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Blu di cobalto
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E-book388 pagine4 ore

Blu di cobalto

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Info su questo ebook

Marianne è la curatrice di un museo londinese, fa il lavoro che ama e sta per sposare Eric. La morte della madre e la scoperta dell'infedeltà del suo uomo turberanno la sua vita. Sconvolta si butterà nel lavoro che la porterà a Vienna, dove conoscerà David, il proprietario di uno storico pub della città. La semplice avventura di una notte, complici una lettera inaspettata e un'eruzione vulcanica che paralizzerà mezza Europa, presto si trasformerà in qualcosa di ben più complicato.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2014
ISBN9788868857110
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    Anteprima del libro

    Blu di cobalto - Merina Frattini

    Merina Frattini

    Blu di cobalto

    Romanzo

    Prologo

    Non esiste via più sicura per evadere dal mondo che l'arte.

    Ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte.

    (Johann Wolfgang von Goethe)

    Sta arrivando, riesco a sentirlo chiaramente. È l’inebriante profumo dei glicini in fiore a dirmi che è li, ormai vicina, pronta ad esplodere nei suoi mille colori.

    È lei, l’estate, che sta cominciando a trasformare il viso della primavera, sua timida sorella, truccandola con i suoi toni caldi e scompigliandole i capelli con la sua calda brezza.

    Il sole inonda tutto il giardino con la sua luce mentre l'aria tiepida lambisce dolcemente i fiori, invitandoli a diffondere tutt'attorno la loro sinfonia di essenze. Le foglie oscillano silenziose sui rami, rifrangendo la luce creano piccoli screzi sui sassi bianchi del viale.

    Lei è in piedi davanti a me, mi guarda dritto negli occhi mentre la sua bocca mi dona il più dolce dei sorrisi.

    I lunghi riccioli castani capricciosamente scomposti le vanno morbidamente ad accarezzare le guance arrossate dal primo caldo. Il sole si specchia nei suoi occhi, esita sulla sua bocca e si va a posare sul piccolo cigno d’argento che luccica appeso al suo collo.

    Cerco di avvicinarmi, ma lei subito si allontana andandosi a sedere sullo spesso bordo di una fontana poco distante. Guardo le sue lunghe dita affusolate sfiorare l'acqua che si increspa docile sotto il suo tocco.

    Non riesco a distogliere lo sguardo da lei, tanto è bello starla a guardare, quando a un tratto lei alza gli occhi verso di me e chiede: «A cosa stai pensando?»

    Era solo un sogno. Non appena apro gli occhi l’immagine della ragazza si dissolve e davanti a me appare il profilo della mia stanza, un’immagine certamente più familiare anche se non altrettanto piacevole.

    Mi strofino gli occhi e mi metto a sedere sul letto, mentre a poco a poco mi sveglio del tutto. Rimango incantato per un istante a pensare a quel volto che solo poco prima mi sorrideva dalla fontana e che invece ora è sparito, così, all’improvviso, con la stessa rapidità con cui svanisce un filo di fumo.

    Anche se il nostro è stato un incontro fugace ho ancora il suo viso stampato nella memoria, nitido, come se fosse qui davanti a me in questo momento. Allungo la mano per prendere dal comodino l'album da disegno, lo apro su una pagina bianca e traccio uno schizzo, cercando di immortalare quello sguardo e quell'espressione così come li ho visti in sogno.

    A poco a poco il viso della ragazza si delinea sulla trama ruvida della carta, regalandomi lo stesso dolcissimo sorriso.

    Osservo il disegno appena realizzato e ho come l’impressione che lei mi stia guardando, imprigionata in un mondo effimero, fatto di pura immaginazione, che prende forma al di là del foglio e nel quale mi trovavo anch’io fino a un istante prima di svegliarmi.

    Ma ora il sogno è finito e comincia per me una nuova giornata, costellata di problemi tutt’altro che immaginari.

    Mi alzo dal letto e faccio per riporre il disegno, ma prima vi appongo la data: 13 Marzo 2010.

    Parte prima

    Il vulcano si risveglia

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    Nelle ultime settimane Eric mi ha ricoperto di mille premure, non voleva neppure che riprendessi subito a lavorare, ma che mi riposassi invece per qualche giorno.

