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Io scrivo
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E-book397 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Il capitolo conclusivo della vicenda di Edwin Chester.

Un insegnante di matematica sconvolto da una rivelazione.

Un ex politico schiacciato dal senso di colpa.

Una donna cui è dato di vedere cose che gli altri non vedono.

Un tormentato percorso di redenzione e di perdono, che giunge a compimento attraverso la scrittura. E sfocia nella risposta alla serie di domande che la voce narrante si pone all’inizio del romanzo:Che cosa trasforma un essere umano in uno scrittore? Cosa spinge una persona a trascorrere giorni, mesi, anni, magari perdendoci il sonno, a riempire pagine e pagine, violentando la propria fantasia, intrecciando trame complesse, concependo finali imprevedibili? In sintesi, perché si scrive?
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2012
ISBN9788867517879
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    Anteprima del libro

    Io scrivo - Fabrizio Nava

    FABRIZIO NAVA

    IO SCRIVO

    Youcanprint Self-Publishing

    Copyright © 2012

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0832.1836509

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo | Io scrivo

    Autore | Fabrizio Nava

    Copertina a cura dell’autore

    ISBN | 9788867517879

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    IO LEGGO

    (BREVE ELOGIO ALLA LETTERATURA)

    Edwin, è ora!

    Io leggo. Di tutto. Ma soprattutto romanzi. Di qualunque genere ed epoca, dal giallo al noir, dal gotico al fantasy, dai classici agli emergenti… Mi piace. Da dopo il liceo.

    Prima detestavo leggere. Se non altro perché ero costretto a farlo, senza che nessuno me ne spiegasse il motivo, o mi facesse comprendere l’importanza che la letteratura avrebbe potuto avere nella mia vita. E proprio chi avrebbe dovuto farlo (la mia cara prof di lettere delle superiori) non era certo la persona più indicata per un compito tanto cruciale e delicato: impreparata, approssimativa, confusionaria, per giunta antipatica, e non priva di una certa peluria nera sul volto olivastro.

    Spesso, durante le spiegazioni, sembrava assente; oppure era come stesse recitando (male) un copione mandato a memoria, un ruolo che non le apparteneva per nulla. Rammento ancora con raccapriccio le sue noiosissime e sconclusionate lezioni!

    Perché non basta raccontare quattro cose alla bell’e meglio, e poi imporre di leggere questo e studiare quello, per essere degli insegnanti. Il vero insegnante (non solo in ambito scolastico) propone, non impone; non ostenta superiorità né arroganza per via della posizione che occupa, al contrario, si pone in un atteggiamento di servizio, addirittura di umiltà, nei confronti di chi lo ascolta. E, soprattutto, le sue parole non piovono dall’alto della sua cattedra. Egli è profondamente convinto di ciò che insegna, ne rende testimonianza, dà l’esempio. Altrimenti non è credibile, e la sua dottrina cade nel vuoto. Ecco, se chiudo gli occhi, mi pare di vedere, al termine della lezione, le vane parole della prof sparse qua e là per il pavimento dell’aula, destinate ad essere calpestate dagli studenti nell’andirivieni del cambio dell’ora, e infine spazzate via dagli addetti alle pulizie, nella desolazione dei banchi vuoti e delle lavagne, spesso, imbrattate inutilmente.

    Poi, finalmente, il liceo è terminato, e con esso il periodo delle letture obbligate. Ed è stato allora che, per mia fortuna, ho cominciato a comprendere. A comprendere che la letteratura è vita, la letteratura è bellezza, la letteratura è amore. Sì, perché, come ogni altra espressione artistica, essa è creazione, e l’atto creativo è ciò che maggiormente ci rende simili al Divino, che più ci riavvicina a Colui il quale (per chi, come me, crede) è amore, è fonte di vita e origine della bellezza che ci sta intorno. Ma più d’ogni altra forma d’arte, la letteratura accomuna l’artista, l’autore dell’opera, a chi l’opera la fruisce, lo scrittore al lettore. Perché, come ama dire un amico letterato, il lettore, leggendo, diviene autore egli stesso, nel momento in cui interpreta, rivive, fa propria la vicenda narrata. In tal senso, la letteratura è unica: essa moltiplica l’atto creativo dell’artista, elevato all’ennesima potenza dall’intervento attivo del suo pubblico.

