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La maledizione dei Divieto Infranto
La maledizione dei Divieto Infranto
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E-book447 pagine7 ore

La maledizione dei Divieto Infranto

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Info su questo ebook

Molti anni sono trascorsi da quando il valoroso Re Manno sconfisse il Nemico relegandolo dall’Altra Parte, oltre il fiume Silenel a cui è fatto divieto a ognuno delle Genti di oltrepassare pena il risveglio del Male.
Il principe Torwe, primogenito dell’anziano Re Balin, si prepara a prendere il comando della Marca di Confine. Insieme al fratello Norwe si concede nell’attesa un’ultima caccia, durante la quale purtroppo infrangono il divieto. La loro trasgressione permette al Nemico di risvegliarsi e riorganizzarsi: nulla sembra più in grado di fermare l’Ombra di Mal’Harran e delle orride creature generate dalla sua voce e dal suono dell’arpa elfica; l’Ombra è pronta a invadere le terre di Confine delle Genti. Presto tutto ciò che striscia, nuota o cammina, tutto ciò che muove le ali nella terra di Confine ritornerà a essere suo.
Sarà Norwe a dover contrastare l’avanzata devastante del Nemico, lui causa del risveglio del Nemico, costretto a lasciare per punizione la sua casa e a diventare errante. Al contrario di suo fratello Torwe, che cerca di scrollarsi di dosso il peso della trasgressione in battaglia, Norwe è ingenuo, gentile, sognatore, dubita di essere lui quello di cui parlano gli Antichi Libri, colui cioè che ingannerà il Nemico e lo sconfiggerà. Con l’aiuto di uno shamano, di una bella e intrepida principessa e del valoroso Selfaad, egli attraverserà le terre delle Genti alla ricerca del Molto Antico, il libro che contiene il segreto che permetterà di vincere la magia del Nemico. Fino al colpo di scena finale. Come sempre il Bene e il Male si fronteggiano, ma non è detto che sia necessario il coraggio per vincere.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2019
ISBN9788832925715
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    Anteprima del libro

    La maledizione dei Divieto Infranto - Tiziano Viganò

    p

    Lai di Iaan Durin della Marca di Confine

    (918? - 967)

    Antefatto. L’arpa dei Quendi

    Questo è il racconto di quando tutte le cose ebbero un inizio, prima che uno solo delle Genti apparisse sulla faccia del Mondo, secondo quanto dicono e credono le Due Nazioni delle Genti. E questo racconto spiega molte cose di quello che è accaduto ai tempi del Sin Ta Urill e perché le Genti hanno come più grande desiderio quello di parlare con gli Elfi. Essi infatti vennero prima di loro e si fermarono sulle rupi scoscese con nulla davanti se non le acque dell’Oceano. Una parete d’aria ci divide, ma le Genti sanno che presto o tardi svanirà e ciascuno li vedrà come essi sono.

    All’inizio, quando Tutto non esisteva ancora, Elanduinn era Solo ed era Dappertutto. Egli non poteva guardare perché non sapeva Cosa guardare né Dove guardare, perché non c’era Nessuna Cosa diversa da Elanduinn e Nessuno che non fosse Elanduinn.

    Allora Elanduinn si strinse un po’ e prese Dimora in Alto e disse: Voglio guardare!

    E ciò che vide fu. Ed ecco, egli vide Mordreet che stava accovacciata in un angolo del Mondo sotto di sé. Allora prese a guardarla e la mise sotto la sua protezione.

    Ma Mordreet presto si stancò di stare in quella posizione e disse a Elanduinn: Su! Dammi qualcosa da fare!

    Allora Elanduinn le diede la possibilità di guardare qualcosa che non fosse Lui e dalla mente di Mordreet uscì Quino.

    Quino era bello e Mordreet non aveva occhi che per Lui, tanto che Elanduinn ne fu geloso e pensava Cosa posso fare perché Mordreet distolga il suo sguardo? Ecco, costruirò un’arpa e ne pizzicherò le corde e il loro suono riempirà il Mondo e scuoterà nelle orecchie Mordreet, fino al suo cuore voglio arrivare.

    E così fece. Ed ecco, ogni suono prendeva forma e vita e dall’arpa uscì il reame delle stelle e i monti dalle cime aguzze che squarciano il Cielo e si stendono sulle nude piane e sulle vaste contrade; dal suono dell’arpa che Elanduinn pizzicava presero a crescere le creature che respirano, tutto ciò che ha radici e ali, tutto ciò che cammina sulla terra e nuota nell’acqua. E quegli esseri erano puri e splendenti e non davano ombra alcuna, perché uscivano dalla bocca e dal cuore di Elanduinn. E dappertutto era colore e fulgida luminosità e il Giorno e la Notte si confondevano.

    Ma quando Mordreet udì quel suono salì in Alto e strappò di mano l’arpa a Elanduinn.

    Dammela! disse. Ne voglio fare un regalo a Quino.

    E Elanduinn si lasciò derubare perché voleva bene a Mordreet e non voleva contrariarla.

