Tragedia dell'assurdo
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Un’avventura dal sapore teatrale che trasporterà il lettore indietro nel tempo tra abitudini, usanze e colori di un antico Veneto rurale che non esiste più. Un romanzo che è un delicato e malinconico viaggio nella memoria e, insieme, un realistico dipinto di un passato non troppo remoto.
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Anteprima del libro
Tragedia dell'assurdo - Jenny Gecchelin
Jenny Gecchelin
Tragedia dell’assurdo
TRAGEDIA DELL’ASSURDO
Autore: Jenny Gecchelin
Copyright © 2013 CIESSE Edizioni
Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)
info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it
ISBN versione eBook
978-88-6660-074-9
Impostazione grafica e progetto copertina:
© 2013 CIESSE Edizioni
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Collana: Green
Direttore di Collana: Sonia Dal Cason
Editing a cura di: Sonia Dal Cason
Alle persone vicine al mio cuore
PERSONAGGI
Beatrice Sberze
Bianca el bocia
Sberze
Angela Sberze, madre di Beatrice e Bianca
Francesco il Bufala
Sberze, padre di Beatrice e Bianca e marito di Angela
Maresciallo Gaetano Amoruso, Comandante della locale Stazione dei Carabinieri
Valente Dal Lago, fidanzato di Beatrice
Anna Maule, vicina di casa degli Sberze
Adele Maule, figlia di Anna Maule
Lucia Manozzo, zia materna defunta di Valente Dal Lago
Caterina Manozzo, madre defunta di Valente Dal Lago
Santo Sberze, zio di Bianca e Beatrice e vicino di casa di Lucia Manozzo
Ottavia Sberze, moglie di Santo
Michele Sberze, figlio di Santo e Ottavia
Ferdinando Corà, compaesano degli Sberze e bracciante di Lucia Manozzo
Fortunata Corà, moglie di Ferdinando
Giuseppe, Antonia e Stefano Corà, figli di Ferdinando e Fortunata
Amelia Collareda, maestra della scuola elementare locale
Serafino Cortiana, marito della maestra
Lino Cortiana, figlio di Amelia e Serafino
Vittoria, Aldo e Giorgio Cerisara, ragazzini amici di Bianca
Pietro Sorgato, sacrestano
Celestina Sorgato, perpetua e moglie di Pietro
Innocente Sorgato, figlio di Pietro e Celestina
Don Mario, parroco
Giovanni Luccarda, Podestà del Paese
Piero il Monco
Corà, oste
Modesta, moglie di Piero
Vittorina Valle, vecchia vedova
Primo, Secondino, Terziano e Quartilio Valle, figli di Vittorina Valle
Tragedia dell’assurdo
PROLOGO
«Non me ne resterò qui ad ascoltare le vostre minchiate un solo secondo di più» affermò convinto il Maresciallo Gaetano Amoruso fissando l’uomo in piedi davanti a lui che stringeva il cappello in mano, stropicciandolo nervosamente, e trasferiva di continuo il peso da un piede all’altro. Era, insomma, quasi commovente nel suo palese imbarazzo, non fosse stato per il fatto che l’ubriachezza gli conferiva un equilibrio barcollante che rivestiva di un velo comico tutta la scena.
Amoruso lo conosceva fin troppo bene. Sapeva quanto quell’uomo amasse l’osteria, le chiacchiere da osteria, gli avventori dell’osteria e qualsiasi altra cosa riguardasse l’osteria. Inevitabile quindi che eccedesse con il bicchiere, come accadeva a molti suoi compaesani tra quelle montagne del nord Italia. Buon Dio, ma dove l’avevano spedito a lavorare! Capitava fin troppo di frequente, per i gusti del buon Maresciallo, di essere costretto a seccanti rilievi per ubriachezza molesta.
«Maresciallo, Comandante, Vossignoria …».
«Seee, basta con i titoli, io e voi ci siamo già intesi. Filate a casa da vostra moglie e non infastiditemi oltre. Non si può far perder tempo a un uomo di legge, ho ben altro di cui occuparmi, io! Criminali, ladri, assassini!».
