori e i suoi due fratelli minori. Quando la sua casa e il suo villaggio, insieme a tutta la sua famiglia, vennero spazzati via da una violenta incursione dei mostri dell’Abisso, Tanek fuggì via mare, rifugiandosi nella piccola città portuale di Dun Tuirren, sulla costa sud est di Hibernia. Orfano, solo, e in terra straniera, fino al suo incontro con Mirreath aveva vissuto alla giornata, cercando di guadagnarsi da mangiare con espedienti e lavoretti saltuari, tirando avanti come tante altre persone, in un’epoca così scellerata e priva di pace. L’odio per i nemici, che gli avevano portato via gli affetti più cari, gli aveva fatto scoprire ben presto una spiccata propensione al combattimento tanto che, durante le poche occasioni in cui i mostri dell’Abisso avevano attaccato Dun Tuirren, da solo era riuscito sempre a sopraffare diversi nemici, nonostante non fosse dotato di un buon equipaggiamento da battaglia.

    Mirreath e Tanek si erano conosciuti da poco, durante l’ultimo attacco in ordine di tempo a Dun Tuirren.

    Quel giorno, Tanek aveva combattuto duramente e come sempre aveva avuto la meglio su molti avversari. A differenza dei precedenti attacchi, tuttavia, quella volta le sorti della battaglia erano sembrate volgersi a favore dei nemici. Era stato allora, quando anche il biondo guerriero stava per battere in ritirata per salvarsi la vita, che Mirreath era apparso dal nulla. Con encomiabile sangue freddo ed estrema precisione, egli aveva scagliato contro i mostri dell’Abisso un numero incalcolabile di incantesimi dalla potenza distruttiva devastante, decimando le fila del nemico e costringendolo a una repentina ritirata. Da solo, il mago guerriero aveva di fatto ribaltato le sorti della battaglia, salvando la città e con essa le vite dei suoi abitanti.

    Guardandosi indietro, Tanek poteva tranquillamente affermare che quella battaglia gli avesse cambiato la vita per sempre: in quell’occasione aveva capito che la svolta che tanto aveva atteso era arrivata, che gli Dei gli avevano mandato un chiaro messaggio, quel giorno, facendogli conoscere Mirreath. La decisione fu presa: non era più tempo di sprecare la propria esistenza rimanendo inchiodato in quella cittadina sperduta ad aspettare inerme gli attacchi dei nemici; era giunto invece il momento di viaggiare, di portare il proprio aiuto ove serviva, di reagire all’invasore offrendo la propria spada a difesa dell’intero Reame. E così, si era armato e vestito, togliendo dai cadaveri, come solito, i pezzi di armatura che gli mancavano, una spada ben affilata e due pugnali, ed era andato dritto da quel misterioso e potente mago guerriero apparso all’improvviso, per chiedergli di condividere la strada con lui.

    E cosa ti dice che io e te abbiamo una comunione d’intenti? aveva esordito sospettosamente Mirreath, assai poco incline alla compagnia e alla condivisione di qualunque cosa.

    Il fatto che sia tu, che io, abbiamo combattuto dalla stessa parte, oggi aveva risposto prontamente Tanek, ansioso di lasciare la sua vecchia vita, e deciso a seguire la volontà che egli aveva attribuito agli Dei stessi.

    Mirreath, anche se non lo aveva dato a vedere, era a sua volta rimasto impressionato dalle straordinarie abilità da combattente di Tanek e aveva infine deciso di accettare la sua proposta. Sì, potrebbe servirmi la carne da macello per tenerli impegnati mentre preparo i miei incantesimi aveva risposto ammiccando perfidamente. Ma non rallentarmi, o ti lascerò indietro aveva ammonito.

    Tanek aveva colto quell’occasione al volo senza nemmeno stare a sentire quelle parole, e, raccolte le sue poche cose, si era incamminato al fianco del mago guerriero con enorme entusiasmo e nessun rimpianto.