    Ma Quino era stonato e non sapeva suonare e dall’arpa uscirono solo brutte copie degli esseri che già popolavano la terra e il mare, esse non avevano colore né una forma precisa, si vergognavano di camminare in mezzo alle bestie dei boschi e di guizzare coi pesci nei torrenti. Così impararono a nascondersi dietro di loro, assumendo le loro forme: quando gli esseri viventi avanzavano, anch’esse avanzavano; quando si fermavano anche loro si fermavano; se si sedevano, anche loro si sedevano.

    E quando le creature videro che le Ombre si attaccavano a ogni essere vivente, ne ebbero paura.

    Allora Mordreet si arrabbiò con Quino e presa l’arpa la scagliò sopra la terra, perché non voleva più sentirne il suono.

    Dhoriel, della stirpe degli Elfi o Quendi come loro si fanno chiamare, la trovò e la prese. Egli imparò a suonarla e divenne il primo cantore elfo dell’arpa.

    La sua voce aveva la forma dello sfavillio del cristallo, le sue dita fuggivano leggere sopra le corde dell’arpa come l’acqua del torrente. In Alto Elanduinn lo udì e si affacciò dalla finestra del Cielo e lo seguì, mentre Dhoriel, cantando e suonando, percorreva boschi e vallate, saliva pendii e guadava fiumi, finché arrivò dall’altra parte della Terra, dov’era buio, perché lì Elanduinn non era ancora giunto.

    Allora Elanduinn, a dispetto di Mordreet, attribuì a Dhoriel il potere di dare vita ai suoni della sua voce e alle melodie dell’arpa. E Dhoriel prese a cantare e a suonare nel Buio, e la sua voce era fatta di suoni brevi e squillanti, limpida come aghi di ghiaccio era la sua voce e tutto ciò che prendeva vita aveva la trasparenza di quel ghiaccio, era luminoso e sottile e camminava triste sulla superficie perché tristi erano le melodie di Dhoriel. Allora egli volle gridare più forte, perché la sua voce generasse esseri più concreti, ma le sue creature nascevano sempre più lontano, dove arrivava il suono. Fu così che dalla voce di Dhoriel presero vita le creature evanescenti protettrici dei boschi e dei fiumi, le Anthunii, delle quali però molte si dispersero.

    Anche Mordreet lo udì e ne ebbe invidia. Allora lasciò che il sonno si prendesse Dhoriel, con un tranello gli sottrasse l’arpa, poi scese nelle caverne della terra dov’era Mal’Harran perché gettasse l’arpa nella Fornace, non osando distruggerla da se stesso. Ma Mal’Harran volle arrogare per sé il Potere dell’arpa, e dalle viscere della terra, dentro i fuochi di lava, fece udire la sua voce. Ed ecco, le caverne e i burroni e gli antri immensi sotto la superficie della terra e del mare ne amplificarono il suono e ciò che fu udito era come il rombo del tuono e lo spaccarsi delle forre, simile all’ululato del vento divenne quella voce e da essa presero forma i mannari, gli orchi e ogni stirpe di drago, le bestie che strisciano e lasciano indietro la bava e tutto ciò che è orrido. E tutti questi esseri sono ancora in suo potere.

    1

    In due abbiamo infranto il Divieto

    Tutto era calmo e viveva a Malhinor, sulla terra di Confine delle Genti. A Oriente, di qua dei Monti della Luna, fonti d’acqua scaturivano in mezzo alle colline e i ruscelli scorrevano verso le valli. A Sud, di fronte al Mare, tra le anse di Acquetranquille, galleggiavano le viole d’acqua e le ninfee e nel folto del canneto si sdraiavano gli animali degli stagni; sulle rive si assiepavano le lunghe file degli Ec; al buio delle loro radici contorte scavavano le tane i cuccioli di koarsaq. All’ombra degli alberi della foresta a Settentrione facevano i nidi gli uccelli dell’aria e al riparo dei Pavantir si curvavano le cerve; là mettevano fine alle loro doglie, i loro figli nascevano forti e robusti, partivano e non tornavano più.

    Molti anni erano passati da quando Manno aveva costituito la Marca di Confine, dopo che il Nemico venne sconfitto la prima volta. [1] Da tempo Mal’Harran, o il Nemico come lo chiamavano le Genti, taceva e si teneva nascosto dall’Altra Parte, ché non aveva speranze di passare di qua per via del Divieto, che gli aveva imposto Manno il Senzamorte. E questo fino a che venne il tempo di Balin, figlio di Lor, Re della Marca di Malhinor, e di suo figlio Torwe, fratello di Norwe. E ciò fu causa di molte e incredibili sventure e glorie per le Genti, come si vedrà.

    Balin di Lor ebbe una discendenza piuttosto numerosa, se si considera che il suo primogenito, Torwe, gli nacque quando era già molto avanti negli anni. Era il trecentoventunesimo anno dopo la fine della Prima Età e Balin viveva il novantasettesimo anno.

    A lungo il Re aveva atteso la grazia di una discendenza e quando la ottenne era già vecchio; ed ecco, allora il suo volto si illuminò, la sua fronte prese a risplendere e alzando la voce dinanzi alle Genti gridò: Oh! Siederò finalmente, riposerò dunque e avrò pace nel petto, perché mi è nato un figlio come ai miei fratelli, anch’io avrò una progenie come i miei parenti.