    Non gli ho dato ascolto e mi sono buttata a capofitto nel lavoro, nella vana speranza di tenere occupata la mente riuscendo così a non pensare a quanto sento pesare la mancanza di mia madre.

    Stamattina sono uscita di casa molto presto, lasciandolo ancora addormentato nel nostro letto. Ho preso la metropolitana e ho raggiunto la Fondazione.

    La Smithson Foundation è uno dei più prestigiosi musei privati di Londra. È stato fondato quasi due secoli fa per volere di Sir Bartholomew Smithson, personalità illustre della borghesia dell'epoca, conosciuto a tutti per il suo grande amore per l'arte.

    È qui che lavoro come curatrice ed è qui che ho conosciuto Eric, quattro anni fa, quando sono stata assunta. All'epoca entrai come assistente di Walt Ross, allora curatore della Fondazione.

    Riesco ancora a ricordare il mio colloquio e la grande agitazione che accompagnò quel momento: avevo conseguito la laurea in storia dell'arte da tre mesi ed avevo già sostenuto diversi colloqui, ma nessuno di questi era andato a buon fine. Cominciavo a scoraggiarmi e a pensare che non sarei mai riuscita a trovare un impiego, quando un giorno appresi che alla Smithson cercavano un giovane laureato per ricoprire un ruolo da assistente. Su insistenza di mia madre inviai il curriculum, sebbene fossi pienamente consapevole di avere davvero poche speranze. Accettarono la mia domanda e mi invitarono a presentarmi per la selezione.

    Il giorno stabilito mi recai alla Fondazione che quella mattina era piena di giovani candidati, accorsi non appena si era diffusa la notizia del posto vacante.

    L'attesa fu lunga e snervante. Mano a mano che gli aspiranti lasciavano la sala dove si teneva il colloquio le mie speranze si facevano sempre più fievoli: tanti candidati per un solo posto, no decisamente non ci sarei riuscita.

    Riesco ancora a vedermi, seduta nel corridoio fuori dalla sala riunioni, balzare in piedi non appena sento chiamare il mio nome e con il cuore in gola entrare nella sala per sedermi al cospetto della commissione esaminatrice.

    È stato allora che io ed Eric ci siamo visti per la prima volta, fu proprio lui a condurre il colloquio e a chiedermi cosa mi avesse spinto a fare domanda di assunzione.

    Rimasi immediatamente colpita dalla sua classe e dalla sua eleganza, due qualità che però in quella situazione contribuirono ad accrescere la mia agitazione.

    Qualche giorno dopo quello che ritenevo essere stato il peggior colloquio della mia vita ricevetti una telefonata dalla Fondazione con la quale mi comunicavano che ero stata scelta per il posto. Al colmo della gioia saltai al collo di mia madre che mi guardava con un’espressione incredula stampata sul viso.

    Da allora ne sono successe tante di cose. Walt Ross ha fatto di me la sua allieva affinché potessi prendere il suo posto quando sarebbe arrivato per lui il momento di andare in pensione, cosa che accadde appena un anno e mezzo dopo.

    Anche tra me ed Eric le cose sono cambiate, a poco a poco. È cominciato tutto con un suo invito a cena, sei mesi dopo la mia assunzione. Da quella volta abbiamo iniziato a frequentarci con regolarità e in breve tempo ci siamo accorti che non era solo il lavoro ad accomunarci, ma che tra noi si stava instaurando un legame profondo, sincero.

    Non ci siamo più lasciati e il prossimo lunedì diventeremo marito e moglie. Questa cosa soltanto riesce a donarmi un po’ di serenità, mi fa pensare positivo, dandomi così la forza di reagire e andare avanti. Perché nonostante tutto la vita continua, anche se la morte di mia madre ha incastonato nel mio cuore un dolore persistente che nessuna gioia, neppure la più grande, riuscirà mai a lavare via.

    Il trillo di una e-mail in arrivo mi strappa ai ricordi, davanti ai miei occhi riappare il monitor del computer dal quale la mia attenzione era stata distolta da un breve momento di malinconia.