    Non gli importavano i modi ombrosi e il fare taciturno del suo compagno di viaggio, né gli importava di non sapere praticamente nulla di lui. Non sapeva nemmeno dove stesse andando, cosa stesse cercando, e perché, ma nemmeno questo gli importava. Tutto ciò che davvero gli interessava era fare la cosa giusta, combattere per la sua terra natia che da tempo immemore giaceva impotente sotto i colpi dell’invasore, mentre la dinastia regnante viveva appartata nel suo mondo dorato, chiusa nella Caer Lugh, incurante delle pene a cui il suo popolo veniva sottoposto ogni giorno.

    Mirreath e Tanek avevano stabilito di arrivare insieme sino a Tìr Na Nòg, la città degli Elfi della Luce, dove essi si erano rinchiusi in un silenzioso e inspiegabile esilio. Poi le nostre strade si divideranno aveva sentenziato Mirreath.

    D’accordo, affare fatto aveva acconsentito Tanek. Non gli interessava molto, in realtà, cosa avrebbe fatto Mirreath successivamente. Il viaggio fino a Tìr Na Nòg sarebbe stato sufficiente per affinare le sue doti di combattente e per farsi un’idea precisa su quali fossero realmente le condizioni di Hibernia, dopodiché avrebbe potuto mettere in atto il suo piano. Nelle intenzioni di Tanek vi era infatti il fermo intento di chiedere udienza a Silmandir, il Re degli Elfi della Luce, per implorare l’aiuto del suo Popolo nella guerra contro i mostri dell’Abisso che dall’Era della Cometa martoriavano Hibernia con scorribande e saccheggi. Ogni giorno si ripeteva nella mente ciò che avrebbe detto al sovrano una volta al suo cospetto, studiando ogni parola, ogni frase, rivedendone i contenuti e raffinandone i termini, per renderlo il più convincente possibile. Tanek sapeva bene che, con la dinastia Reale inerme, sicuramente corrotta dal potere dell’Abisso, gli Elfi della Luce costituivano l’unica speranza di ridare la libertà a Hibernia, e avrebbe fatto qualunque cosa pur di ottenere il loro aiuto.

    Mirreath e Tanek si erano così diretti a ovest, verso l’entroterra di Hibernia, dopo aver restituito le poche case ancora rimaste in piedi agli spaventati e malandati abitanti di Dun Tuirren, i quali, come ringraziamento per aver annientato i mostri dell’Abisso, avevano donato loro viveri e pelli di animali per il viaggio.

    Avevano percorso il lungo e tortuoso sentiero ai piedi delle Cime d’Argento, l’unica catena montuosa di Hibernia, imponente, impervia e inospitale che, dalle alte scogliere a picco sul mare, si estendeva ad ovest, degradando sino a scomparire nella Piana di Rhiannon, il cuore verde di Hibernia, ove sorgeva la magica Capitale degli Elfi Tir Na Nòg.

    Dopo giorni di cammino, erano finalmente giunti a Dun Cethlenn, un tempo deliziosa città edificata sulle rive del lago Gair, nel cuore della foresta di Nemon.

    Nonostante fosse stata inevitabilmente trasfigurata dalla guerra, Dun Cethlenn era comunque rimasta una città di medie dimensioni, ove la gente non si era persa d’animo e aveva cercato di ricostruirsi una vita nonostante fosse passata attraverso innumerevoli inverni di razzie e battaglie. Dotata di un paio di taverne perfettamente funzionanti, acqua corrente, buon cibo, nonché di un fabbro e di un armaiolo per la manutenzione dell’equipaggiamento, Dun Cethlenn poteva andare orgogliosa di come si presentava agli stranieri. Complice la totale assenza di attacchi nemici, Mirreath e Tanek vi avevano trascorso qualche giorno in assoluto riposo, poi avevano ripreso il cammino verso nord est, diretti a Tir Math, un’altra cittadina nel cuore della foresta.

