L’unguento delle streghe
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Anteprima del libro
L’unguento delle streghe - Giuseppe Marchionna
l’autopsia».
Capitolo Primo
5
La telefonata del giovane carabiniere che solitamente gli segnalava le novità arrivò che ormai era quasi buio «Pigì, qui a Ostuni hanno trovato il cadavere di una donna straniera in un appartamento nel centro storico. Era sola e la serratura della porta non è stata forzata».
Piergiorgio Sovieri, detto Pigì, ascoltò la concitata segnalazione del suo informatore seduto alla scrivania di capo redattore del Gazzettino di Puglia, mentre il tremolio azzurrognolo del computer gli rimbalzava sulle lenti da presbite dei suoi occhiali finto-giovanili, di una vezzosa montatura color giallo ocra.
La sua era una piccola vanità, forse è meglio dire una nota di colore brillante inserita in un contesto che tendeva a farsi sempre più grigio, come i suoi capelli, come il suo colorito, come le sue rughe che raccontavano senza ritegno tutti i suoi 54 anni.
Il giornale stava per essere chiuso e Sovieri si rese conto che era necessario scrivere una ultim’ora
di poche righe sul misterioso ritrovamento del cadavere di quella donna. Ma nonostante l’urgenza, non riusciva a mettere in fila più di cinque parole che avessero un senso.
«Ma che cazzo mi succede?» si chiese spazientito ad alta voce.
Non riusciva a trovare una ragione sufficiente a giustificare il malessere continuo e strisciante che lo tormentava da tempo, lasciandogli appena lo spazio di un respiro corto, senza la possibilità di tirare una boccata d’aria a pieni polmoni.
Erano mesi che si sentiva così, condannato ad una vita vissuta al piccolo trotto, evitando accelerazioni e colpi d’ala, per paura di restare stremato ed ansimante a contemplare la sua impotenza nei confronti della propria esistenza.
Si sforzò per concentrarsi e finalmente riuscì a scrivere un brevissimo trafiletto, sufficiente per un ‘palchetto’ di richiamo in prima pagina.
"Il corpo di una donna non ancora identificata, ma con ogni probabilità straniera, è stato trovato nel tardo pomeriggio in un piccolo appartamento nel centro storico di Ostuni.
L’appartamento fa parte di un gruppo di locali che costituiscono un albergo diffuso nel centro storico della Città Bianca.
La porta di accesso all’appartamento non presentava segni evidenti di effrazione, mentre al suo interno non sono stati rinvenuti documenti in grado di indicare le generalità della vittima. Le indagini sono coordinate dal capitano dell’Arma dei Carabinieri Jacopo Bellono, sotto la direzione del pubblico ministero di turno Giorgio Andronica".
Piergiorgio Sovieri
«Uff!». Si sentì sgravato. Finalmente era riuscito a liberarsi dalla cappa incombente di quell’odioso trafiletto che non ne voleva sapere di farsi scrivere.
Non gli era mai successo prima di sentirsi tanto bloccato da non riuscire neanche a scrivere qualche semplice riga di cronaca.
«Che cazzo mi sta succedendo?» si ripeté ad alta voce con tono preoccupato.
Erano settimane che non dormiva più senza prendere tranquillanti, che non aveva appetito, che non digeriva bene, che la sua pancia era sempre più gonfia, irritata e dolente.
Erano mesi che si sentiva sempre più inutile e ridondante, come quell’affresco del primo novecento dipinto sul soffitto della sua casa, che lui aveva sempre considerato un’opera senza pretese, priva di qualunque talento, mutilata com’era dell’originaria brillantezza dei colori, lasciata lì triste e smunta, a testimoniare l’impietosità del tempo passato.
Ecco, anche lui si sentiva invecchiato e scolorito come quell’affresco.
Rivolse uno sguardo distratto verso la finestra, al porto di Brindisi, ormai illuminato dalle luci della sera che si riflettevano nello specchio di mare che la città aveva inglobato in sé, facendola sembrare una grande piazza d’acqua.
Di fronte, nel buio, si stagliava l’incerto contorno dello ‘skyline’ della zona industriale, con l’assetto notturno dei suoi impianti che facevano immaginare un gigantesco cimitero illuminato da migliaia di lampade votive accese contemporaneamente.
La redazione del Gazzettino di Puglia era al sesto piano di un palazzo costruito in prossimità dell’area portuale verso la fine degli anni sessanta.