    Sposto il cursore del mouse sulla piccola icona lampeggiante e apro l’e-mail: è Peter Schmidt, della Schmidt Galerie di Vienna, che mi scrive per inviarmi la documentazione che avevo richiesto, relativa ad una tela che la Fondazione vorrebbe acquistare.

    Mentre scorro le pagine qualcuno bussa alla porta: è Eric.

    «Sei uscita presto stamattina.» osserva.

    «Avevo del lavoro urgente da sbrigare.» gli dico mentre dal computer lancio il comando di stampa.

    Eric mi guarda appoggiato allo stipite della porta.

    «Perché non mi hai svegliato?»

    «Dormivi così bene, non volevo disturbarti.» la stampante emette un ronzio e deposita l’ultimo foglio sul vassoio. Mi alzo e prendo le stampate.

    Eric si avvicina e mi accarezza dolcemente i capelli.

    «C’è qualcosa che non va, Marianne?» mi domanda preoccupato.

    «Credevo che avrei reagito meglio alla morte di mia madre.» dico mentre sento salire le lacrime. «Per quanto i medici mi avessero preparato all’idea di perderla mi rendo conto di aver sperato fino all’ultimo istante.»

    Eric mi prende tra le sue braccia e mi bacia teneramente sulla testa.

    «Ti stai risollevando benissimo invece. Hai ripreso il lavoro e questa è di per sé già un’ottima cosa.» dice guardandomi negli occhi. «Senza contare che tra pochi giorni ci sposeremo.» aggiunge sorridendo.

    Mi scosto appena dal suo abbraccio e gli porgo i fogli.

    «Sono arrivati i documenti che aspettavamo da Vienna.»

    «Perfetto.» dice prendendoli e dando loro un’occhiata sommaria. «Mi sembra che non manchi nulla, credo che possiamo pianificare un incontro a breve.» scosta la manica della giacca e guarda il suo cronografo. «Anzi, credo che contatterò Schmidt immediatamente.»

    Lo guardo sorridermi e aprire la porta, sta per uscire quando improvvisamente si ferma.

    «Un’ultima cosa: ti sei ricordata dell’appuntamento dal notaio?»

    Accidenti, il notaio. «No.» ammetto. «Me ne ero completamente dimenticata.»

    «Lo immaginavo. È alle cinque.»

    La giornata lavorativa scorre come al solito e in men che non si dica si fanno le quattro e mezza, l’appuntamento è tra mezz’ora e ci stiamo recando presso lo studio notarile.

    Sono nervosa, non so cosa darei pur di non trovarmi in questa situazione.

    Lo studio del dottor Winstone è dalle parti di Kennington road, a pochi minuti dalla Fondazione.

    Eric svolta in una via laterale e si ferma davanti a un piccolo portone, una targa d’ottone con il nome del notaio ci conferma che il posto è quello giusto.

    «È qui e siamo perfino in anticipo.» dice gettando una sguardo verso la palazzina.

    «Come vorrei non doverlo incontrare.» è sufficiente la vista di questo posto a mettermi addosso un gran senso di disagio.

    «Lo so, è il genere di cose che si fa sempre malvolentieri, ma tua madre ha lasciato un testamento e il dottor Winstone è il suo consegnatario.»

    Entriamo nel palazzo, in un gabbiotto proprio di fronte alla porta c’è un uomo seduto dietro una piccola scrivania, Eric gli si avvicina e gli chiede dove si trovi lo studio del dottor Winstone.

    «Terzo piano.» risponde l'uomo senza neanche alzare gli occhi dal quotidiano che sta leggendo e che pare aver assorbito tutta la sua attenzione.

    Eric lo ringrazia, ma lui non sembra neanche sentirlo, mi domando cosa ci possa essere scritto di così interessante sul giornale di oggi.

    Una volta raggiunto lo studio veniamo accolti da una giovane segretaria.

    «Buongiorno. In che modo posso aiutarvi?» dice con voce cantilenante, guardandoci da sopra un paio di piccoli occhiali.

    «Sono Marianne Meyer, ho un appuntamento con il notaio.»