    La foresta di Nemon era un luogo pericoloso e sconosciuto. Da tempo immemore su di esso aleggiavano sinistre leggende di spettri che si aggiravano malevoli tra gli alberi, sussurrando ai viandanti, portandoli alla follia e infine alla morte. Persino Greg, l’oste di una delle due taverne di Dun Cethlenn, aveva messo in guardia Mirreath e Tanek, raccomandandosi di fare molta attenzione, e di non uscire dal sentiero, per nessun motivo. Greg aveva narrato che gli spettri non erano altri che i fantasmi degli Elfi rinnegati: Elfi che si erano macchiati di tradimento verso il loro stesso popolo, e per questo erano stati privati dell’immortalità. Dopo la morte, non trovando la via per il Regno dei Morti, tornavano nella foresta magica di Nemon per tormentare i vivi.

    Sebbene fossero decisamente inquietanti, né Mirreath né Tanek avevano dato molto credito a quei racconti, e il loro scetticismo aveva avuto ragione, dato che nessuno dei due aveva visto o udito qualcosa di strano durante il tragitto, peraltro ormai quasi terminato.

    Vorrei sapere chi ha tracciato questo sentiero ruppe il silenzio Tanek.

    A me invece non importa un bel niente rispose distrattamente Mirreath.

    No, dico... Chiunque sia stato, doveva essere completamente ubriaco proseguì il giovane guerriero, incurante dell’intolleranza del suo compagno di viaggio. Non poteva evitare di fare tutte queste curve? Saremmo già arrivati da un giorno se la strada fosse stata dritta.

    Hai così tanta fretta? chiese Mirreath alzando gli occhi al cielo in segno di insofferenza.

    Sono soltanto stanco di camminare rispose Tanek.

    Gli alberi iniziarono a diradarsi, dando spazio a un’ampia radura. Tir Math doveva essere ormai vicino.

    Situato al centro della grande foresta, Tir Math era un villaggio con scarse pretese: poche case, una sola via principale che lo attraversava completamente, una sola taverna con alloggi, un solo fabbro e un solo cerusico. Gli altri pochi abitanti erano per lo più fattori, che si sostentavano con ciò che loro stessi producevano, dando anche mantenimento al cerusico, al fabbro e alla famiglia dell’oste. Come la maggior parte dei centri abitati di Hibernia, un tempo Tir Math era di dimensioni ben più grandi, ma con l’arrivo del nemico invasore si erano salvati solo gli edifici sulla strada, meglio difendibili perché vicini gli uni agli altri, mentre quelli disseminati lungo le vie interne, ora distrutte, o nei campi limitrofi, adesso non erano altro che ruderi anneriti e abbandonati.

    Nonostante gli orrori della guerra e la scarsezza di ricchezze, ogni anno a Tir Math si rispettava una tradizione antica di almeno mille inverni: la fiera del raccolto. Un tempo era un evento che richiamava genti da tutta Hibernia, affollando il villaggio con una moltitudine di razze, costumi e usanze: Elfi, Piccolo Popolo, Fir Bholg e Celti esponevano le loro mercanzie su variopinte bancarelle colme di ogni ben degli Dei, mentre i visitatori si accalcavano su ognuna di esse per accaparrarsi il pezzo più bello nel caso di merci, o più buono nel caso di cibo.

    In quel nefasto periodo, la fiera era molto cambiata. Mancavano Elfi, Piccolo Popolo e Fir Bholg con le loro stravaganti mercanzie, mancava la folla proveniente da tutto il Reame, mancava l’atmosfera di gioia e spensieratezza che ormai i popoli di Hibernia avevano quasi dimenticato, tuttavia una parvenza di festa ancora ce l’aveva.

    Oh, siano lodati gli Dei! Finalmente cambia il panorama! esclamò Tanek quando, in lontananza, si iniziarono a scorgere esili rivoli di fumo salire al cielo rosso del tramonto.

    Tir Math era all’orizzonte.

    Aspetta lo bloccò Mirreath, arrestandosi all’improvviso.

    Che c’è adesso? sbuffò il giovane.

    Se invece di blaterare facessi silenzio e ascoltassi, forse non avrei bisogno di spiegarti rispose Mirreath con un’innaturale calma.

    Tanek gli lanciò un’occhiataccia, ma seguì il suo consiglio e acuì l’udito.