Dalla finestra della sua postazione Pigì Sovieri poteva godere di una vista unica che riassumeva, come in un’antica cartolina, i punti cardinali del porto di Brindisi: la stazione marittima sempre pullulante di gente; il monumento al Marinaio d’Italia, una sorta di timone inerpicato per oltre cinquanta metri nel cielo di Brindisi; le decine di barche a vela ormeggiate nella darsena del porticciolo incuneato sotto l’antico parco boschivo di quello che un tempo era stata l’Accademia Navale della Gioventù Italiana del Littorio.
La placida quiete di quel panorama notturno gli trasmise un senso di infinita malinconia, come se quell’angosciante silenzio di fine giornata gli riportasse alla mente il fragore delle attività giornaliere e con esso tutte le opportunità che il giorno appena concluso gli aveva offerto e che lui, ancora una volta, non aveva colto.
Spense il computer e andò via.
Arrivato in strada, il richiamo del porto si fece sentire più forte ed intenso. Il profumo del mare veniva verso terra, cullato dalla leggera brezza di tramontana.
Decise di fare una passeggiata sul lungomare fumando una sigaretta, finalmente libero di immergersi interamente in quella che ormai lui definiva, quasi con affetto, la sua bolla di disperazione esistenziale.
Un cane, un bastardo di pastore tedesco vecchio e spelacchiato, stava accucciato sul bordo del molo e montava la guardia ad un peschereccio ormeggiato alla banchina.
Il cane lo puntò, alzando la testa e rizzando le orecchie.
Sovieri lo guardò e gli parlò, come fosse un essere umano «Mi chiamo Piergiorgio Sovieri, ma sin da bambino tutti mi chiamano Pigì, come se dicessero pipì. Ho 54 anni e non mi sopporto più perché ho buttato via la mia esistenza. Hai capito cane?».
Forse il cane capì davvero, perché abbassò le orecchie e poggiò il muso a terra, riprendendo le sue placide riflessioni interrotte dall’apparizione dell’uomo.
6
Pigì Sovieri non aveva mai imparato l’arte di dire intimamente addio alle persone: per lui il problema non era il distacco da quello che gli era caro, ma la parte di sé che moriva con quel distacco.
Era stato così anche con la sua ex-moglie, che lo aveva lasciato sette anni prima per andarsene con un ingegnere informatico arabo, più giovane di lei di cinque anni.
Da quel momento Sovieri aveva intrapreso la lunga traversata di un deserto personale che non accennava a finire, visto che all’orizzonte continuava a vedere sempre e solo sabbia.
Sovieri era deluso e amareggiato, constatando che il risultato della sua vita era il nulla: non un Dio che gli avesse donato una fede a cui tenersi aggrappato nei momenti difficili; non un’utopia che lo aiutasse a sperare in un futuro migliore; non un amore che riuscisse a scaldare il suo cuore di vecchio combattente ormai prossimo alla diserzione.
Si sentiva smarrito, come in mezzo ad una strada sconosciuta, sopraffatto da un viavai di persone che passavano oltre urtandolo e spintonandolo, incuranti della sua intima sofferenza. «Come ho fatto a sprecare così la mia vita?» si chiese ad alta voce, cercando di comprendere com’era possibile sentire la propria esistenza sfuggire dalle mani, come sabbia tra le dita.
Sentì montare dentro di sé la solita inquietudine che gli ottundeva i sensi, proprio come se avesse fumato una canna, mentre in realtà provava solo disagio e paura.
Continuò a camminare sul bordo del molo, all’altezza del punto in cui al tramonto i pescherecci scaricano le casse del pescato.
Aveva voglia di un’altra sigaretta. L’accese, pensando amaramente di aver bruciato la sua vita come aveva fatto con i suoi polmoni nel corso di oltre trent’anni di impenitente abuso di tabacco.
E si sorprese a chiedersi quale delle due era la sua parte più nera: i bronchi inquinati dal nero del catrame delle sigarette o la sua anima senza pace?
Sorrise mentre pensava che era meglio lasciar perdere: il quesito era troppo complesso per ottenere una risposta immediata.
Concluse che probabilmente non aveva mai avuto un gran talento di vivere, abituato com’era a lasciarsi trasportare dalle persone e dagli eventi, senza mai riuscire a governare né le une, né gli altri.
La prima persona che gli aveva svelato quella sua intima debolezza caratteriale era stata proprio lei, l’unico grande amore della sua vita, la donna che aveva sposato appena laureato.