    Torwe nacque forte e fu allevato a fuggire le paure, perché era l’erede al trono e reggitore del Bastone di ferro.

    Dopo di lui nacquero due figlie, Eisengrine e Willgrine: belle entrambe, dagli occhi e dalla carnagione scuri, erano il vanto di Balin e l’orgoglio delle Genti. Molti a Malhinor si dispiacquero quando, venuto il Loro Tempo, esse andarono spose ai Principi delle Isole Perdute.

    Infine venne Norwe, l’Errante o il Sin Ta U’rill, come viene ricordato, che nella lingua delle Genti del Nun significa Colui Che Ha Sette Nomi.

    Norwe era il prediletto del padre, perché era il più piccolo e perché era di modi gentili. Amava teneramente la sua terra, ma non se ne curava troppo, come pure del Mare che sta di fronte a Melhinar, perché suo cruccio erano i Cieli e le Stelle e suo desiderio costruire una torre sulle Montagne della Luna, dove l’aria è pungente e le rocce son come vetro. Ma non era questo il destino che gli era stato preparato.

    A Melhinar, la capitale, molti lo ammiravano, perché era generoso e non sopportava l’ingiustizia.

    È forse una stella più gelosa dell’altra, perché splende di meno? diceva. O lo è la Luna del Sole, tanto da rifiutarsi di rischiarare la Notte?

    Ora avvenne che il Re Balin si sentì prossimo a morire e fissò il giorno in cui Torwe sarebbe divenuto Re al suo posto.

    Quando venne il Tempo, Torwe disse a suo fratello: Domani sarò Re e io e il mio fratellino non andremo più assieme tra le foreste e le acque dei ruscelli a cacciare la selvaggina. Vieni, saliamo un’ultima volta le colline, cacceremo il cervo per la mensa degli invitati.

    Come piace al mio fratello e Signore, gli rispose Norwe.

    Torwe e suo fratello Norwe si levarono dunque di buon mattino e presero la strada delle colline. Si recarono dove erano soliti andare e presero a battere la zona e ad appostarsi, ma il sole giunse alto sopra le loro teste e neppure un alito di vento passò tra le foglie. Allora si sedettero per riposare e abbeverarsi sulla sponda di un ruscello.

    Ed ecco, poco lontano, sull’altra riva, una cerva si staccò dagli alberi e venne verso l’acqua perché aveva sete.

    Norwe la vide, chiamò suo fratello e gli disse: Guarda là. Ecco la preda. Io e mio fratello chiuderemo presto la caccia perché il braccio di mio fratello è forte e la sua mira sicura.

    Così Torwe appoggiò il ginocchio a terra, incoccò la freccia e tese l’arco, ma la cerva che si stava dissetando levò le corna, come avvertita, e la freccia diretta al cuore le trapassò appena la pelle della spalla e si perse tra gli alberi.

    Se non l’avessi visto con i miei occhi, disse Torwe, giurerei che qualcuno ha sussurrato parole di pericolo alle orecchie della cerva, proprio quando l’arco era tirato e la freccia pronta a colpire. Ma l’animale di certo è ferito, ha raggiunto l’oscurità della foresta zoppicando. Lo inseguiremo e lo prenderemo di nuovo, vero fratellino?

    E dette queste parole fece per attraversare a guado le acque del ruscello quando Norwe lo afferrò per un lembo del mantello e ammonendolo gli disse: Mio fratello non può correre dietro alla cerva, quando è fuggita ha preso la direzione delle Montagne della Luna e attraverserà il Fiume Proibito per raggiungerle.

    Gli rispose Torwe: Mio fratello non deve temere, la freccia scagliata dal mio l’arco deve aver reciso i vasi della spalla; prima ancora che arrivi al Fiume del Divieto, la cerva avrà perso molto sangue e il muscolo del suo cuore pomperà a vuoto.

    Così Norwe si lasciò convincere da suo fratello e attraversò a guado dietro di lui, poi insieme si inoltrarono nella foresta seguendo le tracce di sangue.

    Al loro passaggio gli animali della foresta tacevano e si acquattavano perché temevano il loro passo veloce, poi all’improvviso l’ombra degli alberi si aprì e apparvero poco lontano le acque del Fiume brillare per la polvere lucente di Cyrill. Ancora una volta Norwe rivolse la parola a Torwe dicendogli: Questo è il Fiume del Divieto, io non lo oltrepasserò con mio fratello, poiché ci è stato proibito.

    Ma Torwe lo tranquillizzò dicendogli: Non deve temere proprio nulla il mio fratellino. Guarda! Non vedi la cerva ferita che zoppica sull’altra riva? Userò una sola freccia, se non la colpirò non la inseguiremo oltre, ma se essa le oltrepasserà il cuore e la farà cadere a terra passeremo non visti e in fretta la caricheremo sulle spalle per riportarla di qua.

