Il cuore dell’economia
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Anteprima del libro
Il cuore dell’economia - Franco Portelli
civile
CAPITOLO 1
«Delle tante opere che l’uomo, guidato dal suo desiderio di perseguire il bene, riesce a costruire, la più nobile, la più pura, quella della quale rimango ancora attratto è l’insegnamento realizzato con amore e passione.». Così rispose Matteo al suo giovane collega Gianni che gli aveva chiesto per quale motivo era così tanto impegnato nel suo lavoro. La sala insegnanti era particolarmente frequentata, come ogni mercoledì in terza ora. Le voci dei colleghi che discutevano tra loro facevano da sottofondo, assieme ai colori sbiaditi dei mobili che riempivano quella grande sala, alle parole di Matteo che si accompagnavano a un movimento delicato ma sicuro delle mani che, aperte verso l’alto, erano parte integrante di quel discorso. Luigi era un giovane insegnante di economia e diritto e partecipava, come ascoltatore, a quel dialogo tra Matteo, che insegnava lettere in quell’istituto commerciale e Gianni che, ingegnere al suo primo incarico, aveva da poco firmato un contratto di supplente annuale per insegnare matematica applicata proprio in quella scuola. Matteo era un uomo di cultura ma anche d’azione. Riusciva a coinvolgere i ragazzi, guidandoli non solo ad appassionarsi allo studio ma soprattutto a interrogarsi sulla vita.
La vita è una sfida, un’avventura straordinaria, un mezzo per elevarsi cercando ciò che conta veramente
. Così amava ripetere Matteo. I suoi sessant’anni non gli impedivano di trovare ancora le giuste energie per coinvolgere i suoi alunni, adottando una sorta di provocazione continua, ponendo domande anche scomode e cercando assieme ai suoi allievi risposte. Si divertiva a spazzare via i pregiudizi, normalmente associati al lavoro dell’insegnante.
L’insegnante è ancora oggi immaginato come un rigido burocrate, pronto a selezionare i bravi dai non meritevoli e descritto come uno che nella vita ha scelto di non andare oltre
, accontentandosi di usare la sua laurea per un fine poco nobile. Questo è il pensiero di molti, specie di chi ragiona esclusivamente in termini di remunerazione economica.
I soldi, quei maledetti soldi che per Matteo erano solo un mezzo per giungere a un fine e non un fine di per sé, sono purtroppo diventati addirittura unità di misura per determinare l’utilità di una professione.
Il denaro esiste per servire la nostra società, non per affliggerla o per calpestare i suoi valori
. Pensava Matteo.
Era convinto che l’individuo non poteva essere valutato per il denaro che guadagnava e un lavoro non poteva essere misurato attraverso la sua remunerazione.
E’ chi decideva il prezzo che, invece, andava giudicato.
Erano note a tutti i colleghi le sue critiche verso chi aveva dato scarsa considerazione, anche in termini di retribuzione agli insegnanti.
Un popolo che non apprezza la cultura - diceva lui - è un popolo senza futuro.
Nella sua giovinezza Matteo doveva essere stato un idealista, pronto a spendersi per accompagnare chi aveva avuto la fortuna di incontrarlo verso la scoperta di nuovi valori. Era con queste idee e con questo spirito che aveva scelto di vivere il suo lavoro che amava tantissimo.
In un mondo pieno di cose vuote, di false apparenze vendute come soluzioni per rispondere al senso della vita, lui accompagnava le persone a cercare di più.
Non ha mai accettato passivamente la deriva in cui era scivolata
la società. Per lui l’insegnamento era tutto, rifiutava finanche di pensare che potessero esserci altri lavori più importanti.
Anche in questo andava controcorrente.
«L’insegnamento non è una merce che può essere lasciata al gioco della domanda e dell’offerta. L’insegnamento, è un bene importantissimo, poiché da esso dipendono la dignità e la realizzazione delle persone, i loro sogni e anche la possibilità di poter sviluppare appieno i talenti
ricevuti.».
Così aveva detto Matteo a Gianni, aggiungendo:
«L’insegnamento, per essere valido, perché sia segno autentico della voglia di donarsi agli altri, non può essere regalato. Ha bisogno di essere sudato, comporta attenzioni, studio, ricerca: allora ha un valore. E’ un lavoro che si può fare solo assieme, in un rapporto intenso tra alunni e docente, con la voglia di dare, allora lo si ama.».
Con queste parole Matteo aveva concluso la sua risposta a Gianni, il quale era rimasto ad ascoltare senza riuscire a comprendere fino in fondo quelle parole, convinto com’era che, oltre la scuola, c’era una società regolata da ben altri principi. Lui stesso poteva testimoniare che nella sua seconda attività, quella di ingegnere, i principi per sopravvivere
e vincere
erano altri. La competizione
- diceva lui - era il vero elemento su cui misurarsi per avere successo. Nella competizione prevale la logica del mors tua vita mea
, secondo cui il mondo si divide in vincitori e vinti, in lotta per le risorse scarse. Quel dialogo fece tornare indietro negli anni Luigi, che aveva ascoltato con grande attenzione le parole di Matteo, e gli offrì l’occasione di pensare a suo padre e sua madre, entrambi insegnanti. Dai suoi genitori aveva imparato, attraverso il loro esempio, molte cose. Ciò che erano riusciti a trasmettergli, più di ogni cosa era, senza alcun dubbio, l’amore per la scuola.
Correvano gli anni sessanta, Luigi non era ancora nato, quando quei giovani maestri operavano nella consapevolezza di contribuire con il loro lavoro a migliorare
il mondo.
Il ’68 non era ancora arrivato. Il ruolo sociale degli insegnanti era dignitoso. Avevano fatto il loro ingresso a scuola proprio in quegli anni, quando la professione docente godeva non certo dell’odierna scarsa considerazione, ma era piuttosto apprezzata, quasi riverita
dalla società civile.
Erano anni quelli di grandi cambiamenti, di speranze, di fatica ma anche di tante soddisfazioni.
L’esempio di quei genitori aveva spinto Luigi, dopo la sua laurea in economia, a scegliere l’insegnamento non considerando lavori sicuramente più remunerativi, anche se meno