    Da Tir Math provenivano, seppur ovattati e lontani, rumori di accozzaglie metalliche e grida. Tutto sembravano, tranne i suoni di una festa.

    Il giovane guerriero si volse allarmato verso il suo compagno di viaggio: Mirreath era immobile, i lunghi e fluenti capelli neri si facevano accarezzare dall’elettrica brezza del crepuscolo, gli occhi neri erano fissi e attenti, la sua espressione imperturbabile. Tir Math è sotto attacco egli disse, con assoluta tranquillità.

    MIDGARD - ALTHAYR

    Dopo un primo istante di sbigottimento, Althaea e Belthasar corsero verso lo sventurato per soccorrerlo. Era supino, aveva il respiro affannoso e sembrava non avere la forza di alzarsi. Belthasar lo sollevò delicatamente facendogli poggiare il capo sull’incavo del gomito. Era un uomo giovane, dai lunghi capelli corvini. Indossava una pesante cotta di maglia parzialmente coperta da una casacca di cuoio marrone, pantaloni anch’essi di maglia e grossi stivali di cuoio intrecciato. L’uomo rivolse i suoi occhi color azzurro intenso allo stregone con aria di gratitudine, ma nel suo sguardo vi erano terrore e sbigottimento. Il viso era sporco di terra e sangue, ma non sembrava ferito gravemente, soltanto sfinito e impaurito.

    Althaea si avvicinò. Guardandolo, sembrava impossibile che un uomo tanto possente fosse così soggiogato dalla paura.

    Dimmi, guerriero, da cosa stai fuggendo? chiese Belthasar.

    L’uomo lo guardò di nuovo, poi si girò verso Althaea che nel frattempo si era inginocchiata vicino a loro. Il suo sguardo si illuminò, gli occhi si sgranarono in un’espressione di estrema meraviglia. Finalmente parlò: Siamo stati attaccati. Abbiamo resistito per un po’, ma poi abbiamo fatto fuggire tutti coloro che non erano in grado di combattere, e abbiamo dovuto ripiegare… non so cosa sia accaduto… sono solo fuggito… Fuggito! disse con un filo di voce, mentre il respiro gli si faceva più affannoso.

    Chi vi ha fatto questo? Chi? chiese Belthasar.

    Mostri… Erano mostri! Li chiamano i Mostri dell’Abisso! Abbiamo cercato di fermarli, ma non possono essere uccisi! Li trafiggi e loro si rialzano come se nulla fosse! Vengono dall’Abisso! disse l’uomo piangendo.

    È peggio di quanto temevo disse Belthasar rivolto ad Althaea.

    Togliamoci dal sentiero, quest’uomo ha bisogno di essere curato rispose lei risoluta.

    Insieme sollevarono il guerriero e lo portarono in mezzo agli alberi. Belthasar preparò bende pulite e un infuso di foglie di piante del sottobosco. Althaea medicò la ferita sulla testa dell’uomo e Belthasar gli fece bere la pozione. L’uomo cadde in un sonno profondo, così Althaea cercò di ripulirlo con pezzi di stoffa umidi, rimuovendogli dal volto e dalle mani il sangue rappreso e la terra. Mentre scorreva gentilmente i panni sul viso del guerriero, la ragazza ne notò i lineamenti duri, ma straordinariamente armoniosi, la mascella squadrata e le sopracciglia perfettamente allineate. Anche le sue labbra erano belle. Althaea si rese conto di trovarsi al cospetto di un uomo decisamente avvenente, e sorrise arrossendo, pensando che, in effetti, per essere stato il primo incontro che facevano lei e Belthasar da quando avevano lasciato la torre, sarebbe potuta andare molto peggio.

    Il guerriero continuò a dormire profondamente e, grazie alla potente pozione dello stregone e ai due pellegrini, non rimase che attendere il suo risveglio. Era quasi il crepuscolo quando egli si ridestò.

    Sembrava rinato. A parte la ferita alla testa, non presentava altri segni della battaglia degni di evidenza. Il respiro era regolare, il viso non più sfigurato dal terrore.