    E così dicendo incoccò la nuova freccia e mirò; essa volò sopra le acque del Fiume e Torwe e Norwe videro la cerva piegarsi e poi cadere. Col volto raggiante Torwe si buttò tra le acque, vi si immerse solo fino alla cintola perché in quel periodo il fiume non era profondo e senza voltarsi si portò dall’altra parte.

    Da questa parte del Fiume Norwe vide il fratello chinarsi a terra nel luogo dove era caduta la cerva, quindi sentì che lo chiamava. Con timore anch’egli allora attraversò il Fiume del Divieto e giunse all’altra riva dov’era asciutto, ma non salì la sponda. Ed ecco, la cerva che avevano visto cadere in quel luogo non c’era più.

    Norwe allora prese a dispiacersi e a lamentarsi con il fratello dicendo: La nostra vista ci ha ingannati, la freccia di mio fratello non ha trafitto la cerva e ora abbiamo disobbedito alla Legge. Non abbiamo dato retta alle proibizioni di cui parla II Molto Antico, abbiamo oltrepassato le acque del Fiume del Divieto, attirando così la Sventura sulle nostre teste e sulla casa di nostro padre.

    Ma Torwe lo rincalzò subito. Taci! gli disse. La freccia ha colpito dove doveva colpire. Vedi là infatti le tracce di sangue sul terreno, tutto ne è intriso e anche il manto d’erba è schiacciato perché qui la cerva è caduta morente. E poi, aggiunse, che sono questi misteri? Non sono forse gli alberi di qua del Fiume simili in tutto a quelli dell’altra parte? E il Cielo, sopra le nostre teste, non è forse chiaro e trasparente come quello che lasciammo questa mattina uscendo dalle nostre stanze? È forse l’aria di qui più fresca o più calda?

    Quindi si levò in tutta la sua statura, si pose di fronte a Norwe che lo guardava con timore, e a gran voce disse: Ciò che i Re hanno stabilito, i Re possono sciogliere; ciò che i Re hanno fissato, i Re possono smuovere. Domani, io, Torwe, figlio di Balin di Lor, sarò Re nella Marca di Malhinor e farò cadere il Divieto. Ho detto!

    E infatti non disse più nulla, estrasse la corta spada dalla cintura e si inoltrò nella foresta.

    Norwe attese il ritorno del fratello là dove si era fermato, fino a quando il Silenel perse il suo colore argenteo perché il Sole stava concludendo il suo giro. Già Ianin, l’Annunciatrice o la Carina, come la chiamavano con diversi nomi le Genti, aveva preso a brillare nel Cielo, perché era la prima a comparire la Sera aprendo le porte al carro della Luna, e anche l’ultima a spegnersi all’arrivo del Sole, quando Torwe fece ritorno. Ed ecco, egli era solo, senza null’altro in mano che la sua spada e il suo arco.

    Norwe si alzò per andargli incontro e interrogarlo, ma questi gli fece cenno di tacere, quindi ordinò che entrambi ritornassero al di là del Fiume. Sull’altra riva Torwe si abbandonò stanco a terra, era pallido in volto e i suoi occhi erano gonfi come quelli di chi ha pianto molto. Infine parlò e il tono della sua voce era triste.

    "Ora so che il mio fratellino aveva ragione. Non dovevamo oltrepassare le acque del Fiume. Quando mi inoltrai nella foresta il furore per la caccia sfortunata mi impedì di sentire la strana inquietudine che mi aveva preso il cuore; le ombre e i silenzi della foresta me la rivelarono, perciò procedetti più guardingo, con passo leggero. Le tracce di sangue erano sempre avanti a me ed era facile seguirle. Ma più entravo dentro la Terra Oltre il Fiume, più forte dentro di me si alzava la voce che diceva Figlio di Balin, non camminare nella Terra che ti è stata proibita, volgiti indietro. Il Molto Antico ha stabilito i confini delle Genti, ma tu prendi un altro consiglio? Tieni un ferro tagliente tra le mani, pure tremi ad ogni tremare di foglia. Le tue frecce sono appuntite, ma il tuo braccio non sa uccidere. Che diranno le Genti di te? Ecco, il nostro Re ha disobbedito, che ci importa delle Leggi e dei Divieti? Viviamo come se ognuno fosse Re a casa sua! Più di una volta fui sul punto di rinunciare e di tornarmene indietro da dove ero venuto, ma le tracce di sangue lasciate dalla cerva ferita erano sempre più chiare, le calpestavo sul terreno e le sfioravo col braccio sui rami più bassi degli Ec, la preda era vicina, perché rinunciare? Finché all’improvviso udii il suo respiro oltre il mio. Mi arrestai di colpo e fui preso per tutto il corpo come da un brivido, che però passò subito, ma si fermò in una palpebra dell’occhio che prese a tremare e anche se la stropicciavo non cessava di vibrare. Che è mai questo leggero accapponar della pelle? mi domandai. E questo lieve tremar di membra? Neppure se mi trovassi davanti alla più orribile e minacciosa creatura proverei l’eguale! Il sussurro di quel respiro cessò, e io mi mossi nella sua direzione. Le foglie e gli arbusti mi chiudevano la vista, allora piano li scostai con la lama ed ecco, proprio davanti a me, immobile e buia, stava L’Ombra Staccata dal Corpo del Nemico. Perché quella doveva essere, altrimenti ora sarei morto. Il mio corpo si irrigidì. L’Ombra di Mal’Harran non aveva volto, per questo di certo fui risparmiato, eppure udii la sua voce che mi parlava, e ancora ne inorridisco perché ancora la odono le mie orecchie. E dal buio uscirono queste parole Prendila, è tua, la preda che hai cacciato! E io abbassai lo sguardo e vidi ai suoi piedi la cerva, riversa sul dorso. Poi la voce disse di nuovo È stato facile condurti sin qui, figlio di Balin, così come guidare la cerva al ruscello. Io ho fatto in modo che tu la inseguissi fin oltre le acque del fiume che voi chiamate del Divieto. Ecco, ora esso è crollato, come è scritto, perché uno tra le Genti ha infranto la Legge Per Primo, ed esso non esiste più. E tu ora mi appartieni, e tutto ciò che striscia, nuota o cammina, tutto ciò che muove le ali da qui a Occidente ritornerà a essere mio, perché è giunto il Tempo dopo il Letargo che l’Ombra di Mal’Harran si posi su tutto ciò che cresce e fa figli oltre i Monti della Luna, oltre il Silenel. E lo devo a te, Torwe, figlio di Balin, che presto sarai Re, Re-Sulla-Polvere. E l’Ombra scoppiò in una risata, sciocca e spaventosa, quindi si dissolse, lasciando l’erba su cui si era posata come cenere. Io non potei andarmene subito da quel luogo, perché le mie gambe non mi ubbidivano ancora, solo dopo molto tempo mi sentii vivo e voltate le spalle andai incontro al Fiume."