«Ma io vi ho pur detto che …».
«Ho ben capito cosa avete detto! E domani mattina, quando la sbronza sarà passata, sono sicuro che vi maledirete per esser venuto sin qui a importunarmi con le vostre balorde idee!».
«No, no, non sono idee balorde», bofonchiò l’astante con voce intorpidita dall’alcool.
«Via, fuori, prima che vi faccia arrestare! Sparite dalla mia vista!».
«Ma Eccellenza …».
«Ma quale Eccellenza! Aria, via! Domani mi ringrazierete di non avervi dato retta, razza di sconsiderato!».
L’uomo si rassegnò e uscì con mestizia dalla Caserma dei Carabinieri, raggiunta con tanta fatica, accompagnato dalla voce del Maresciallo che gli intimava di tornare ad arrampicarsi sui suoi benedetti monti
.
PARTE PRIMA
Voce narrante: Bianca
1. BEATRICE E BIANCA
Beatrice e Bianca vennero al mondo nello stesso anno, a undici mesi l’una dall’altra.
Dopo parecchi anni trascorsi nella sempre più marcata convinzione che la loro fosse un’unione sterile, i genitori le misero al mondo in sequenza, con frenetica ansia, come se temessero che, concluso quell’anno propizio, non sarebbero più stati in grado di procreare.
E così fu, in effetti. In seguito non riuscirono in alcun modo a concepire il tanto agognato figlio maschio, né nessun’altra femmina.
Il secolo diciannovesimo si trascinava pigramente verso il suo ultimo decennio quando nacquero le due sorelle Sberze, destinate a crescere quasi in simbiosi tra loro. Beatrice vide la luce nel gennaio del 1889, in un gelido inverno nevoso e ghiacciato, mentre Bianca a dicembre, quando la stagione del freddo era già tornata a visitare quei monti umidi in cui l’estate era sempre breve e avara.
Angela e Francesco Sberze, conosciuto come il Bufala
, accolsero le neonate con grande entusiasmo. Nonostante la povertà in cui versava la popolazione di quei luoghi lontani dalle grandi città, i figli erano considerati una benedizione. Non averne era per ogni coppia, e in particolare per la donna, un grande disonore. La sterilità non era ritenuta una sfortuna imposta dal destino, ma una sorta di colpa, un peccato di cui vergognarsi, un castigo divino per qualche malefatta o pecca caratteriale. Perciò Angela tirò un sospiro di sollievo quando partorì la prima figlia e non contemplò nemmeno l’ipotesi di concedere al suo corpo il tempo per riprendersi dalla fatica della gravidanza: un secondo figlio lo voleva subito. Francesco il Bufala non si fece pregare, anche se storse un po’ il naso alla nascita di un’altra femmina.
«Donne a raffica mi dovete partorire, moglie?», chiese infatti alla sua Angela appena sgravata per la seconda volta, poggiandosi le mani sui fianchi e guardandola dritta in viso. Lei, sudata e dolorante, non seppe trattenere un’occhiataccia malevola.
«Che dovrei raccontare ora ai miei compari, giù in osteria? Che non sapete darmi un maschio?» aggiunse l’uomo.
Per nulla mortificata dalla fredda accoglienza ricevuta, l’ultima nata prese a piangere con vigore, reclamando l’attenzione che le spettava. La madre le porse il seno tutt’altro che turbata, per poi tornare a guardare il marito con aria di sfida.
«Francesco, raccontate quel che volete. Che io sappia è la vostra specialità, questa!» ribatté pungente mettendolo a tacere e dedicando tutte le sue premure alla bambina.
È doveroso precisare che Francesco era noto come il Bufala
per la sua straordinaria capacità di raccontare frottole. In osteria, dopo qualche bicchiere di denso vino nero, non si controllava più e se ne usciva con trovate che causavano l’ilarità dei compagni di bevute anche per giorni, una volta che la verità veniva a galla.
Angela era certa che il bizzarro consorte si convincesse di ciò che raccontava a tal punto da stupirsi quando veniva smascherato, come se scoprisse solo in quel momento di aver mentito. Anche in quell’occasione fece onore al proprio soprannome e, dopo aver rimproverato la moglie, se ne andò a festeggiare con un bel quarto di nero acetoso.