    Come vi chiamate, uomo del Nord? gli chiese Althaea.

    Althayr. Il mio nome è Althayr rispose il guerriero voltandosi lentamente verso di lei. I suoi occhi si riempirono nuovamente di stupore, ed egli rimase quasi ipnotizzato, come se non riuscisse a distogliere lo sguardo dalla ragazza. Era come se si stesse chiedendo se ciò che vedeva fosse reale o ancora frutto del profondo sconvolgimento della recente battaglia.

    Cosa è accaduto? Potete dircelo? incalzò Althaea dissimulando un certo imbarazzo.

    Eravamo disarmati. Non ce l’aspettavamo rispose Althayr schiarendosi la voce. Sono arrivati all’improvviso… Io ho combattuto fin quando ho potuto, ma eravamo inferiori di numero. Ci hanno sopraffatti, non potevo far altro che fuggire… io… Non potevo far altro! concluse con angoscia sempre crescente il guerriero, prendendosi il viso tra le mani e piangendo disperato.

    Non temete gli disse Althaea appoggiandogli una mano sulla spalla, mentre Althayr era ancora in preda ai singhiozzi. Non credo che voi siate fuggito per codardia, avrete di certo combattuto con onore. Presto questo scempio finirà e voi tornerete alla vostra dimora.

    Althayr tornò a fissarla, e smise improvvisamente di piangere. Voi non capite disse con tono colmo di sfiducia e incredulità. Non esiste più la mia casa. Quei Mostri Abissali bruciano qualunque cosa incontrino nella propria avanzata. Molti villaggi a sud e a est di qui sono stati rasi al suolo. Noi ci stavamo preparando alla loro venuta, ma non immaginavamo che sarebbero piombati su di noi così presto. Non è nemmeno passata una luna dal loro ultimo attacco! Sono generazioni che combattiamo contro quei maledetti… In qualche modo siamo sempre riusciti a respingerli, ma ora che ho potuto vedere con quale determinazione sono disposti a continuare a distruggerci, dubito molto che anche la miglior difesa avrebbe potuto contenere la loro furia.

    Da dove provenite esattamente? intervenne Belthasar.

    Muninheim, è una città piuttosto importante vicino alla Capitale rispose Althayr.

    Muninheim… Conosco bene quella città disse Belthasar sommessamente, quasi parlasse tra sé e sé.

    La conosco anche io… me la descrisse molto tempo fa mia madre… Come la più grande città del regno di Midgard dopo Njordhaime, la Capitale, interloquì Althaea. spettavamo. mati. Non ce l'fisso nel vuoto.a, non presentava altri segni della battaglia degni di evidenza. una casacca dMu

    Esatto, vostra madre vi ha detto bene, mia signora… confermò Althayr.

    Perdonateci, Althayr… Eravamo così intenti nel voler sapere la vostra storia che non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Althaea, e lui è Belthasar, il mio maestro disse Althaea imbarazzata.

    Il guerriero sorrise. "Siete un’Elfa dei Ghiacci...una Xardhar, vero?" chiese educatamente.

    Althaea d’istinto volse lo sguardo verso Belthasar. Nei suoi occhi vi era un evidente sconcerto. Belthasar le rispose con un sorriso colmo di conforto.

    Chiedo perdono intervenne Althayr a spezzare l’imbarazzante gioco di sguardi tra i suoi due soccorritori. Non intendevo essere invadente.

    Althaea sorrise. No, mio signore. Sono io a dovermi scusare. Da tempo immemorabile non sentivo nominare il mio Popolo, gli Xardhar. E con questo, credo di aver risposto alla vostra domanda. Ditemi, cosa sapete di loro?