    Ma sarebbe un discorso lungo, e questa non è la sede più adatta per affrontarlo in maniera appropriata…

    Edwin! Ci sei caduto, in quel water?

    Appunto.

    Ho quasi fatto!

    Mi piace leggere, stavo dicendo. Ma il tempo è quello che è. Dunque, fatta eccezione per il periodo delle ferie estive, mi riduco a leggere la mattina, in bagno, abitudine peraltro ereditata da mio padre, che trascorre intere mezzore (come dice lui) in seduta.

    E così, per terminare un libro, mi ci possono volere anche dei mesi. Ma a volte mi soffermo fino alla fine di un capitolo. O mi spingo a sbirciare le prime frasi di quello successivo.

    Come ora, con il romanzo di Pennac che ho tra le mani.  

    Scriviamo per farla finita con noi stessi, ma con il desiderio di essere letti, non c’è modo di sfuggire a questa contraddizione. È come se annegassimo urlando: Guarda, mamma, so nuotare!. Quelli che gridano più forte all’autenticità si gettano dal quindicesimo piano, facendo il tuffo d’angelo: Vedete, sono soltanto io!. Quanto a sostenere di scrivere senza essere letti (tenere un diario, per esempio), significa spingere fino al ridicolo il sogno di essere contemporaneamente l’autore e il lettore.{(*)}

    Edwin! È tardi!

    Arrivo, Kate!

    Spesso, questa mia consuetudine mi fa ritardare. E, come sempre, mia moglie mi richiama all’ordine. Anche perché stamattina devo accompagnare i miei studenti in gita, e il pullman parte tra… Porca…! Meno di dieci minuti?!…

    Eccomi qua!

     Mentre il motore si avvia, ancora mi sento addosso gli sguardi carichi di rimprovero dei colleghi che partecipano alla gita, e persino dell’autista del pullman, per la mezzora di ritardo da me causata. Per non parlare dell’impazienza dei ragazzi…

    Ad ogni modo, appena partiti, le ultime frasi di Pennac lette poc’anzi, mi ritornano con prepotenza alla mente. E una serie di domande mi assale. Che cosa trasforma un essere umano in uno scrittore? Cosa spinge una persona a trascorrere giorni, mesi, anni, magari perdendoci il sonno, a riempire pagine e pagine, violentando la propria fantasia, intrecciando trame complesse, concependo finali imprevedibili? In sintesi, perché si scrive?

    SGOMENTO

    Il riverbero delle fiamme invade senza indugio la penombra del bar, dove una trentina di avventori siedono di fronte alla loro consumazione, tra le chiacchiere e il fragore di qualche risata. Tutti spensierati, almeno all’apparenza. Tranne il sottoscritto.

    Nonostante si tratti solamente delle immagini del tiggì di mezzanotte, e il rumore di fondo del locale quasi impedisca alle parole del telecronista di raggiungermi, ho come l’impressione di udire distintamente il crepitio dell’incendio. Non solo, mi sembra quasi di avvertirne il calore sulla pelle, e l’odore acre della plastica bruciata pare insinuarsi prepotentemente nelle mie narici. Tuttavia nessuno intorno a me si direbbe condividere le mie sensazioni. Forse la gente è sempre più indifferente, o forse, semplicemente, io solo mi sono reso conto di che cosa sia successo veramente. Ma… possibile che nessuno dei presenti la conoscesse?

    Intanto, il mezzobusto riconquista il primo piano, informando che l’incendio, "sviluppatosi un paio d’ore fa, è stato domato prima che potesse estendersi alle costruzioni circostanti, peraltro collocate a distanza sufficiente da consentire ai vigili del fuoco di svolgere agevolmente la loro opera. Alla fine, dunque, solo gli alberi più vicini sono stati attaccati dalle fiamme e, ciò che più importa, non risulta vi siano state vittime".

    Poi qualcuno cambia canale. Ma le immagini del rogo, come impresse nella retina, continuano a riproporsi davanti ai miei occhi. Sono sconcertato. E mi ci vuole qualche minuto per riprendermi.

    Lascio sul tavolo il denaro per la birra, consumata solo a metà, e mi affretto a tornare a casa.