«Offro io!» esclamò entrando trionfante nella bettola al centro del paesello montano, «mia moglie mi ha appena sfornato un bel maschietto!».
I goti si levarono in aria numerosi e Bianca si guadagnò il suo futuro nomignolo: el bocia
, ossia il ragazzino.
Le due sorelle dimostrarono crescendo di essere tutt’altro che maschiacci: così vicine di età da sembrare gemelle, da bambine erano amate da tutti i compaesani. Piccole, graziose e gentili, avevano ereditato i tratti femminili delicati della madre sottolineati, però, dai colori decisi del padre. I capelli scuri e gli occhi nocciola rilucevano contro la pelle chiara, eredità di avi lontani nel tempo, forse provenienti dal nord. Tra le coetanee si distinguevano per un’illusoria fragilità che stimolava nei loro confronti un senso di protezione. Ma in barba alle apparenze, erano resistenti e tenaci e giunsero all’età scolare senza quasi aver buscato un raffreddore.
Angela era assai protettiva verso le sue preziose figliole: una volta resasi conto che l’arrivo di altri eredi era improbabile, aveva riversato sulle bambine tutte le sue amorevoli cure.
Francesco il Bufala si dimostrò invece più pratico. Se non aveva avuto il desiderato maschio, le due ragazzette avrebbero dovuto fare in modo che non ne sentisse mai la mancanza. Di conseguenza prese a condurle con sé nei campi fin da quando mossero i primi passi. Dapprima insegnò loro i mestieri più semplici, pretendendo il loro aiuto malgrado le proteste della madre che le avrebbe volute in cucina al suo fianco. Come se non bastasse, quando la sera Francesco andava in osteria, esigeva che una delle figlie lo scortasse. Le due sorelle impararono presto a darsi il cambio: trascinare a casa il genitore ubriaco, per giunta dopo aver sorbito qualcuna delle sue storie balzane, non era fatica da poco. Uscendo dal locale il buio era fitto, gli anni della luce elettrica a illuminare le vie dei paeselli erano ancora lontani. Perciò bisognava afferrare saldamente la mano del padre e cercare di condurlo a casa incolume, compiendo uno sforzo al limite del sovrumano. L’omone barcollava e avanzava storto, giungendo talvolta a ruzzolare per terra trascinando con sé la malcapitata. Se dal principio la ricompensa di una spuma le aveva allettate, Beatrice e Bianca iniziarono presto a temere quella consuetudine serale e talvolta, nei loro giochi e scommesse, mettevano in palio proprio quella spiacevole incombenza.
Nonostante le oggettive difficoltà, le due bambine crescevano serene, maturando e mostrando sostanziali differenze di carattere che ne avrebbero determinato il futuro.
2. LA MAESTRA COLLAREDA
Le sorelle Sberze, essendo coetanee, iniziarono insieme il loro cammino scolastico. Era il 1895, primo anno di servizio per una nuova maestra, la signora Collareda, che subentrava nell’insegnamento a un parroco. La popolazione attendeva con ansiosa preoccupazione questa laicizzazione della scuola. Erano in molti a considerarla una scelta sbagliata, poiché ritenevano che un religioso fosse più colto e più capace, oltre che più autoritario con i giovani scavezzacollo della zona. I fatti diedero loro ragione, più per fatalità che per regola, dato che altre maestre laiche si erano già insediate con successo in altri paesi del circondario.