Sin da ragazza, la sua ex-moglie aveva rappresentato l’incarnazione di una prorompente bellezza femminile, con i suoi capelli lunghi, ricci e biondi, il suo seno pieno ed appariscente, la vita snella e le gambe slanciate.
Non era molto alta, ma i tacchi indossati disinvoltamente con ogni tipo di abbigliamento e il linguaggio del corpo, sempre teso a sottolineare la sua sensualità, la rendevano attraente agli occhi di chiunque la guardasse.
Forse era ancora così, anche se non la vedeva da oltre quattro anni. Quando l’aveva conosciuta, più di trent’anni prima, frequentava lingue straniere a Bari e faceva la pendolare ogni giorno tra Bari e Fasano per seguire le lezioni, giacché la sua famiglia non le aveva permesso di prendere casa a Bari.
Aveva sempre intorno tre o quattro amiche, che sembravano guardie del corpo allenate a prevenire ogni iniziativa maschile.
Lui l’aveva notata, perché non si poteva fare a meno di notarla, ma non gli era mai capitata l’occasione di scambiare con lei qualche parola. Già, era sempre stato un po’ imbranato con le donne, anche se - forse proprio per questo - era sempre stato considerato un tipo piuttosto piacente.
Il suo rapporto con le donne era sempre stato di tipo difensivo, per colpa della sua incapacità organica ad assumere iniziative.
Preferiva aspettare un loro segnale di inequivocabile disponibilità, per escludere a priori l’ipotesi di un rifiuto che lo avrebbe fatto precipitare negli inferi di una crisi di autostima.
Anche con la sua ex-moglie era andata così. Era stata proprio lei a sceglierlo, prendendo l’iniziativa di rivolgergli la parola su quel treno di pendolari per Bari, che lui prendeva da Ostuni e lei da Fasano.
Sovieri da ragazzo amava molto quei viaggi in treno, che gli consentivano di godere di tutta la bellezza della campagna pugliese, splendida nella paciosa monotonia dei suoi ulivi, rotta qua e là dall’esplosione policroma delle mille fioriture spontanee che invadevano le zolle, fino a spuntare anche dai massi rocciosi del terreno.
A quell’epoca aveva l’abitudine di sedere nel senso contrario alla marcia del treno. Questo accorgimento gli consentiva di delineare virtualmente un piano-sequenza con cui riusciva a cogliere tutti i dettagli di quella campagna, passando dall’ossessiva ripetitività dei veloci primi piani sugli ulivi alla quiete panoramica della profondità di campo.
Ripeteva questa operazione anche in inverno, nelle belle giornate di sole, quando si diffondeva quella particolare luce che è solo pugliese, cioè intensa, tersa e bianchissima, che illuminava le forme statuarie degli ulivi millenari, i mandorli fioriti di bianco a gennaio, oppure i peschi già vestiti di rosa a febbraio.
La fronte appoggiata al vetro del finestrino, si incantava di meraviglia per quella visione che si ripeteva ogni settimana, come fosse un miracolo che la natura sembrava riservare soltanto a lui.
«Ciao!», sentì dirsi un giorno dal sedile accanto al suo.
Era lei, che lo osservava con un sorriso insieme tenero e sornione. Da quanto tempo lo stava osservando? si chiese, un po’ intimidito, mentre rispondeva al saluto.
«Ti incanti spesso in questo modo così romantico?», gli domandò lei con tono canzonatorio, mentre un sorriso di straordinaria bellezza le illuminava il viso.
«Ogni volta che viaggio in treno» rispose senza riflettere. Poi aggiunse, quasi a giustificarsi «Mi piace molto questa campagna. La sento una cosa mia».
Da quel momento non si erano più lasciati. Per quasi ventisei anni.
Poi un giorno, improvvisamente, se n’era andata .
Glielo aveva detto brutalmente, come aveva sempre fatto nella loro vita di coppia «Pigì, non ti amo più. Ho conosciuto un altro uomo. Vado via da casa».
E lui era rimasto lì, senza reagire, incapace di emettere un suono, di articolare un’espressione del volto, di muovere un solo muscolo del corpo.
In casa aveva sempre comandato lei.
Aveva scandito i tempi del loro rapporto, aveva deciso che non dovevano avere figli, aveva programmato i viaggi d’estate e selezionato gli amici da frequentare.
La sua esistenza era stata pianificata, organizzata e vissuta al seguito di quella donna bellissima che lo aveva tramutato nel suo fantoccio.