    Appena arrivato, cerco freneticamente la rubrica.

    (Ma dove diavolo è finita? Possibile che quando ti serve qualcosa con urgenza non la trovi mai al suo posto? Ah, eccola! Dunque, vediamo…)

    Con il cuore sulla punta delle dita, compongo il numero telefonico, e resto in attesa, trattenendo il fiato.

    Lascio suonare per circa un minuto.

    Nessuna risposta.

    Riprovo.

    Niente.

    Riaggancio. E rimango lì, immobile.

    Lo squillo del telefono mi sorprende mentre ancora sto tenendo la mano sulla cornetta. È quasi l’una. Chi può essere a quest’ora? Che sia lei?

    Pronto?

    Ma è una voce maschile quella che giunge alle mie orecchie dall’altro capo del filo, accompagnata da un evidente imbarazzo. Scusa l’orario, Edwin, ma ho ritenuto giusto informarti. Mi risulta che la conoscessi…

    Nessun problema, Klaus: ero ancora sveglio. Cosa è successo? Chi è che dovrei conoscere?

    Ma prima ancora che il commissario Klaus Treu mi spieghi il motivo della chiamata, nella mia mente comincia a delinearsi un presentimento…

    Non so quanto tempo sia trascorso dall’istante in cui ho riagganciato.

    Non è possibile che tutto ciò sia realmente avvenuto! Mi pizzico più volte le guance, per verificare che non si tratti semplicemente di un sogno. Niente. Nessun risveglio giunge a salvarmi dalla situazione. Dunque, è tutto vero? E se è così, cos’altro devo aspettarmi?

    Ma forse è meglio cominciare dall’inizio…

    RIESUMAZIONE

    Oltre un anno è trascorso da quel fatidico giorno.

    Ricordo come fosse ieri l’espressione costernata dipinta sul volto del Presidente. Mi ero ormai abituato a vederlo così, privo del consueto sorriso. Ma lo sguardo con il quale mi accolse in quella circostanza tradiva una profonda apprensione, che subito mi fece pensare al peggio. Anche se mai avrei potuto immaginare ciò di cui, di lì a poco, sarei venuto a conoscenza. Ad ogni modo, non si sarebbe detto che quella del Presidente fosse solo una fotografia, e sinceramente stentavo a credere che si trattasse della medesima fotografia di sempre.

    Sotto di lui, il commissario Klaus Treu sedeva alla scrivania di fronte a me, il viso adombrato come non mai. Vagava con lo sguardo per la stanza, come a rincorrere le parole giuste da dire, per spiegarmi il motivo che lo aveva indotto a convocarmi nel suo ufficio. Alla fine, tratto un profondo sospiro, esordì con un nome: Akhil Schwartz.

    Il sangue mi si gelò nelle vene.

    Akhil… Schwartz?, balbettai.

    Esattamente. Hai capito bene.

    Che c’entra Akhil Schwartz?, chiesi con un fil di voce. Il commissario non sentì.

    Ascoltami bene, Edwin. Mi rendo conto che quanto sto per dirti potrebbe sconvolgerti ma, credimi, è meglio che tu lo sappia da me.

    Tentai di muovere le labbra per domandare a Klaus di che accidenti stesse parlando, ma dalla mia bocca non scaturì alcun suono.

    Pensavamo che Akhil Schwartz non avesse parenti in vita, continuò il commissario dopo un secondo sospiro che parve non finire mai. Al suo funerale, oltre due anni or sono, non si era presentato nessuno. E invece, circa un mese fa, è saltato fuori un certo Leo Schwartz, medico in pensione, nonché cugino di Akhil, e precisamente figlio del fratello del padre. Trasferitosi in Africa poco dopo la laurea, vi ha svolto l’intera sua attività professionale, dedicandosi ai più bisognosi. Oramai settantenne, di recente ha fatto ritorno in patria. Unico parente di Akhil rimasto in vita, venuto a sapere della sua morte, ha richiesto di poterne trasferire la salma nella tomba di famiglia, presso il cimitero della sua cittadina d’origine, a una ventina di chilometri da qui. La richiesta è stata accolta. Tre settimane fa è avvenuta l’esumazione, alla presenza di Leo Schwartz. La bara originale presentava dei danni, che la rendevano non idonea al riutilizzo. È stato necessario estrarre il cadavere e sistemarlo in una nuova cassa. In quegli attimi, si è potuto vedere il corpo. Naturalmente quel che rimaneva dei tratti del viso non presentava più nulla di riconoscibile, ma d’altra parte erano passati anni da quando i due cugini si erano incontrati l’ultima volta. Tuttavia il medico, che poi ha rivelato di essere un ortopedico, ha notato qualcosa di strano: una gamba risultava più corta dell’altra… Edwin, tutto bene?