    «Accomodatevi pure, vi riceverà tra pochi minuti.» ci dice indicando un paio di poltroncine sistemate poco distanti.

    La sala d’attesa è molto accogliente, elegante e ben curata, esattamente il genere di ambiente che ci si aspetterebbe di trovare entrando in uno studio notarile. Ci sono alcune poltroncine bianche disposte attorno ad un basso tavolino di cristallo, una rigogliosa pianta di ficus addossata alla parete contribuisce ad arricchire l’aspetto formale della stanza.

    Ci sediamo ad aspettare che il notaio ci riceva, irrequieta comincio a picchiettare con le dita sulla borsetta appoggiata sulle mie ginocchia, Eric accenna un sorriso nella mia direzione prima di prendere una rivista dal tavolino e cominciare a sfogliarla senza il minimo interesse.

    «Ho sempre odiato i notai.» dico a bassa voce mangiucchiandomi le unghie. «Tu invece sembri perfettamente a tuo agio, neanche fossi dal dentista.»

    Eric chiude il giornale e mi guarda.

    «Ti sbagli. Se fossi dal dentista sarei tutt'altro che tranquillo. Sai bene che ho una fifa terribile.»

    In questo stesso momento la porta dell'ufficio si apre e compare il dottor Winstone, lo vediamo stringere cordialmente la mano ad un uomo, probabilmente un altro cliente, prima di voltarsi verso di noi e farci segno di entrare.

    Il notaio è un uomo piuttosto basso, sulla settantina, sul suo viso spicca un paio di folti baffi bianchi, mentre i suoi occhi, scuri e piccoli, sembrano due minute gocce di inchiostro dietro gli spessi occhiali da vista.

    Indossa un doppio petto grigio chiaro che mal cela il suo addome prominente.

    «Preferisci andare da sola?» mi fa Eric, esitando per un momento.

    «No, vieni anche tu per favore.» Entriamo nello studio ed Eric chiude delicatamente la porta.

    «Accomodatevi.» dice il notaio indicando un paio di sedie di fronte alla scrivania.

    «Dunque dunque, vediamo un po’ cosa abbiamo qui.» bofonchia prendendo un fascicolo da un’alta pila di scartoffie.

    «Ah sì, il testamento della signora Meyer. Immagino che lei sia la figlia, la signorina Marianne.»

    «Precisamente.» rispondo dopo aver deglutito a vuoto.

    «Visto che lei è l’unica erede della signora Meyer possiamo procedere alla lettura dell’atto testamentario.»

    Il notaio apre la busta che contiene le ultime volontà di mia madre ed inizia a leggere. Come era prevedibile mi ha lasciato in eredità la nostra casa a Notting Hill e le liquidità ammontanti a poco più di dodicimila sterline.

    Lo ascolto in silenzio, quasi senza prestare attenzione alle sue parole, ma desiderando semplicemente che questo supplizio finisca il prima possibile.

    «Questo è tutto…anzi no.»

    All’improvviso il mio interesse si risveglia.

    «C’è dell’altro?»

    «La signora Meyer mi ha pregato di consegnarle anche un’altra cosa.»

    Il dottor Winstone si alza a fatica dalla poltrona e si avvicina ad un armadio intarsiato. Lo apre e ne estrae un plico, per tornare poi a sedersi alla scrivania.

    «Tenga. » dice spingendo verso di me il pacchetto.

    «Cos’è?» chiedo rigirandomelo tra le mani.

    «Sua madre mi ha incaricato solo di consegnarglielo dopo la sua morte e ad avvenuta lettura del suo testamento, ma non mi ha dato alcuna informazione riguardo al suo contenuto.»

    Sbrighiamo le ultime formalità e ci congediamo dal notaio.

    Usciamo dal palazzo e saliamo in macchina, una lieve pioggia sta iniziando a cadere sulla città.

    «Hai visto? Non è stato poi così traumatico.» mi dice Eric, avviando il motore mentre io fisso in silenzio il plico posato sulle mie gambe.

    «Non sei curiosa di vedere cosa c’è dentro?»

    «No, non me la sento ancora di aprirlo.»

