Da me a me
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Anteprima del libro
Da me a me - Anthony M. Paglia
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Nota dell’autore
Ho iniziato a scrivere d’estate. La trama e i personaggi mi frullavano in mente da tantissimi anni. Soprattutto in vacanza, durante i lunghi trasferimenti in aereo o in auto. Per qualche anno sono andato avanti così e il passatempo di inventare un racconto mi piaceva. Poi le situazioni, i personaggi e i dialoghi mi venivano in mente anche prima di dormire e appena mi svegliavo. Più avanti anche quando stavo parlando con qualcuno di tutt’altro argomento. Era diventata un’ossessione che mi faceva estraniare nelle conversazioni sociali e nelle riunioni di lavoro.
Per liberarmene ho cominciato a scrivere su un file. Due computer sulla scrivania, uno per scrivere, l’altro per cercare su Google. E mi sono divertito molto.
A Mari
ringrazio il Caos per averti incontrato, te per esserci ancora
Prologo
Avevo sempre pensato alla mia vita come a qualcosa di completamente vuoto, monotono e triste. Non ero stato capace di trovare degli affetti, avevo solo ricostruito – non per merito mio – una ricchezza materiale che più andavo avanti più si dimostrava inutile. Continuavo a vivacchiare, ad oscillare tra la scelta di farla finita e l’invenzione di tanti obiettivi effimeri, come il tentativo di diventare una persona colta, i viaggi, il lavoro, o tante altre stronzate che, passata la novità, mi riportavano sempre allo stesso punto: che ci sto a fare.
Che beffa: chiedere proprio a me di aiutare una ragazza che aveva tentativo il suicidio!
Mi chiamo Giacomo, faccio il notaio e ho sessant’anni.
Giulia era stata sempre bellissima. Dal padre aveva preso l’altezza, il fisico asciutto ed il profilo romano, da Jacqueline i lineamenti perfetti e l’incredibile colore rosso chiaro dei capelli lunghi che finiscono in morbide onde sulla schiena.
Sdraiata a pancia in su, sopra le lenzuola, Giulia indossa la camicia della clinica troppo corta per la sua altezza, che le copre appena l’inguine.
Il collo lungo le conferisce un incredibile aspetto aristocratico. Gli occhi sono chiusi ma so che hanno un colore verde brillante. Gli zigomi sporgenti oggi sono due buche. Il viso rosato con una spruzzata di lentiggini appena visibili è grigiastro, la pelle senza luce.
Il suo corpo sembra non aver spessore, il torace completamente piatto, la camicia come vuota si confonde con il letto, con le lenzuola. La flebo attaccata al braccio. È in uno stato di profondo sonno indotto dal giorno in cui è stata ricoverata.
Le dita delle mani sono lunghe e affusolate, i piedi sottili, eleganti e proporzionati alla sua altezza.
Io sto ai piedi del letto, le mani appoggiate sulla sponda. Ogni tanto Giulia muove le gambe con dei movimenti che appaiono automatici, indipendenti dalla sua volontà. A ogni scatto delle gambe leggermente aperte la camicia si accorcia un po’ e scopre un pube completamente glabro e delle grandi labbra gonfie e rossastre che contrastano violentemente con il bianco della pancia e del resto del corpo. Le ginocchia sembrano palloncini al confronto delle gambe, peserà sì e no trentacinque chili.
Rimasi imbambolato a fissare il suo sesso, l’unica cosa con un aspetto sano. Quando sentii in corridoio lo stridio di un carrello che si avvicinava, mi spostai sul lato lungo del letto e le tirai giù la camicia. Entrò l’infermiera con il medico di guardia, al quale chiesi la cortesia di essere avvisato quando sarebbe stata in grado di parlarmi. Uscii al sole ancora tiepido di maggio senza riuscire a togliermi la sua immagine dalla testa.