    Notai lo sguardo allarmato che Klaus mi rivolse, mentre avvertivo ogni parvenza di colore abbandonare progressivamente il mio volto.

    Forse ti impressionano questi discorsi?, ipotizzò.

    Tutto bene, mentii, e lo esortai a proseguire. Ma il mio improvviso malessere non era certo da attribuire alle macabre pratiche evocate dal mio interlocutore.

    "Una gamba più lunga dell’altra, dicevo. Qual era il termine esatto? Dismetria degli arti inferiori, se non sbaglio. E ha aggiunto che una tale anomalia può ricondursi ad un difetto congenito o potrebbe essere la conseguenza di una poliomielite. Ma, a suo dire, le gambe del cugino erano perfettamente normali. In altri termini, secondo il medico, quello che era stato riesumato non era il corpo di Akhil Schwartz! Qualcun altro doveva essere stato sepolto al posto suo."

    Proprio come immaginavo. Klaus smise per un attimo di parlare, forse per osservare la mia reazione. Subito prese a girarmi intorno, sempre più in fretta. E con lui l’intera stanza. Serrai gli occhi. Mi sentivo mancare, ma mi sforzai di resistere. Tutto sommato, non potevo credere, non volevo credere, che quanto stavo ascoltando corrispondesse a verità. E mi aspettavo che, da un momento all’altro, il commissario scoppiasse a ridere, rivelandomi che si era trattato solo di uno scherzo. Sebbene non sarebbe stato da lui scherzare su un argomento simile.

    Quando riaprii gli occhi, Klaus era tornato al suo posto, fermo di fronte a me. Ma la sua espressione seria non lasciava spazio a dubbi. E così le sue parole. Visti i trascorsi di Akhil Schwartz, è stato disposto l’esame del DNA, e il cugino non ha avuto nulla in contrario. Proprio questa mattina mi hanno comunicato il risultato. L’ortopedico aveva ragione: non è stata riscontrata alcuna parentela biologica. Si trattava del cadavere di un’altra persona. Dunque, per quel che ne sappiamo, Akhil Schwartz potrebbe essere ancora vivo. E noi abbiamo dovuto riaprire il caso. Schwartz risulta al momento ricercato per i motivi che tu ben sai. Mi dispiace, avrei preferito non dirti nulla…

    Mi rivolse uno sguardo di imbarazzo misto a compassione, e aggiunse qualcosa del tipo sarebbe stato peggio se la notizia fosse trapelata, e tu lo avessi saputo dai giornali. Ma non sono certo che abbia detto proprio così. In quel momento stavo precipitando. Il terreno su cui posavo i piedi era improvvisamente franato, e io cadevo nel vuoto. Ebbi la sensazione di urlare.

    Non ricordo cosa successe poi. Ad un certo punto, mi ritrovai a vagabondare per la città, intento a dipanare la matassa delle immagini che avevano preso ad aggrovigliarsi nella mia mente. Fotogrammi di momenti felici trascorsi con mia madre e mio padre. Il volto di Akhil Schwartz per come lo rammentavo all’apice della sua carriera. Il terribile incidente che costò la vita ai miei genitori. Quello che fino ad allora avevo ritenuto essere il corpo esanime di Schwartz, disteso su un gelido tavolo d’obitorio. La tomba dei miei e la meravigliosa fotografia che li ritrae entrambi con il loro radioso sorriso. La tomba ora vuota di Akhil Schwartz, e quest’ultimo, libero chissà dove, a farsi beffe della giustizia e del sottoscritto.

