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Prendo il tuo corpo: Romanzo
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E-book325 pagine4 ore

Prendo il tuo corpo: Romanzo

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Info su questo ebook

Una storia d'amore senza precedenti.

Altrimenti non era un Dio.

Ah! Io mi sono persa tra i labirinti cerebrali. Uscita dal mio corpo, tenevo gli occhi fissi all'ectoplasma che mi assomigliava e mi sembrava fossi io. Ma, lo era davvero? Il mio cervello, rugoso, spugnoso, grigio, mi fu asportato e fu deposto in un recipiente trasparente, laddove giace.
É morto. Il mio corpo fu allontanato dal fulcro del mio pensiero ed agganciato ad un altro cervello, che aveva perso il suo corpo. La mia anima, vestita delle mie sembianze vaga forse nell'infinito? Vaga forse nell'infinito anche la sembianza di chi si prese il mio corpo? Chi sono io? Esisto, o sono soltanto ricordo? Le cellule uovo attendono nei frigoriferi per essere fecondate. Gli spermatozoi sono pesati, valutati, quantificati, scelti. L'embrione umano si forma nel vetro, cresce ed è impiantato nell'utero di una donna, ricevendone la linfa che un altro utero non potrebbe dargli. Intanto il mio corpo riceve linfa da un cervello che non è mio. Quanti odori, pressioni, suoni, fragili composizioni di cellule sono divenute patrimonio di una nuova vita?  
Ed è viva chi perse il suo corpo, seppellito, mangiato dai vermi, destinato a scomparire mentre io, che le regalai un corpo, vago nel nulla alla ricerca della mia morte fisica? Mio figlio ha trovato una madre e le cellule uovo saranno donate. La nostra divinità, creandoci, aveva già chiaro quale essere sarebbe divenuto il suo Adamo?
Doveva esserne cosciente, altrimenti non era un Dio.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2015
ISBN9788892504295
Prendo il tuo corpo: Romanzo

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    Anteprima del libro

    Prendo il tuo corpo - Bianca Fasano

    PRENDO IL TUO CORPO

    Un corpo, un cervello.

    Copertina realizzata da Valentina D'Aiuto

    ​PRESENTAZIONE

    Dopo avere letto il romanzo della scrittrice Bianca Fasano " Prendo il tuo corpo (Un corpo, un cervello) ", non si può poi tornare a guardare le quotidiane cose con l’occhio un po’ pigro di prima.

    E questo sebbene i media oggi ci bombardino di notizie che mettono alla prova la nostra fede in realtà che ritenevamo certe, eredità dalla nostra infanzia; sebbene internet pulluli di pseudo - scienziati pronti a guidarci attraverso arzigogolati sentieri, spinti dal desiderio di una comprensione olistica di ciò che ci circonda, per poi lasciarci tristemente spaesati davanti alla pagina di un sito che vorrebbe venderci la crema tachionica che ringiovanirà la nostra pelle; sebbene insomma oggi non faccia certo clamore la teoria alternativa e scioccante, ma ahimè se ne è fatto un commercio a volte venuto a noia.

    Non rimaniamo indifferenti invece a questo scritto, e questo essenzialmente perché il libro è una storia, che non tocca la cognizione e non vuole convincere, ma tocca la nostra parte viscerale ed emotiva, ed in essa istilla le domande, i dubbi, domande e dubbi che, vissuti nella magia della narrazione diventano nostri così come non potrebbero se spiegati da una rivista scientifica.

    Come se non bastasse il calore emotivo che ci coinvolge man mano che proseguiamo nello sfogliare le pagine, c’è da aggiungere che in un’era in cui la scienza si sforza di dimostrare come le colonie di batteri che vivono nel nostro corpo possano influenzare, attraverso una simbiosi sviluppatasi in milioni di anni, i nostri comportamenti, le proposte di riflessione del romanzo si calano alla perfezione in tematiche più che calde.

    Cosicché, consci di non trovarci propriamente all’interno di un romanzo di pura fantascienza, viviamo con i personaggi tutto il loro percorso fino anche al loro capogiro nell’affacciarsi sull’abisso d'incertezza, siderale abisso, al quale arrivammo giocando ad essere Dio, e nel quale forse ritroviamo il nostro bisogno di un Dio. Un Dio nuovo, trasformato, dove le scritture vanno riscritte o meglio re-interpretate.