Capitolo 1
Verso la fine di giugno Giulia stava meglio, poteva camminare e mi propose di andare in giardino. Camminavamo su un tappeto di aghi di pino che scricchiolavano sotto i miei mocassini estivi, lei indossava delle infradito di gomma. Ci sedemmo su una panchina di fronte al laghetto. Io ero imbarazzato di fronte a questa ragazza sofferente e altezzosa nello stesso tempo. Non sapevo cosa dire. Cosa si può chiedere ad una persona che non vuole più vivere? Così cominciai subito a parlarle della sua situazione e lei si accese la prima di tante sigarette. Giulia
, dissi, "la volontà di tua madre, che detiene da sola la patria potestà, non lascia margini di scelta: puoi venire a stare da me sino al raggiungimento della maggiore età sotto la mia tutela e responsabilità. Con l’obbligo di accompagnarti alle sedute con lo psichiatra secondo il programma che riterrà più opportuno. In altre parole dovresti vivere con me per i prossimi 6 mesi. Nella mia casa di campagna sopra l’Argentario. Oppure stare ricoverata qui fino al tuo compleanno, il 22 di dicembre. Un autista ti porterà a scuola, ti riprenderà alla fine delle lezioni, ti potrà accompagnare in palestra o a fare delle commissioni, in ogni caso ti riporterà in clinica entro le 18.30. Dopo aver compiuto gli anni, potrai fare quel che vorrai e avrai la disponibilità finanziaria che tuo padre ti ha destinato nel trust.
Stronza, stronza, stronza
urlò riferendosi alla madre.
Avevo incontrato a marzo Jacqueline, la madre di Giulia, nel mio studio notarile romano. Era venuta da me subito dopo l’assassinio del marito per cercare di capire qualcosa nell’intricata situazione d’affari, messa in piedi da lui in tanti anni di successo, appannato dai pesanti sospetti di connivenza con politici e prelati corrotti. Era stato trovato ucciso da due proiettili in testa al posto di guida della sua Ferrari speciale, con i pantaloni ed i boxer calati. Questo tentativo di attribuire il delitto ad una prostituta o a un viado apparve subito alla polizia una messa in scena per far chiudere rapidamente il caso. Le indagini si orientarono presto verso un movente ben diverso, nato nel mondo degli appalti per la manutenzione e il restauro degli edifici del Vaticano, ma si persero in una palude di connivenze, complicità e silenzi interessati. Così sino a quel momento non erano approdate a nulla e la procura non aveva in mano una persona indagata e nemmeno sospettata, nonostante il clamore mediatico che ancora la vicenda alimentava sui quotidiani romani; ambiente dove Giovanni Saraceni, uomo fascinoso con il bel volto da console romano, spadroneggiava da quasi venti anni. Il padre, persona molto semplice, gli aveva lasciato in eredità una piccola impresa di costruzioni, ricca più di debiti che di lavori. La voglia di denaro, la capacità di far colpo sulle donne, lo avevano introdotto in un giro di facili appalti, ottenuti con generose bustarelle ai politici romani vicini al monsignore delegato dalla curia alla manutenzione del patrimonio della Città del Vaticano. Così nelle braccia di Saraceni era caduta anche Jacqueline Bistrod, giovane affascinante architetta di Boston, con master in restauro di chiese e monasteri. Lo aveva incontrato nel cortile di San Damaso ed era rimasta folgorata dalla sua bellezza latina e dalla ricchezza sfacciata, godereccia, così romana, lontana anni luce da quella discreta, non ostentata, luterana, della sua famiglia, tipicamente Wasp con antenati tra i primi colonizzatori d’America. Forse, condizionata anche dalle notizie che circolavano in Vaticano sulle entrature di Giovanni presso la curia.
Da un pezzo la madre di Giulia non amava più Giovanni: quella che all’inizio chiamava goliardia era diventata cafonaggine; l’esuberanza, violenza. Questo nel tempo, ma il rapporto era degenerato quasi subito con la maternità impostale da Giovanni.