    Questo è dunque il racconto di Torwe, figlio di Balin, della Marca di Malhinor, che vide l’Ombra di Mal’Harran e non morì, così come è stato tramandato, perché nessuno mai, prima e dopo di lui, vide o udì parlare l’Ombra del Nemico. Neppure Dhurane, della bella Nazione dei Quendi, perché quando vinse il Nemico ai tempi di Manno era cieco e sordo. Perciò nessuno sa come essa sia.

    E dopo che Torwe ebbe terminato il suo racconto Norwe gli si avvicinò e ponendogli una mano sopra la spalla disse: E ora cosa accadrà? Ma vedendo che suo fratello taceva continuò: Non sentirti l’unico responsabile di quanto è accaduto. In due abbiamo infranto il Divieto, anch’io sono entrato nella Terra del Nemico. E sia. Perciò ecco: tutto ciò che dirai, io lo sottoscriverò, e tutto ciò che farai, io ugualmente lo farò.

    Dopo di che si levarono e tristi tornarono a Melhinar.

    [1] Per il computo degli anni le Genti fanno incominciare l’Età di Mezzo dal giorno in cui il Nemico venne sconfitto la Prima Volta. Prima di allora non esistevano calendari e il computo degli anni è alquanto impreciso. Quando si riferiscono ad avvenimenti accaduti prima di quella data le Genti parlano di una Prima Età o Età Antica.

    2

    A un Altro toccava il Bastone

    Il Sole spinse via facilmente la Notte e illuminò il Giorno per il quale Torwe figlio di Balin era stato preparato, e tutta la gioventù di Melhinar corse nelle strade e si assiepò per assistere allo spettacolo di coloro che sarebbero giunti a omaggiare il nuovo Re.

    Per primo giunse alla Porta Roar, signore di Sealmur, fratello di Balin; egli conduceva un corteo su un rosso cavallo di Ghekkan, dietro di lui dieci giovani conducevano dieci bestie da soma, ciascuna delle quali trasportava un carico: qua un leggero padiglione da campo, il più ricco che mai fosse stato fatto, là un cofano traboccante di vesti e abiti da cavaliere, in seconda e terza fila botti di legno d’Ec, recipienti per il rosso vino delle colline di Sealmur, e poi un nugolo di Uccelli del Lago dalle piume d’ogni colore, legati assieme per le zampe, che gridavano e starnazzavano; dietro i somieri quattro cavalieri tenevano chi uno scudo a borchie d’argento di Cyrill, chi una lancia, chi una grande spada lucida, tagliente e leggera a meraviglia, e dopo di loro altri scudieri e sergenti.

    Da Occidente, dai mari d’erba delle Terre di Storm giunse la carovana dei figli di Duree, l’antico alleato di Balin: sulle loro lance e sopra gli scudi portavano le azzurre insegne di Sawrion.

    Giunse anche l’altro fratello di Balin, Tamroon, con il suo seguito di tagliaboschi; a lui, si sa, era toccata la Custodia di quella regione tutta forre e dirupi che si estende oltre la Foresta dei Pavantir, e perciò per lui si creò il titolo di Custode di Terrascoscesa.

    Mancavano ancora all’appello tra i fratelli di Balin Handoor e Dumuzi, ma Handoor non venne invitato perché era un Errante e non si sapeva dove cercarlo; quanto a Dumuzi, il più piccolo tra i figli di Lor, questi non venne mai, perché così era scritto sulla Ruota del Nascosto, infatti egli perì presto, quando ancora non aveva superato la Prova, perciò di lui nulla si dice.