    La cabrio di Eric scivola rapida sulla strada, non vedo l’ora di arrivare a casa e rilassarmi un po’, avrei proprio voglia di godermi un bel bagno caldo.

    Improvvisamente il telefono cellulare di Eric comincia a squillare, sul display dell’impianto voce compare il nome di Fred Hallman, suo socio alla Smithson. Preme il pulsante del vivavoce sul cruscotto.

    «Dimmi tutto Fred.»

    «Ti chiamo per la questione del finanziamento che stavamo aspettando.» fa la voce all’altro capo del telefono, rimbombando negli altoparlanti.

    L’espressione sul volto di Eric si fa improvvisamente più attenta. «Ci sono novità a riguardo?»

    «Non buone, sfortunatamente. Ho appena parlato con il dottor Sattler della Sovrintendenza ai beni culturali. Per l’ennesima volta ho cercato di illustrargli l’importanza della sovvenzione statale che avevamo richiesto, ma lui è stato abbastanza irremovibile.»

    «Ce la negano?»

    «Il fatto, Eric, è che al giorno d’oggi la gente visita sempre meno di frequente i musei. La popolazione sta crescendo e ci sono sempre più giovani che però preferiscono andare al cinema, o allo stadio piuttosto. Quel che è certo è che l’interesse per l’arte è minimo, Sattler è stato piuttosto esplicito: la Smithson non attira abbastanza pubblico, quindi per lo stato rappresenta un costo eccessivo ed inutile e non qualcosa di proficuo in cui investire.»

    «Insomma ci vogliono far chiudere.»

    Dall’altoparlante sento Hallman fare un profondo sospiro.

    «Non subito, ma sarà quello il destino della Fondazione, a meno che non riusciamo ad inventarci qualcosa di vincente.»

    Eric rimane in silenzio, lo vedo stringere nervoso i pugni sul volante, so bene quanto la Fondazione sia importante per lui.

    «Dovremo trovare una buona carta da giocare se vogliamo che la Smithson sopravviva.» sentenzia Hallman prima di salutarlo e chiudere la comunicazione.

    Eric è visibilmente contrariato «Dannazione!» esclama dando un pugno sul volante.

    «Farci chiudere solo perché la gente preferisce pagare per vedere una stupida partita di calcio, piuttosto che una mostra d’arte. È un’idiozia!» sbotta.

    «Ci vorrebbe qualcosa di nuovo.» azzardo timidamente io.

    «Le novità sono troppo costose, Marianne, e in questo momento non possiamo permettercele.»

    «Non necessariamente, hai mai sentito parlare del Rakov?»

    «Il museo privato di San Pietroburgo? Certo, è uno dei più prestigiosi.»

    «Sapevi che nel 2007 ha rischiato di chiudere per mancanza di fondi?»

    «Sinceramente no, ma questo cosa c’entra?»

    «Quello stesso anno i curatori del Rakov hanno organizzato un’esposizione particolare, allora unica nel suo genere: hanno deciso di esporre opere di giovani artisti contemporanei poco noti o addirittura sconosciuti, scelti tra i più promettenti dei paesi russi. Il fatto che un museo storico come il Rakov aprisse le porte ad artisti emergenti è piaciuto molto al pubblico. Inutile dirlo, la mostra è stata un successo e il museo è riuscito a sanare la sua precaria situazione finanziaria. Da allora un’ala del museo, che peraltro si è ingrandito, continua ad ospitare regolarmente mostre di giovani artisti, tanto è vero che quell’ala è stata battezzata "Lo spazio giovane".»

    «È un’idea strampalata, Marianne. E poi, anche volendo, non sapremmo neppure da dove cominciare. Credi che sia facile trovare qualche artista davvero valido in giro per l’Europa? Hai idea di quanti ventenni incompetenti con velleità artistiche ci siano sparsi per il mondo?»

    «Potresti cominciare contattando Tim Barker a Manchester, lui saprebbe di sicuro consigliarti. Ha contatti con diverse case d’arte a Parigi, Atene, Roma, Berlino…Non ti ha mai deluso, con lui potremmo andare sul sicuro»

    Eric rimane zitto, il suo sguardo pensieroso è fisso sulla strada. Evidentemente la mia idea non deve essergli sembrata così balzana come invece vuole lasciarmi credere.