    Tutti i popoli del Nord conoscono molto bene gli Xardhar. I nostri Avi hanno combattuto molte guerre insieme, per molte generazioni. Loro hanno insegnato ai Popoli del Nord la magia, e le arti di cura. Erano i migliori alleati delle genti di Midgard. Ma ora, in questi tempi così bui e nefasti, non si vedono più… Si dice che la loro città sia stata individuata dalle orde abissali e distrutta, e che la loro razza sia sull’orlo dell’estinzione. Disse tristemente Althayr. Voi continuò siete la prima Elfa dei Ghiacci che vedo in vita mia… vi ho riconosciuta solo dalle storie che i nostri avi ci hanno tramandato… è da quasi trecento inverni che il vostro popolo non si mostra a noi… e così dicendo il suo sguardo divenne quasi interrogativo, come se innumerevoli domande avessero iniziato ad affollargli la mente.

    Althaea non riuscì a nascondere lo sbigottimento che quelle parole le avevano provocato. Sentire che il suo popolo stava svanendo le inflisse un duro colpo.

    Belthasar intuì, e intervenne: Il fatto che non ci siano in giro eserciti di Xardhar non significa che essi siano scomparsi. Forse hanno solo paura, forse sono stati decimati, oppure, e questo è ciò di cui io sono convinto, non hanno una guida capace di riportarli alla vittoria. Ma tutto cambia, come le maree e il vento. Presto gireranno a nostro favore, e questa terra conoscerà di nuovo l’unione di tutti i popoli contro il Male disse solennemente.

    Althayr rivolse il suo sguardo su Belthasar, ma l’espressione di disperazione non svanì dai suoi occhi. Voi siete uno stregone, e immagino di immensa potenza. Ma come pensate di riuscire a sconfiggere intere legioni di Mostri Abissali? Alcuni non possono essere uccisi, altri hanno una resistenza assolutamente innaturale. Sono invincibili! si infervorò.

    Non c’è nulla e nessuno di invincibile, mio prode guerriero! Nemmeno io, rispose, sorridendo, Belthasar. I non-morti sono pericolosi, ma un modo per ucciderli c’è, eccome. Anche i Mostri Abissali, pur essendo estremamente forti, non possono resistere agli incantesimi dell’Antica Scuola. Sarà molto pericoloso e difficile cacciarli da queste terre, ma non impossibile.

    Mio signore, perdonate la mia insolenza... Ma voi siete soltanto in due. E anche possedendo tutta la potenza del mondo, sarebbe un suicidio muovere guerra a quei mostri! esclamò Althayr sempre più stupefatto dall’estrema sicurezza mostrata da Belthasar.

    Anche Althaea è molto potente. È una Discepola della magia delle Rune rispose lo stregone.

    Una Discepola Runica? disse Althayr pieno di meraviglia. Ho sentito parlare delle gesta e delle doti di questi maghi, si dice che siano i più potenti maestri di magia mai esistiti.

    "Non so se questo risponda a verità, Althayr. Ma vi giuro che quei mostri pagheranno per il Male che hanno diffuso qui. Ho un piccolo conto in sospeso con loro. E vi giuro che pagheranno disse risoluta Althaea. Inoltre, non siamo soltanto in due..." concluse ammiccando.

    Althayr fece per chiedere chiarimenti, ma venne interrotto prima di poter aprir bocca.

    Mio giovane guerriero, interloquì Belthasar, esistono Forze in queste terre che pochi conoscono. Alcune di esse sono già al nostro fianco, e combatteranno con noi fino alla morte. Altre dormono da troppo tempo. Ma presto si risveglieranno, e scopriranno di essere potenti. Non crucciarti! Ora riposa, domattina ci aspetta il viaggio verso la tua città.

    Come se Belthasar gli avesse recitato un incantesimo, Althayr si coricò e cadde subito in un sonno agitato.

    Lo stregone sapeva che da quell’incontro apparentemente fortuito iniziava il vero cammino verso ciò che il destino riservava loro. Guardò le stelle nel limpido cielo notturno: sembrava quasi che esse stessero vegliando silenziosamente su di loro, mostrando la strada giusta da prendere. E chissà, forse era proprio così.

    Althaea era molto nervosa. Non provò nemmeno a prendere sonno: i cattivi pensieri non la lasciavano in pace nemmeno un secondo; la sua mente era pervasa dalle parole di Althayr e non riusciva a eliminarle. Non posso pensare che il mio popolo non esista più… Non posso, pensò, ho giurato a mia madre che l’avrei protetto e salvato dal Male… Cosa ne sarà di me se non riuscirò a tener fede a questo giuramento? Se fosse troppo tardi?