    Quel giorno passarono oltre la Porta anche i Re Vinti: giunsero dalle regioni a sud di Thurin e da Acquemorte, cavalcavano fieri e alteri davanti al loro seguito, ma non portavano corona sul capo né altro diadema, perché così ai vinti si conveniva; essi vennero perché toccava loro rinnovare l’atto di obbedienza al nuovo Re e per allacciargli il mantello.

    Solo sul Mezzogiorno arrivarono dal Mare i Principi delle Isole Perdute conducendo con sé Eisengrine e Willgrine; in quell’ora il Mare davanti alla Baia divenne subito un brulichio di tele bianche, di forma e dimensioni diverse, che sfavillavano al Sole; tanto erano numerose le vele sulla superficie che il mare sembrava trapunto da infinite perle bianche e lucenti. Le due figlie di Balin salirono dagli scogli e passarono tra la folla oltre la Porta a Sud ed ecco, gli sguardi di tutti erano per loro, cadevano sui loro occhi e si soffermavano, sui lunghi capelli neri e più non si allontanavano, sulle loro bianche vesti lucenti e lì vi rimanevano.

    Quando tutti gli invitati furono passati attraverso la Porta, apparve Fangrid lo Shamano sui primi gradini su cui era appoggiato lo Scranno del Re, ma pochi lo riconobbero perché il mantello copriva le sue sembianze da vecchio e il cappuccio nascondeva l’Occhio Chiuso.

    Roar lo riconobbe per primo perché lo sapeva alto di statura, più di quelli tra le Genti, allora lo salutò dicendo: Benvenuto tra noi Colui Che Interroga Le Bestie e queste gli rispondono.

    Allora tutti lo riconobbero perché si diceva che egli avesse il dono di vedere le cose che devono ancora venire attraverso i segni.

    Fangrid rispose: Meglio sarebbe per me entrare in questa casa se essa fosse nel pianto, perché il pianto si tramuta in riso; ma il riso, presto o tardi, in pianto. Tale è il Destino delle Genti.

    Allora il cuore di coloro che udirono fece un sobbalzo perché quelle parole suonarono come una profezia, perciò Roar gli si pose davanti per saperne di più e alzando la voce gli disse: Vieni per bere e per mangiare, vecchio, o per dirci ciò che i pesci del Mare ti hanno fatto sapere?

    Rispose Fangrid: Quello che voi sapete, anch’io lo so e nulla di ciò che oggi apparirà agli occhi di tutti risulterà oscuro.

    Gli disse ancora Roar: Rimani con noi allora, vecchio, e siedi, perché la giornata è ancora lunga. Lo scettro di Galeph passerà di mano, la Spada Lucente di Cyrill cingerà nuovi fianchi e il Mantello A Sei Licci coprirà Le Spalle delle Genti. E poi disse forte, perché tutti lo udissero: La Marca di Malhinor, la Marca di Confine oggi avrà il Nuovo Re. Sopra la sua spada faranno giuramento Principi, Signori e Custodi e se Balin mio fratello è stato giusto e magnanimo, Torwe lo sarà di certo e se Balin fu temerario, Torwe lo sarà ancora di più perché è giovane e non teme gli orrori.

    Dette queste parole, si tolse la spada dalla cintola e per primo la pose ai piedi di Torwe che lo osservava scuro in volto. Tutti gli altri principi poi lo imitarono.

    Ma ecco, non erano ancora sfilati tutti i capi della Marca che apparve nel Cielo il primo segno. Il sole infatti, che poco prima era un fuoco splendente e luminoso, di colpo si oscurò, come se un manto d’ombra l’avesse ricoperto. Allora gli occhi di tutti si volsero in alto e videro che decine di sagome di keu dalle grandi ali si stagliavano nel Cielo e formavano come una nuvola scura che si muoveva rapida da Oriente a Occidente.

    Giungono dai Monti della Luna, voleranno finché non si stancheranno! disse uno.

    Fuggono via dalla Sorgente sull’Agar, ma non vanno verso il Mare: tristi eventi si stanno preparando, disse un altro.

    Allora Roar cercò con lo sguardo tra i presenti dov’era Fangrid e trovatolo gli disse: Che significa ciò che abbiamo visto?

    Perché mi interroghi, non senti ciò che dicono?

    E poi accadde il secondo segno e un altro ancora. Secondo il rito, Re Balin venne condotto davanti a Torwe, egli era sorretto sotto le ascelle dal suo scudiero perché era molto vecchio e il cancro gli aveva preso le ossa. Un servo gli mise in mano il Bastone di Ferro perché lo consegnasse a Torwe, ma ecco, questo gli sfuggì di mano e rotolò giù per i gradini, fermandosi solo sul più basso. Il respiro di tutti si fermò e un fremito passò tra le costole di Torwe, ma egli non si mosse. Allora uno di quelli di Tamroon scese i gradini, si chinò e lo raccolse, poi fece per consegnarlo di nuovo nelle mani del Re, ma da dietro le teste di coloro che erano lì apparve un cucciolo di keu che volava a stento, questi andò verso lo scettro alzato e lo prese tra gli artigli, strappandolo di mano a chi lo teneva, quindi batté le ali e si levò al di sopra di tutti, giunto in alto abbandonò la presa e lo scettro precipitò e cadde tra la polvere della terra.