    «Va bene, ci penserò su.»

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    Mi sveglio che il sole è già alto, manca una manciata di minuti a mezzogiorno ma per me è come se fosse primo mattino. Non ricordo di preciso a che ora sono andato a letto, comunque credo fossero le tre o giù di lì.

    Mi accade spesso di andare a dormire quando già comincia ad albeggiare, quando ormai sento che la stanchezza mi ha prosciugato le forze fino all’ultima goccia.

    La notte appena passata non ha fatto eccezione: sono tornato a casa sfinito, ma ciononostante non ho resistito alla tentazione. Ho dovuto farlo, mi sono messo a dipingere.

    Ebbene lo confesso, sono un artista. O per lo meno gli altri mi definiscono tale. Personalmente non amo sentirmi chiamare così, l’arte non è il mio mestiere quindi non mi aspetto che qualcuno paghi un biglietto solo per vedere i miei dipinti. Nessuno si vanta di avere uno dei miei quadri appeso nel salotto, a parte i miei genitori ovviamente.

    L’arte per me non è una professione, ma semplicemente un modo per essere me stesso, un mezzo d’espressione. Dipingo ogni volta che ne ho voglia e devo dire che questo accade davvero molto spesso.

    Trovo che ogni momento della giornata sia quello buono per dipingere o anche solo per disegnare; ogni volta che nella mente mi balena un’idea o che davanti agli occhi mi scivola un’immagine che in qualche modo riesce a conquistarmi, immediatamente sento il bisogno irrefrenabile di concretizzarla, di carpirla, di impossessarmene catturandola nella ruvida trama della carta. È per questa ragione che ho sempre con me un album da disegno e dei carboncini.

    Immagini, questo è tutto ciò di cui vado in cerca. Non importa che siano reali o fittizie, tristi o gioiose, l’unica cosa che conta è che mi conquistino, che mi scuotano fin nel profondo.

    Realtà o, al contrario, sogni: ecco cosa ritraggo più di frequente nei miei quadri.

    I sogni li ho sempre trovati affascinanti e pericolosi al tempo stesso. Alcuni sbiadiscono al risveglio in modo talmente repentino da non venire neppure ricordati, effimeri come il bagliore del fulmine; altri invece risultano talmente reali da farti svegliare nel cuore della notte, incapace di distinguere il sottile confine tra realtà e immaginazione. Alcuni sogni ritornano, si radicano dentro fino a divenire una vera e propria ossessione.

    È proprio questo ciò che mi è accaduto: da un mese a questa parte non trascorre notte senza che la sogni.

    Sogno lei, la ragazza della fontana. Sogno il suo sorriso, i suoi occhi che ormai mi appaiono così familiari, senza sapere tuttavia chi ella sia e soprattutto se esista davvero oppure no.

    Ogni notte la vedo sorridere, allontanarsi da me e alla fine pormi quella domanda, sempre la stessa: "A cosa stai pensando?".

    Durante il giorno ho nostalgia di lei, mi sorprendo a pensare a lei mentre giro per la città e comincio stupidamente a cercare il suo viso tra quello dei passanti.

    Penso a lei mentre sono a lavoro, nutrendo l’ardente speranza di rivederla in sogno di lì a poco; speranza che, per mia fortuna, non viene mai delusa.

    Qualcuno potrebbe credermi pazzo, ma io sono pienamente convinto che ci sia una spiegazione più che plausibile a tutto questo. Non può trattarsi del semplice frutto della mia fervida immaginazione, deve esserci stato un momento in cui le nostre vite si sono sfiorate, in qualche modo, in qualche posto, magari anche solo per un istante.

    Il cervello non inventa le immagini, le rielabora, le incolla, le cuce assieme in una sorta di fotomontaggio, subdolo e intrigante.

    Un sogno è fatto proprio di queste immagini, alcune ci possono lasciare indifferenti, ma altre ci possono colpire e segnare indelebilmente.

    Le mie giornate procedono così. Seguendo ormai una sorta di copione,

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