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Il re del Madagascar
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E-book132 pagine1 ora

Il re del Madagascar

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Italia del secolo scorso. Due linee in apparenza parallele si incontrano. Così due famiglie e due situazioni distanti per cultura e difficoltà di spostamento, Toscana e Lombardia, diventano invece un destino comune per il tempo che resta, attraversando eventi al di sopra della vita di ciascuno, come le due guerre mondiali europee che lo travolgono e lo pilotano senza via di scampo.

Feliciano Lasagni è nato a Tolmezzo (Udine) nel 1949 da padre toscano e madre lombarda. è sposato e ha due figlie. Ingegnere aeronautico, ha vissuto in Toscana e poi, per lavoro, anche in Liguria, Stati Uniti, Lombardia, Veneto e in Emilia, dove risiede attualmente ed esercita ancora come professionista privato. A chi gli chiede la sua provenienza risponde sempre “mi sento italiano”, non per sradicamento da un luogo specifico, ma come risultato di tante esperienze diverse che si sono unite insieme. Da questa varietà di radici e di incontri e dai racconti dei genitori sulle vicende familiari nasce questo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9791220134491
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    Anteprima del libro

    Il re del Madagascar - Feliciano Lasagni

    Origini, da una parte

    Reduzzi

    Antonio Reduzzi nasce forse nel 1870, da genitori Italiani che vivono a Cremenaga, in provincia di Varese, sul confine tra Italia e Svizzera; il paese è la parte italiana dell’abitato, che ha Ponte Cremenaga dalla parte svizzera, e si è costruito nel tempo intorno a un ponte che costituisce un valico del confine, lungo il fiume Tresa, che dal lato italiano collega Ponte Tresa sul lago di Lugano a Luino, sul Lago Maggiore.

    Nel tempo il nome del paese è stato oggetto di molte speculazioni: alcuni sostengono che derivi da Crimea, perché molti degli abitanti originari sarebbero venuti da quel posto; altri che sia stato fondato da dei criminali fuggiti di prigione in epoche lontane, da cui il nome. Tutte fantasie, nate in un tempo in cui le storie raccontate intorno al fuoco riempivano le serate e gareggiavano non per quale fosse quella vera ma quella che offriva più sogni.

    Antonio emigra in Argentina. Con un socio mette insieme una piccola fortuna che gli consente di vivere agiatamente, almeno sempre in confronto alla miseria dilagante all’epoca.

    In uno dei periodi di permanenza in Italia, Antonio incontra una ragazza svizzera, Francesca Ferranti e, nonostante il consiglio contrario degli amici, la sposa, spiegando loro con un sorriso, nel suo italo-lombardo- spagnolo .. ma a mi la me gusta...

    Mentre Antonio va e viene e vive in Argentina, Francesca vive tra Italia e Svizzera. Ogni tanto arrivano i soldi dall’Argentina, o li porta Antonio quando si fa vedere. Non ci sono trasporti veloci allora e quel viaggio vuol dire mesi: il vento porta le navi attraverso gli oceani quando gli va e gli uomini si adattano. Poi la ferrovia e poi il cavallo o i piedi, secondo quello che c’è e ci si può permettere.

    Se poi la spinta non è molto forte il viaggio è ancora più lento o più rado. Cosi Francesca vive dei soldi del marito e dei soldi del padre, Giuan del Runcasch, al secolo Giovanni Ferranti abitante al Roncaccio, in Svizzera tra Ponte Cremenaga e Luino. La famiglia di Francesca è relativamente benestante; difatti la figlia (come le altre figlie) non ha dovuto andare a lavorare allo stabilimento o nei campi, e forse per questo non ha ancora capito il peso di sostenere da sé la propria vita. Benestante è però un concetto relativo: nell’Italia (e nella Svizzera) della fine del 1800, ancora povera di risorse per tutti, benestante è già chi oggi sarebbe quasi povero; cioè qualcuno che mangia e si veste tutti i giorni senza problemi, ha una casa dove ripararsi, non deve guardare ogni giorno il cielo per vedere se domani si vive o si muore e ha legna di che scaldarsi nei lunghi inverni.

    In aggiunta le occasioni di spendere denaro sono remote, e questo diminuisce la sensazione di miseria. Così Francesca (e suo figlio) vive del suo e del prestato. Ma Giuan del Runcasch è una persona giusta, a modo suo: quando muore, ormai molto vecchio, a Francesca viene detto che ha già avuto la sua parte di eredità, per strada, e non le toccherà altro che l’affetto di un fratello; infatti Mattia abita in Ponte Cremenaga e, volendo, può permetterselo; le sorelle invece abitano ormai troppo lontane, andate via con il matrimonio, e le distanze abbiamo detto erano importanti allora, anche per tagliare i contatti.

    Antonio non è il solo a cercare fuori dal paese il suo sogno. Si racconta che anche altri abbiano provato le vie del mondo. Partenze con tante speranze e molte paure, ma con almeno la convinzione di avere poco da perdere.