    Avvertì il suo cuore attanagliato dal dolore e dall’angoscia. Si chiese come poter sminuire le parole di un valoroso guerriero nordico, che sicuramente doveva avere notizie più attendibili di ciò che avevano scrutato lei e Belthasar dalla Torre. Alzò lo sguardo al cielo e si rivolse ad Enki, chiedendogli di illuminare il suo cammino e liberarle la mente.

    Riposa, Althaea. Rimanere svegli a immaginare ciò che potrebbe o non potrebbe essere accaduto non serve a nessuno. La voce di Belthasar, che silenziosamente si era seduto a fianco a lei, era limpida e calma, anche se bassa.

    Belth… Althayr è un uomo che ha vissuto in mezzo alla gente… se ha detto certe cose vuol dire che...

    Vuol dire la interruppe Belthasar, che le ha sentite, ma di certo non le ha potute provare. Scoprirai presto, mia cara ragazza, che molte delle cose che sentiamo o affermiamo dipendono spesso dal punto di vista di chi le racconta, e dalla sua interpretazione. Troppo spesso si tende a non essere obbiettivi e a riportare quanto ci viene narrato enfatizzando le parti che più ci hanno impressionato. E in trecento inverni, ovvero per quattro generazioni di Uomini, pensa a quante possono essercene state, di modifiche, alla storia originale. Non sappiamo nulla di sicuro. Ma il tuo popolo vive. Io lo sento. E se cerchi in fondo al tuo cuore, sforzandoti di non farti influenzare da elementi esterni, sono sicuro che lo senti anche tu.

    Althaea ascoltò con ammirazione le parole di Belthasar. Erano passati oltre quattrocentocinquanta inverni dal loro primo incontro, e nel corso di tutto quel tempo avevano sempre vissuto assieme, giorno dopo giorno. Eppure, ancora adesso riusciva a stupirla, a dirle qualcosa a cui non aveva ancora pensato, a insegnarle lezioni sempre utili, forse indispensabili, al suo difficile cammino.

    Non so come fai gli disse infine sorridendo, ma tu, amico mio, mio Maestro, riesci sempre a dirmi la cosa giusta al momento giusto. Ora cerco di riposare un po’. E così dicendo si coricò, molto più serena, e prese sonno quasi subito.

    Belth… Belth svegliati!

    La voce di Althaea donò a Belthasar un brusco risveglio. Non era ancora l’alba, ma nel chiarore del cielo che precede la levata del sole si stagliava una densa, alta e nera colonna di fumo. La giovane indicò allo stregone l’insolito fenomeno, alla cui vista egli balzò in piedi fulmineo. Njordhaime! esclamò. Presto! Dobbiamo andare!

    Althayr si destò di soprassalto. Che succede? chiese ancora stordito.

    Althayr, guardate disse Althaea.

    Oh no… no…

    Non perdiamoci d’animo. È giunto il momento di correre in aiuto ai popoli del Nord disse Belthasar.

    No… Njordhaime è in rovina da tempo mio Signore, la sua grandezza risplende solo nei racconti dei nostri Antenati… non voglio tornare in quell’incubo per difendere una città già distrutta da secoli, vi prego! implorò Althayr.

    Non temete. Questa volta quelle creature avranno una brutta sorpresa rispose lo stregone.

    Althaea sentì una scossa attraversarla da capo a piedi, e solo in quel momento si rese conto pienamente di quanto la sua vita fosse cambiata in modo definitivo e irreversibile. In troppo poco tempo era passata dalla relativa quiete della dimora di Belthasar a un ambiente ostile e corrotto dal Male. Sino ad allora aveva vissuto protetta in un mondo astratto e isolato, ma ora era stata catapultata in una realtà ben diversa. Quello era il mondo reale. Ciò che era diventato in quasi cinquecento inverni di dominio del Nemico.

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