Con la sua morte le aveva lasciato la casa del Fleming ed una liquidità di 2 milioni di euro, così come stabilito nel contratto prematrimoniale voluto da lei. E gli aveva lasciato anche una figlia adolescente che, dopo la morte del padre, alternava la scuola e la professione di modella a frequenti, quanto inutili, ricoveri in una lussuosa clinica romana specializzata nella cura dei disturbi alimentari e della depressione.
Quando Jacqueline mi chiamò da Boston ero nel mio studio di piazza Farnese a preparare una complessa transazione immobiliare. Mi disse che la figlia si era impasticcata di psicofarmaci, aveva perso conoscenza ed era stata portata in ambulanza alla solita casa di cura sulla Cassia, dove lavorava lo psichiatra Andrea Vinatti, più famoso nei salotti romani che nei corridoi degli ospedali.
Continuò che non poteva tornare, per non perdere un incarico inseguito per mesi e strappato a forza di poderose sgomitate date ai suoi più giovani ed aggressivi colleghi. Dentro di me collegai questo successo con quanto avevo saputo da un architetto che collaborava saltuariamente con lei. Dopo aver perso la protezione del marito era tornata a Boston e sembrava che fosse diventata l’amante di un anziano senatore repubblicano.
Mi sarei dovuto interessare io di Giulia. Con tatto pesante, evidentemente l’arroganza è contagiosa, mi fece capire che sarei stato ben compensato. L’importante che potesse restare negli USA per ultimare il progetto di restauro di alcune chiese protestanti nella diocesi di Albany nello stato di NY. Mi aveva già spedito un affidavit per consentirmi di occuparmi con diritto di una minore ricoverata per tentato suicidio e sottoposta ad un trattamento sanitario obbligatorio.
Dissi di sì a Jacqueline. Ero troppo riconoscente al papà di Giulia per rifiutare. Del suo compenso non mi interessava niente. Accettai solo a titolo gratuito con suo grande disappunto.
Mi sembrava uno scherzo del destino: ospitare una ragazza che aveva tentato il suicidio.
Inoltre avevo paura di affrontare problematiche così complesse, non avevo contatti con i giovani, non conoscevo il loro modo di pensare, di essere; la storia difficile con i miei era troppo lontana, molto diversa sicuramente dal rapporto dei ragazzi dell’età di Giulia con i genitori. Avevo ascoltato, insofferente, le vicende sentimentali di qualche collaboratrice dello studio che si voleva sfogare, senza mai capire le dinamiche che avevano scatenato il loro turbamento. Quale approccio avrei dovuto utilizzare per mettermi in sintonia con lei? Ero diviso tra la possibilità che accettasse e quella che rifiutasse, togliendomi dall’impaccio.
Il giorno dopo, solito approccio: passeggiata in giardino, panchina e sigarette. Riprese il discorso come se non l’avessimo interrotto.
Senti Giacomo, prima di decidere voglio sapere chi cazzo sei, voglio sapere tutto di te.
Come sai, ero il notaio di fiducia di tuo padre Giovanni e sono il gestore del trust. Non ho figli. Sono single e ho perso i miei a diciannove anni, subito dopo la maturità.
Giulia stizzita disse: Non voglio la tua biografia ufficiale. Voglio sapere le cose vere. Sei gay? Ti fai di coca? Vai in chiesa? Cosa leggi, hai amici, sei felice? Magari vuoi portarmi a vivere a casa tua solo per scoparmi
.
Pensai che in quelle condizioni fisiche non fosse assolutamente desiderabile.
Invece dissi: Da molti anni sono impotente, quando funzionava ero etero
, meravigliandomi subito della mia schiettezza e della mancanza di imbarazzo verso quella ragazza che conoscevo dalla nascita ma con la quale non avevo confidenza alcuna. Da quel momento con Giulia si aprì la diga della mia riservatezza, del mio essere chiuso ed introverso.
Nei giorni successivi era cambiata soltanto la panchina, ne aveva scelta una esposta