    L’Italia di quel confine con la Svizzera è povera, molto. L’agricoltura è ridottissima: si coltivano anche posti impensabili, strappando al bosco le balze di una montagna sempre all’ombra e cercando di tirarne fuori pane o castagne almeno. Il bosco, che pure sembra povero, per chi deve accontentarsi è fonte di vita, per la legna che aiuta a superare l’inverno, e magari a fare qualche soldo, vendendola. Le foglie servono per fare da letto alle bestie e le vacche vivono del fieno raccolto d’estate e i maiali del poco granturco che ci si procura, e delle ghiande che si raccolgono dalle querce. Per questo il bosco è pulitissimo, e a volte si litiga per chi può raccogliere e dove; ma non è uno scherzo. Ancora nel 1930 i mandarini sono un regalo di Natale e della Befana, che i bimbi trovano vicino al presepe; anche un pugno di noci (già colte e liberate dal mallo!) è un regalo gradito. Il commercio praticamente non c’è e si vive della mucca e del maiale, e dell’orto che dà quel che dà in una valle del nord Italia, all’ombra della montagna. Anche le scarpe per lo più sono zoccoli di legno fatti in casa, e la stoffa si compra in tagli al mercato a Ponte Tresa o a Luino, da cucire in casa quando è proprio necessario e non si può più girare la giacca o il pastrano.

    Così anche il padre dell’Anna era partito per l’Argentina.

    Perché l’Argentina non si sa. Non si sa nemmeno se fosse proprio l’Argentina o il Brasile o il Perù, a dire il vero.

    Per la gente del paese spesso Argentina voleva dire America (del sud, ma non era molto chiara la differenza), e America voleva dire Argentina. Forse era Argentina perché il porto più vicino era Genova e le linee di navi da Genova andavano soprattutto in Argentina o da lì costava meno il passaggio per quella destinazione. Così da Genova a tutto il nord Italia si andava a cercare fortuna in Argentina, mentre forse da Palermo e Napoli si andava più negli Stati Uniti, perché là li portava il vento e le navi che partivano da sud.

    Il padre di Anna aveva portato con sé la moglie, e il perché si può solo supporre; oggi è logico che i coniugi viaggino e vivano insieme, ma allora era un’eccezione, e a ragione spesso: infatti era anche tornato, il padre di Anna, da solo. E Anna non era la figlia della prima moglie di suo padre.

    La prima moglie era rimasta là, morta nella fuga dal loro schiavista e abbandonata sotto una pianta.

    Se nell’Europa dell’inizio del 1900 la condizione di vita degli operai era forse un po’ peggiore di quella dei contadini, entrambe non belle in genere, nelle aree di colonizzazione del sud America era anche peggio.

    La società non aveva alcuna regola, né una logica di vita sociale. Era solo l’espressione dell’interesse di chi aveva il potere, e il valore di una persona era quello che gli veniva attribuito sul momento. Cosi il padre dell’Anna era diventato un salariato senza diritti, e la moglie pure, e avevano lavorato dall’alba alla notte e vissuto del minimo peggio che al paese, da un giorno all’altro. Fino a quando decisero che non meritava e non c’era soluzione, se non andarsene.

    Ma il contratto tra uno schiavo e il padrone non è tra pari: uno solo decide le regole e lo scambio è tra il poco che lo schiavo riceve e il controllo di altri sulla sua persona. Così in quella situazione storica e sociale i lavoratori non potevano dichiararsi liberi di andare. Quando decisero di farlo e una notte presero il largo, gli andarono dietro con i cani. Il padre dell’Anna raccontava ancora con le lacrime agli occhi, anche se ormai lacrime da vecchio, la donna abbandonata sotto un albero e sparita subito nel buio, mentre si allontanavano, poi il resto della fuga, fino al rientro in Italia, in qualche modo su una nave. Traspariva ancora nella storia l’odio per i padroni, non tanto perché padroni della hacienda, ma della loro persona e della loro libertà. E per la vita tutti i giorni con il coltello in tasca, pronto.

    Diversamente da molti anglosassoni, i latini spesso partivano col pensiero di tornare, e quella in America non era la loro nuova vita, ma piuttosto un passaggio temporaneo. Cosi mentre i padri pellegrini dall’Inghilterra, più tardi i norvegesi, i tedeschi, gli irlandesi e gli olandesi, andavano per stare e chiamavano quei posti New Holland, New York o New Scotland e davano ai luoghi strappati agli indigeni i nomi delle loro origini, gli spagnoli e gli italiani andavano per raccogliere qualcosa, poco o tanto ma il più possibile, e ritornare.

    Così si dice che anche Marco Vaglini, per gli amici Marchetto, ul Marchett, fosse andato in America, quale America non si sa esattamente, e fosse sempre preso dalla voglia di ritornare, forse tenendo nel ricordo un’immagine della sua Italia migliore di quello che fosse in realtà. E aveva lavorato e vissuto in America, finché non aveva stabilizzato la sua vita e trovato il suo equilibrio, e messo da parte il denaro per vivere e anche un po’ di più.

    Gli restava però il sogno di ritornare, così finalmente un giorno si era deciso. Aveva preso un po’ di soldi in tasca (sì, c’è anche stato un tempo in cui tutto si pagava in contanti), salutato gli amici e preso la nave per tornare a Genova. Poi, da lì un treno finché era possibile e poi un cavallo per arrivare fino al paese, Viconago, Vulnach per i locali.

    Già da Genova era cresciuto in lui il ricordo del suo paese; già per strada, dopo lo sbarco in Italia, in luoghi dove conosceva meno l’ambiente, non vedeva intorno aspetti troppo familiari: anche la lingua era diversa dalla sua. Allora l’italiano, lontano dalla Toscana, non era ancora usato normalmente e il dialetto era l’unica lingua veramente corrente in ogni regione. Chi ha sentito il genovese o il

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