    Giunsi a casa in preda allo sconforto. Quando, più tardi, mia moglie Kate rincasò a sua volta, si accorse alla prima occhiata che qualcosa in me non andava. Le raccontai ciò che avevo appreso al commissariato. Lei fece il possibile per tranquillizzarmi (e avrebbe continuato a farlo nelle settimane successive, instancabilmente). Invano.

    Fu solo l’inizio. Da quella notte, una serie di incubi cominciò a tormentarmi, incubi sempre diversi, ma che si concludevano immancabilmente nello stesso modo: avevo sollevato il lenzuolo che copriva il cadavere di Akhil Schwartz, all’obitorio, quando all’improvviso egli riprendeva vita, si alzava a sedere e, rivolgendomi un’occhiata sinistra, scoppiava in una lugubre risata. E io mi svegliavo di soprassalto, in un lago di sudore, il cuore a percuotermi rabbiosamente il petto. 

    Ben presto, a quel genere di sogni se ne aggiunse un altro, un incubo che, per la verità, mi era ben noto. La scena si svolgeva nella solitudine di un parco, durante una notte sconvolta da un violento temporale. Una giovane donna veniva stuprata da uno sconosciuto, che poi si dileguava indisturbato. Un sogno che aveva iniziato a turbare le mie notti fin dall’età di vent’anni, e che solo dopo la presunta morte di Akhil (quasi venticinque anni più tardi) era poco a poco uscito di scena. Ma eccolo ora riemergere prepotentemente dal mio subconscio, per consegnarmi un carico di inquietudine ancor più ingente di allora.

    Cosa diavolo mi stava succedendo?

    Ritornai a oltre due anni prima, allorché Akhil Schwartz era comparso fugacemente nella mia vita, riportando alla luce una vecchia questione che ritenevo sepolta per sempre. Alla fine, la supposta morte di Schwartz aveva rimesso a posto le cose. Ora, però, quanto rivelatomi da Klaus Treu riesumava quella medesima questione. Ed era come se una profonda ferita da poco rimarginata si fosse dolorosamente riaperta, riprendendo a sanguinare più di prima.

    L’effetto di tutto questo stava cominciando a manifestarsi esteriormente. Angoscia. Inquietudine. Il mio volto si era visibilmente incupito e sovente mi chiudevo in me stesso. Spesso e volentieri mi dimostravo intrattabile, mi irritavo per un nonnulla. Inutile dire che la prima a farne le spese fu Kate, che mi doveva sopportare quotidianamente (ancora oggi ignoro a quale inesauribile fonte attingesse la sua infinita pazienza). Per non parlare dei rischi corsi al lavoro (insegno matematica in una scuola superiore). In più di un’occasione mi trovai coinvolto in accese discussioni con il Preside, per i motivi più disparati. Un giorno ero sul punto di mandarlo a quel paese, quando mi squillò il cellulare. Un tizio che aveva sbagliato numero. Riagganciò, scusandosi. E mi impedì di finire nei guai in quel frangente. Ma chissà quante altre volte sarebbe potuto accadere. Per fortuna, mancava ormai soltanto una manciata di giorni alla fine dell’anno scolastico. Mi ripromisi di risolvere i miei problemi nel corso delle vacanze estive.

    Ma i giorni trascorrevano inesorabili senza che riuscissi ad intravedere la più flebile luce in fondo al tunnel.

    E così passò un mese, poi un altro e un altro ancora.

    Una notte, l’ennesimo incubo mi strappò al sonno. La gola mi bruciava e grondavo di sudore. Gettai un’occhiata alla radiosveglia sul mio comodino: le tre e quarantacinque. Con cautela, per non svegliare mia moglie, scivolai fuori dalla stanza, guidato dal chiarore argenteo che filtrava dalla finestra.

    Una rinfrescata e un buon bicchiere di acqua del rubinetto, e il mondo mi apparve migliore. Quando tornai in camera, la luce era accesa. Seduta sul letto, la schiena contro la testata e le gambe distese, Kate mi guardava con occhi assonnati. Capitava spesso, ahimè, che le mie notti tormentate svegliassero anche lei. Eppure non smise mai di condividere il letto con il sottoscritto. In quell’istante mi chiesi come potesse resistere, e dovetti ammettere che, al suo posto, già dopo qualche giorno me ne sarei andato a dormire sul divano, in sala.