Poi un giorno lei se n’era andata con un altro uomo, portandosi via anche la sua vita e il pezzo più grande del suo cuore spezzato in due.
7
Una piccola barca a motore con la lampara ancora accesa stava attraccando al molo dei pescherecci. Un uomo anziano, un vecchio pescatore dalla pelle bruciata dal sole, aveva qualche difficoltà a salire sulla banchina. La bassa marea rendeva troppo alta la quota dell’imbarcadero rispetto alla linea di galleggiamento della barca.
Sovieri si avvicinò all’uomo per dargli la mano, aiutandolo a sbarcare sulla banchina. Il vecchio pescatore lo ringraziò e per sdebitarsi gli offrì un paio di pesci da arrostire. Lui lo ringraziò, ma rifiutò cortesemente. Gli disse che non aveva nessuno in grado di pulirlo e cucinarlo.
Il pescatore lo guardò severo e bonario e, rivolgendosi in dialetto stretto, gli disse secco «Alla tua età ti permetti ancora di fare il signorino?».
Lui sorrise imbarazzato e, adeguandosi al suo slang dialettale, cercò di spiegargli che certe volte le cose non andavano esattamente come noi avremmo voluto che andassero.
L’uomo lo zittì con un brusco gesto della mano. Sovieri comprese che lo stava rimproverando, come forse avrebbe fatto suo padre se fosse stato ancora vivo «Ricordati che in quello che accade c’è sempre una parte di nostra responsabilità» scandì, continuando imperterrito a parlargli nel dialetto stretto che usano giù al porto.
Sovieri annuì pensieroso, lo salutò con la deferenza che da quelle parti si deve alle persone più anziane e continuò la sua passeggiata sul lungomare.
Pensò che quel vecchio pescatore aveva intuito un’innegabile verità: gran parte della crisi alloggiava nella sua testa ed era lui che doveva trovare il modo di farla sloggiare.
Squillò il cellulare. Rispose meccanicamente «Sovieri, chi parla?».
«Pigì, sono Letizia! Dobbiamo vederci subito. Ho fatto delle foto incredibili nelle campagne intorno a Brindisi. Te le devo fare vedere subito».
Letizia Piediluce era la fotografa del giornale, una ragazza piena di vitalità e di entusiasmo contagioso. Era anche una bella ragazza, alta e slanciata, vestita sempre con jeans attillati che le sottolineavano le gambe magre e anche il culo a mandolino. Aveva poco più di trent’anni, era carina e ‘single’. Diceva di avere una vita sessuale disinvolta, senza mai rinunciare alle occasioni che le si presentavano, definendosi una cacciatrice rapace e onnivora, ma anche incostante e sentimentalmente anarchica.
Sovieri la lasciava raccontare. Aveva vissuto troppi anni per non capire che voleva provocarlo per vedere l’effetto che gli facevano le sue iperboliche affermazioni. Pensava che i giovani d’oggi erano tutti così, diretti e crudi, privi di quel pizzico di magia che ha il potere di trasformare una banale scopata in un atto d’amore.
Letizia sosteneva di avere poco tempo per l’amore degli uomini.
Lei era tutta presa dall’amore per la natura e per i ritratti dei tramonti sul mare, dalla passione per la macchia mediterranea e per le biodiversità pugliesi di cui fotografava ogni più piccolo dettaglio.
Le rispose «Va bene, prendiamo una birra al pub sul lungomare. Io sono già in zona. Tra cinque minuti?».
«Cinque minuti e sono lì». Clic! L’irruenza di Letizia non le aveva mai consentito di mettere troppa grazia e delicatezza nei suoi atteggiamenti.
La vide arrivare sulla sua utilitaria bianca, sporca di polvere e fango: era evidente che aveva battuto stradoni di campagna senza asfalto.
«Ciao!». Letizia aveva una voce elettrizzata, non stava nella pelle.
Tirò fuori la sua macchina fotografica dal borsone a sacco che portava sempre appeso a tracolla.
«Guarda!» disse mentre si avvicina per permettergli di visionare le foto sullo schermo della macchina digitale.
Sovieri osservò una lunga teoria di foto scattate, da varie posizioni, ad una serie di pannelli solari per la produzione di energia fotovoltaica.
«E allora?» chiese.