    Gli animi di tutti rimasero sospesi e nessuno ardiva muoversi. Allora Torwe stesso si mosse e andò là dove era caduto il Bastone e lo raccolse. Subito si levò un mormorio. Allora Torwe si girò verso coloro che gli erano attorno e con il braccio levato che reggeva lo Scettro parlò e disse: "C’è qualcuno qui, tra voi, che accampa Diritti più alti dei miei? Se c’è si faccia avanti, perché poi non si dica a un Altro toccava il Bastone!"

    Ma nessuno dei presenti parlò. Allora Trebe, uno dei Re Vinti, avanzò verso di lui e squadratolo disse: Io non posso vantare alcun diritto, perché sono vinto e prigioniero, e solo i liberi possono negoziare, ma i segni hanno parlato e l’hanno mostrato a tutti. Perciò ti dico: tu hai preso il Bastone di Ferro del Comando; da te stesso, con le tue stesse mani lo hai preso, e d’ora in poi sarai chiamato Usurpatore!

    Al che un nuovo mormorio passò tra la folla, ma Torwe non diceva nulla; allora Roar scese di corsa i gradini e irato disse a Trebe: Torwe è il primogenito di Balin di Lor, figlio di Galahorn di Mumm, primogenito di Galeph, fratello di Manno il Senzamorte: chiara è la sua semenza, diritta come un filo di spada o la livella del costruttore. Il diritto di primogenitura vale più di un qualsiasi segno nel Cielo o sulla Terra. Oggi, in questo stesso momento, Torwe è fatto Re della Marca di Confine e le Genti su questa terra gli devono obbedienza.

    Ma il Re vinto replicò: Io non allaccerò il Mantello a questo Re!

    Allora Roar si infuriò e rosso in volto lasciò cadere il proprio braccio sulla spalla di lui con tale forza che gli ruppe l’osso, così che quello si accasciò a terra, e l’avrebbe certamente ucciso se non avesse deposto la spada ai piedi dello Scranno, perché Roar era forte e focoso. E da quel giorno Roar divenne come un padre e uno scudiero per Torwe, mentre Trebe dovette farsi mancino, perché era la spalla destra quella che era stata spezzata.

    Dopo che Trebe venne portato via, Torwe si sedette sullo Scranno e a uno a uno sfilarono davanti a lui Signori e Custodi per riprendere la spada dalla sua mano, e poi i parenti per omaggiarlo. Ma quando venne il turno di Norwe i due evitarono di guardarsi in pieno volto.

    In quel giorno gli invitati mangiarono a sazietà, anzi ancora di più, tanto che alcuni si sentirono sfiniti per il troppo bere e il troppo mangiare, e così presto si dimenticarono di quanto era accaduto.

    I festeggiamenti non erano ancora finiti quando gli occhi di tutti videro oltre le mura alzarsi la polvere sulla via che conduceva alle colline.

    Quella polvere non viene dal vento, disse Tamroon, ma dagli zoccoli dei cavalli.

    E infatti presto si distinsero cinque o sei cavalieri che venivano verso la città con le briglie sciolte. Entrati dalla Porta che dà a Nord giunsero in poco tempo davanti al luogo dei festeggiamenti. Roar si mosse per andare loro incontro perché aveva riconosciuto i colori di Sealmur. Il primo dei cavalieri balzò a terra quando il suo cavallo era ancora in corsa e si precipitò da Roar.

    Mio Signore! lo salutò. Poi vide dietro le sue spalle Torwe con i segni del Regno e, corso fino a lui, chinò in fretta il capo e disse: Mio Re!

    Tutti vedevano che il cavaliere ansimava e si sforzava di prendere il fiato per parlare.

    Roar allora lo interrogò: Quali notizie ci porti Selfaad? Dicci prima se dobbiamo prepararci il cuore, perché la fretta che ti accompagna parla già di sventura.

    Ahimè! disse il cavaliere di nome Selfaad. Come convincervi a credere a ciò che sto per dirvi se non giurando davanti a voi che i miei stessi occhi hanno visto lo Scempio dei Mannari sugli ultimi colli di Sealmur?

    E Selfaad prese a parlare e raccontò delle stragi compiute dai Mannari e dalle orde del Nemico a Sarrah e sulle colline di Mealmoar nel Sealmur, dello strazio delle Genti uccise sulla soglia e dentro le case, delle vigne bruciate e delle radici divelte, dei fuochi che ardevano nei boschi e della puzza di morte che aveva invaso le valli davanti al Mirith, tanto che gli uccelli stanziali le fuggivano e la selvaggina usciva allo scoperto fuori dalle tane.