    Kate sorrise, forse indovinando i miei pensieri. Vieni qui, mi pregò con la più soave delle voci.

    Mortificato per l’ennesimo risveglio subito a causa mia, con il capo chino mi andai a sedere accanto a lei, dalla sua parte del letto. Dolcemente, mi pose un dito sotto il mento, invitandomi a sollevare il volto.

    Ci ho pensato a lungo, Edwin, disse guardandomi dritto negli occhi. E ho capito qual è la soluzione.

    Cosa? Non ero certo di aver sentito bene.

    Ricordi Jack Franzini?

    Mi ci volle un po’ per riprendermi.

    Ma certo! Più ci riflettevo e più mi rendevo conto di non avere alternative. Che idiota! Come avevo fatto a non arrivarci da solo?

    Consapevole dell’impossibilità di riprendere sonno, ringraziai Kate con un bacio e me ne andai in cucina, il cuore colmo di trepidazione. Cinque minuti dopo, una tazza di latte caldo tra le mani, uscii sul balcone e, mentre la città era avvolta nel sonno, iniziai a pensare al modo in cui mettere in pratica il suggerimento di mia moglie.

    AKHIL

    1.

    In un tardo pomeriggio di primavera, uscito da un infimo locale alla periferia della città, Akhil Schwartz prese a camminare lungo il marciapiedi, appoggiandosi di tanto in tanto alla parete al suo fianco. Avanzava lentamente, con il passo strascicato e la schiena curva, come se un peso insostenibile gravasse sulle sue spalle. Le profonde rughe scavate sulla fronte, le occhiaie scure al di sotto degli occhi spenti, i capelli lunghi striati di bianco e la barba incolta lo facevano apparire assai più vecchio dei suoi sessantasette anni. Sebbene un tempo fosse stato un volto noto al pubblico, ora, in quelle condizioni, nessuno lo avrebbe riconosciuto, e sarebbe passato inosservato persino tra coloro che più gli erano stati vicini.

    La situazione di Akhil perdurava da mesi. E in tutto quel tempo, era sempre rimasto solo. Così come lo era ora, per la strada, dove cominciavano a far capolino le prime ombre della sera.

    Completamente isolato dal mondo esterno, lo sguardo smarrito rivolto al marciapiede pochi metri avanti a sé, l’uomo procedeva mosso da una volontà ignota, che sembrava guidarlo verso una meta ben precisa.

    D’un tratto, un rumore ritmico lo distolse dal suo torpore. Un rumore dapprima indefinito, che poteva assomigliare al ticchettio di un orologio, ma che via via crebbe d’intensità fino ad assumere una connotazione ben precisa: passi! Dietro di lui doveva esserci qualcuno.

    Che mi stiano seguendo?, disse tra sé.

    Akhil si voltò lentamente, continuando a camminare. Nessuno! Ma il rumore non cessava. Aumentò l’andatura. Anche i passi alle sue spalle presero a susseguirsi più rapidi. Si guardò di nuovo indietro. E questa volta gli apparve la sagoma di un uomo, distante non più di una ventina di metri.

    E se fosse lui?

    Akhil svoltò in un vicolo, e si fermò a ridosso della parete, in attesa. Simultaneamente, il rumore di passi cessò, subito rimpiazzato, nella percezione di Akhil, dal suo battito cardiaco, che era andato accelerando nel frattempo, e ora gli martellava con insistenza nel petto. Trascorsi alcuni istanti senza che nulla accadesse, Akhil fece per sporgersi dal vicolo. E se lo ritrovò davanti. Era proprio lui, l’uomo che aveva preso a tormentarlo da qualche tempo. Gli compariva dinnanzi nei momenti più impensati, fissandolo a lungo in silenzio, con uno sguardo penetrante, quasi impossibile da evitare, dal quale si sentiva interrogato nel profondo. Sembianze famigliari trasparivano dal volto di quell’uomo, tuttavia Akhil non era in grado di attribuirgli un nome. Così, senza un motivo preciso, gli aveva affibbiato l’appellativo di signor N. A fatica, riuscì a coprirsi il viso con le mani.

    Non posso andare avanti così, non posso, ammise con se stesso. Devo trovare una soluzione. Ad ogni costo.