«Stanno riempiendo di questa roba tutta la campagna brindisina. Tolgono i filari di vite e di ulivi per impiantare questa roba. E’ pazzesco. Non possiamo stare zitti. Dobbiamo farlo sapere a tutti».
Letizia si era molto infervorata mentre lo arringava. Proseguì «Se sei d’accordo, io continuo a fotografare tutte le zone che stanno occupando. Ma tu devi impegnarti in un’inchiesta giornalistica su questo fenomeno. Devi scrivere una cosa grossa, un’inchiesta a puntate. Che ne pensi?».
Sovieri rifletté solo qualche istante: fare un’inchiesta di denuncia, come ai bei tempi, quando ancora la gente protestava, s’indignava e non era disposta a rassegnarsi. I bei tempi andati, quando anche lui provava sdegno per i soprusi e combatteva per la giustizia e l’equità.
Concluse che Letizia, inconsapevolmente, gli stava lanciando una fune a cui aggrapparsi, per tirarsi fuori dalle sabbie mobili del suo stato di inerzia intellettuale che lo stava sprofondando nell’apatia.
«Va bene. Domani ne parlo con il Direttore. Non credo che ci saranno problemi. Tu continua a scattare foto. Vediamo se riusciamo a ricostruire una mappa delle aree occupate».
«Grazie, Pigì. Ti voglio bene!». La ragazza gli buttò le braccia al collo e lo baciò forte sulla guancia. Lo guardò con gli occhi pieni di entusiasmo e di ammirazione, lo salutò con un gesto della mano e corse via verso la sua utilitaria sporca di polvere e fango. Sovieri la seguì con lo sguardo mentre si allontanava e pensò che l’idea di Letizia era fantastica: un’inchiesta giornalistica sul fenomeno degli investimenti negli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
In effetti, c’era da chiedersi da dove arrivassero tutti quei soldi. Per mettere in piedi un impianto di produzione di energia fotovoltaica, bisognava disporre di consistenti capitali, giacché era necessario acquistare i terreni dai proprietari, investire nella progettazione e nella costruzione degli impianti, riuscire ad ottenere tempestivamente tutte le autorizzazioni necessarie.
In ogni caso prima di iniziare a produrre e vendere energia, innescando il processo di remunerazione dell’investimento, doveva passare un bel po’ di tempo.
Chi sosteneva il costo finanziario dell’intera operazione?
Si, l’idea di un’indagine giornalistica sul fenomeno degli investimenti nel fotovoltaico non era affatto una brutta idea.
«E brava Letizia!» sussurrò a se stesso mentre riprendeva a passeggiare.
8
Sovieri continuò a passeggiare sul lungomare, pensando a come articolare l’inchiesta giornalistica, valutando finanche la possibilità di tirarne fuori un ‘instant-book’ di denuncia.
A differenza di Letizia, non era tanto impressionato dall’impatto ambientale dell’installazione invasiva dei pannelli fotovoltaici, quanto dall’aspetto finanziario dell’operazione.
Gli sembrava evidente che quegli investimenti prevedevano una remunerazione molto dilazionata nel tempo. Quindi gli investitori dovevano necessariamente avere non solo grandi disponibilità finanziarie, ma anche una sostanziale indifferenza al rendimento immediato del proprio investimento.
La cosa gli puzzava.
Quel tipo di affari non erano propriamente in cima alla lista degli operatori di ‘venture capital’. Era molto più probabile che lo fossero in quella di chi ha bisogno di ripulire denaro di dubbia provenienza.
Pensò che la prima verifica da fare era quella di capire quali fossero le aziende autorizzate alla costruzione e gestione degli impianti fotovoltaici. Poi sarebbe stato necessario comprendere a chi facessero capo quelle aziende e, una volta conosciuti i nomi di soci e amministratori, cercare di ricostruire la loro storia personale.
Cercò di individuare mentalmente i soggetti che potevano aiutarlo in quel lavoro che si preannunciava piuttosto imponente e faticoso. Era fuor di dubbio che non poteva contare sulla fotografa Letizia Pierdiluce.
La ragazza era tanto carina e appassionata, ma anche un po’ svagata e leggera. In più, la sua militanza ambientalista e le relative frequentazioni non le consentivano di garantire il rigoroso senso di neutralità e di riserbo che l’impresa meritava.
Pensò anche che sarebbe stato meglio non coinvolgere alcun collega. Il mondo del giornalismo era molto cambiato negli ultimi anni, visto che il conformismo e l’opportunismo erano ormai dilaganti e non c’era