    E mentre il racconto di Selfaad saliva, il cuore di tutti si riempiva di sdegno e di paura, perché i Mannari sono orribili a vedersi e temibili da combattere, perché hanno sete di sangue e non conoscono ragione, né obbediscono a ordini, ma soprattutto perché il potere del Nemico li aveva scatenati, tirandoli fuori dalle Nebbie del Mal’Harran, dove Manno li aveva cacciati al Tempo dell’Unica Battaglia. E non tutto il potere del Nemico, si sa, veniva dalla Terra e dal Cielo, ma dal Fuoco e dagli incantesimi dell’arpa di Elan e nessuno tra le Genti sapeva come combatterlo.

    Selfaad raccontò tutte queste cose per filo e per segno perché i suoi occhi e le sue orecchie erano rimasti scossi e avevano lasciato un segno nel suo cuore. E quando Selfaad ebbe terminato tutti volevano parlare e dire qualcosa, ma nessuno osava farlo per primo.

    Allora tra coloro che erano in piedi si fece largo Fangrid e parlò, e per parlare usò la Voce, affinché le sue parole fossero ben comprese. Ed ecco, essa echeggiò per tutta la corte riempiendo ogni cuore di quelli che erano lì presenti, e la Voce disse: Ascoltate! Ascoltate tutti o Genti! Ecco. Il tempo di cui parla Il Molto Antico è giunto, quando il Nemico uscirà dal Letargo. Mal’Harran si è preparato per questo giorno, ha letto nei Grandi Libri e sa che i Tempi sono Maturi per lui, perché il Divieto, sì il Divieto è crollato. Uno tra le Genti lo ha infranto, quando ha superato le acque che sgorgano dalla viva roccia sull’Agar, nel punto dove la spada di Dhurane si ruppe, ed era sul Finire della Prima Età. Ecco, è scritto, la fonte si sta esaurendo, non trova sbocchi per uscire e l’Agar tiene stretta la polvere lucente di Cyrill, la tiene chiusa nelle sue vene e non tornerà più a brillare dentro la corrente del Silenel. Allora il Nemico non conoscerà più ostacoli. Quando il Fiume scorrerà asciutto, nulla lo potrà fermare e anche Mal’Harran terrà dietro alle sue orde e non ci sarà scampo per chi vive di qua dai Monti della Luna. Sciocchi siete stati, disse ancora, "a non credere a Handoor, quando venne da voi per mettervi in guardia dicendo Persino la Luna e il Sole inorridiscono quando, solcando i cieli, passano sopra le contrade di Mal’Harran. Vado notando infatti che il loro corso su quelle terre si fa, incredibile a udirsi, più veloce che di qua delle Montagne. Quali orrori stanno accadendo sulle Terre dell’Est? Che cos’ha in animo il Nemico? Ma nessuno tra voi credette alle sue parole e lo costringeste lontano dalla sua Casa, ma tale è il Destino di Coloro Che Imprecano Al Giorno. Perché la Terra è per gli sciocchi, ma il Cielo è di chi sa guardare in alto".

    E dette queste parole la Voce tacque e il Silenzio si mosse e parlò agli orecchi di coloro che erano presenti e a uno a uno uscirono dal fascino di quella voce e si guardarono l’un l’altro e ognuno avrebbe saputo ripetere ogni parola di quello che aveva udito, senza mai sbagliare.

    Ed ecco, quando anche l’Eco della voce svanì, Torwe, pallido in volto, si alzò per parlare, perché non era più tempo di mentire e nascondere la Violazione. Ma appena lo vide così sicuro e deciso, anche Norwe si alzò, perché sapeva quel che avrebbe detto suo fratello; rapido si portò al suo fianco e, alzato il braccio, parlò per primo.

    Perdonino il mio fratello e Signore e i Principi e Custodi di Malhinor se il più piccolo tra di voi vi guarda da pari e osa rivolgervi la parola, ma meglio per me sarebbe se non fossi nato, e occhio non mi avesse visto, né prima né mai su questa terra, perché… perché fu per colpa mia se l’Ombra del Nemico si è risvegliata. Sì, avete udito bene, non sono giuggiole quelle che giungono alle vostre orecchie, perché davvero io ho calpestato la terra dell’Oscuro, io ho scosso dal sonno l’Ombra della Morte.

    Subito allora presero ad agitarsi quelli che erano lì poiché nessuno voleva credere a quelle parole. Allora Norwe aggiunse: "Sì, io, carne e sangue di Balin di Lor, il fratello del Nuovo Re e Custode del Confine delle Genti, ho infranto la Legge. E che importa se non fu per disprezzo del Divieto che oltrepassai il Fiume, ma per dar la caccia a una cerva che aveva cercato rifugio alla mia freccia. Non ferisce ugualmente la freccia partita per sbaglio dall’arco di un cavaliere assorto? Non è forse causa di eguale danno che se fosse partita con intenzione? Invano mio fratello mi raccomandò di non oltrepassare le acque del Silenel, ben avrebbe fatto a ordinarmelo oppure a legarmi e portarmi via. E ora il mio delitto è già sulla bocca di tutti. Conosco la Legge. Per questo io vi dico: non mi chiamerò più Norwe, ma

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