    Quando tornò a guardare, il signor N era scomparso.

    Akhil ripiombò nel suo isolamento. Uscì dal vicolo e riprese a camminare, un passo dopo l’altro, meccanicamente, senza rendersi conto del trascorrere del tempo. Quando si fermò, il buio era ormai calato. Si ritrovò al centro di una grande piazza, illuminata da alcuni lampioni disposti in cerchio. Alla sua sinistra, si ergeva imponente il Cimitero M., le cui soglie erano ormai chiuse ai visitatori. Dall’altra parte, una roulotte rosa priva di ruote, sistemata su quattro blocchi di cemento, costituiva la meta di una decina di persone, disposte ordinatamente in fila davanti alla porta chiusa. Alla vista della roulotte, come folgorato da una rivelazione, Akhil estrasse di tasca un biglietto da visita, e si mise a scrutarlo alla luce del più vicino lampione. Una scritta: Teresa – Piazza Cimitero M.; e il disegno di una roulotte identica a quella che si trovava di fronte a lui.

    Teresa…, sospirò l’uomo tra sé.

    E in un attimo il motivo della sua presenza lì gli apparve chiaro. La sua mente ritornò a qualche giorno prima, mentre si trovava in uno dei tanti localacci di periferia per i quali si era andato trascinando dal momento in cui, alcune settimane addietro, aveva fatto ritorno dal suo viaggio. Seduto davanti a quella che ultimamente costituiva la sua sola compagna (una bottiglia di whisky ormai vuota), Akhil giaceva semiaddormentato, con il capo abbandonato sul tavolino e le braccia penzoloni a sfiorare il pavimento sudicio. Ma ciò che intravide attraverso il vetro chiaro della bottiglia lo ridestò di colpo, facendolo rizzare in piedi. Capelli lunghi nerissimi avvolti in un foulard di seta rosa, due grandi orecchini ad ornare i lobi sottili, occhi verdi e carnagione olivastra, una donna di rara bellezza, sui quarantacinque anni, si stava dirigendo con decisione verso di lui, il volto illuminato da un intenso e caldo sorriso. La camicia bianca, i cui lembi erano annodati poco sopra la vita, lasciava scorgere l’ombelico, al di sotto del quale una lunga e coloratissima gonna sembrava danzare al ritmo sinuoso del suo passo. Ma che diavolo ci faceva una creatura simile in un posto così squallido?

    Fermatasi di fronte a lui, la donna iniziò a muovere le labbra.

    Mi chiamo Teresa. Tu sei Akhil Schwartz, vero? Il famoso politico, o meglio, ex politico.

    Ci volle un po’ prima che il suono delle parole giungesse alle orecchie di Akhil. E quando ciò accadde, rimase di sasso. Nessuno l’aveva mai chiamato con il suo nome da quando era tornato.

    So che non stai passando un bel periodo. Io posso aiutarti, se vuoi. Vieni a trovarmi.

    Teresa gli porse il biglietto da visita, e subito se ne andò. Akhil, incapace di muoversi, poté solamente seguirla con lo sguardo mentre guadagnava l’uscita del locale, accompagnata dall’ampio movimento della gonna. Una sensazione inspiegabile divampò in lui per un breve attimo, una sensazione di pace.

    Forza, tocca a te!

    Una voce gentile alle sue spalle lo riportò al presente. Si ritrovò di fronte alla porta aperta della roulotte.

    Devo essermi messo in coda senza rendermene conto, concluse tra sé. E chissà da quanto tempo sono qui…

    Akhil si voltò in direzione della voce che lo aveva cordialmente sollecitato. Era un giovane, sulla ventina, completamente calvo e pallido in volto. Una strana luce dominava i suoi occhi, che osservavano Akhil con profonda curiosità, forse nel tentativo di indovinare la ragione della sua presenza lì. Dal canto suo, Akhil parve intuire la situazione del giovane, e per un attimo un velo di tristezza gli oscurò il volto. Ma subito il suo sguardo passò oltre, incrociando fugacemente quello degli altri individui, uomini e donne, giovani e meno giovani, che nel frattempo erano sopraggiunti e attendevano pazientemente il loro turno. In

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