Con l’inizio della scuola le differenze fra le sorelle divennero palesi. Beatrice si rivelò piuttosto silenziosa e solitaria. Fatta eccezione per Bianca, non gradiva giocare con gli altri compagni di classe. Bianca invece fu fin da subito socievole e vivace, tanto da meritarsi numerosi richiami da parte della maestra che non era un’insegnante molto amante del lavoro e, di conseguenza, era incline a prediligere gli studenti disciplinati e poco problematici. Dover richiamare un alunno per più di una volta le costava un grande sforzo e attirava irrimediabilmente la sua antipatia. La maestra Collareda classificò presto Bianca come insubordinata, mentre per Beatrice, attenta e ubbidiente in ogni occasione, dimostrò una marcata preferenza. La disparità di trattamento non riguardava solo le sorelle Sberze, ma era purtroppo abituale nella condotta della donna che catalogò ogni alunno secondo due categorie: mi piace
e non mi piace
. Se a questo discutibile criterio si fosse unita una buona qualità d’insegnamento, forse nessuno avrebbe trovato da ridire. In quegli anni i genitori non osavano mettere in discussione l’autorità dei maestri e qualsiasi punizione, anche fisica, affibbiata a un figlio poco ligio al dovere, veniva applaudita. I giovani scolari imparavano a loro spese che quando venivano puniti o sgridati a scuola, non conveniva riferirlo a casa, pena una seconda razione di rimproveri e botte.
Fu presto chiaro che la maestra Collareda non provvedeva in modo adeguato all’istruzione dei giovani montanari, anche se questi, ben lungi dal protestare, evitavano volentieri i noiosi compiti per passare i pomeriggi a correre tra i boschi. I genitori dal canto loro non avevano grandi pretese, ma dovettero accorgersi che i figli non imparavano né a leggere né tantomeno a far di conto. Com’era possibile? L’unica eccezione pareva essere Beatrice che, almeno a detta di Francesco il Bufala, leggeva con fluidità e districava calcoli inimmaginabili. Anche se le storie del Bufala erano esagerazioni e tutti ne erano consapevoli, Beatrice era davvero più avanti rispetto al resto della classe. Ciò si doveva alla sua natura docile, unita a una discreta intelligenza e soprattutto a una grande forza di volontà. Di contro Bianca, cui la dedizione e l’impegno facevano difetto, dopo i primi due anni di scuola non sapeva ancora né leggere né scrivere e operazioni matematiche anche molto semplici le riuscivano impossibili.
Come se non bastasse, in contrada iniziarono a correre voci spiacevoli sul conto della maestra Collareda: chi diceva di averla incrociata più spesso dell’opportuno fuori dall’osteria in orari in cui gli avventori abituali non bazzicavano da quelle parti, chi sosteneva di averla vista mentre si scolava un intero litro di vino nero senza battere ciglio, e altre maldicenze del genere. Le comari più pettegole si azzardarono a sussurrare di una presunta relazione illecita tra lei e il parroco. Qualcuno sembrava aver notato che i due si intrattenevano fin troppo spesso in canonica da soli, oltre ogni limite suggerito dal buon costume e dalle esigenze didattiche. La piccante notizia corse in un lampo sulla bocca di tutti i residenti.
«Mia figlia Adele è tornata a casa con i segni delle dita ancora stampati in viso», mormorò accorata un giorno Anna Maule, vicina di casa degli Sberze, mentre scambiava qualche confidenza con Angela fuori dai rispettivi usci.
«Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno!» ribatté quest’ultima, convinta sostenitrice della validità delle punizioni corporali.
«La mia, el bocia
ovviamente perché la Beatrice è sempre brava, per punizione è stata costretta a rimanere inginocchiata sopra i sassi dietro alla lavagna così a lungo che, quando è tornata a casa, aveva le ginocchia peste e ammaccate. Non mi voleva dire cosa era successo, ma a furia di insistere lo ha ammesso!».
«Che aveva fatto?».
«Aveva rovesciato un’intera boccetta di inchiostro! Con quello che costa!».
«Ma la cosa peggiore» aggiunse Adele, ritenendo l’incidente trascurabile e passando oltre, «è che si dice parli male di noi genitori! Che inveisca contro di noi quando uno dei nostri figli combina qualcosa o non risponde alle domande! Ci definisce ignoranti, zotici e cafoni!».
«Questa poi!» saltò su Angela indignata.
Che la maestra se la prendesse con i bambini poteva anche essere plausibile, ma insultare i genitori era ben altra cosa.
Quando nel 1897 la maestra venne confermata nel ruolo, dopo il biennio di prova, le proteste si fecero più pesanti e alcuni genitori decisero