    L’atavica domanda Chi siamo? Viene trasposta in dove siamo? nel senso di quali sono i luoghi della nostra essenza? è essa confinata in una materia? In uno spazio? Esiste davvero un'essenza (un’anima?) che possa essere messa in relazione ad un io? O anima e materia sono infine un continuo divenire per cui i pronomi cessano di avere un senso? Non possiamo anche questa volta non ricordare che la scienza del nostro millennio si apre con uno slancio nuovo nella ricerca di una definizione di coscienza. Ormai superato l’errore di Cartesio, per citare il famoso neuroscienziato Antonio Damasio, ci chiediamo se sia essa contenuta in una complessa rete di neuroni, se si estenda all’organismo nel suo insieme, o addirittura, come vogliono gli esternalisti, anche a ciò che circonda il nostro corpo e lo plasma di memoria, o infine se sia contenuta in infinitesimi maccanismi raccoglitori delle informazioni prime, che determinano la nostra essenza e che, in forza di coerenze ed entanglement quantistici, determinano le scelte del mondo biologico dalla sintesi di proteine fino alla conseguenza macroscopica in termini di comportamento ed evoluzione.

    Nel fluire delle nuove domande che s'inanellano attraverso intrighi e colpi di scena, c’è una costante forse? Potrebbe essere il desiderio di possesso e controllo di questa nostra essenza e di quella altrui, o potrebbe essere invece il sentimento dell’amore… O essi stessi non sono che l’indistinta emanazione di una gretta realtà dove materia si nutre di materia?

    Lascio a voi la scelta della risposta una volta che avrete letto il libro. Solo un umile suggerimento: occhio alla Madre. Che essa sia una cellula trapiantata, un ricordo vago d’infanzia, un profumo che trascende materia e significato, occhio alla Madre.

    Fabrizio Fasano, Fisico, impegnato da più di dieci anni nella ricerca Neurocientifica, fondatore e AD di NeuroComm srl.

    Altrimenti non era un Dio.

    Ah! Io mi sono persa tra i labirinti cerebrali.

    Uscita dal mio corpo, tenevo gli occhi fissi all'ectoplasma che mi assomigliava e mi sembrava fossi io. Ma, lo era davvero? Il mio cervello, rugoso, spugnoso, grigio, mi fu asportato e fu deposto in un recipiente trasparente, laddove giace.

    E' morto. Il mio corpo fu allontanato dal fulcro del mio pensiero ed agganciato ad un altro cervello, che aveva perso il suo corpo. La mia anima, vestita delle mie sembianze vaga forse nell'infinito?

    Vaga forse nell'infinito anche la sembianza di chi si prese il mio corpo? Chi sono io? Esisto, o sono soltanto ricordo? Le cellule uovo attendono nei frigoriferi per essere fecondate.

    Gli spermatozoi sono pesati, valutati, quantificati, scelti. L'embrione umano si forma nel vetro, cresce ed è impiantato nell'utero di una donna, ricevendone la linfa che un altro utero non potrebbe dargli. Intanto il mio corpo riceve linfa da un cervello che non è mio. Quanti odori, pressioni, suoni, fragili composizioni di cellule sono divenute patrimonio di una nuova vita?

    Ed è viva chi perse il suo corpo, seppellito, mangiato dai vermi, destinato a scomparire mentre io, che le regalai un corpo, vago nel nulla alla ricerca della mia morte fisica?

    Mio figlio ha trovato una madre e le cellule uovo saranno donate. La nostra divinità, creandoci, aveva già chiaro quale essere sarebbe divenuto il suo Adamo? Doveva esserne cosciente, altrimenti non era un Dio.

    La prima parte di questo romanzo risale a molti anni fa: battuto a macchina, lasciato in sospeso, crioconservato come un embrione, ha preso vita soltanto recentemente, in una donna che era abbastanza matura da farlo nascere.

    PRENDO IL TUO CORPO

    (Un corpo, un cervello).

    Il cervello.

    La notte di ottobre era di un nitore perlaceo, le stelle splendevano lucenti nel buio del cielo. Sulla strada, resa brillante dal chiarore dei lampioni, una figuretta di donna camminava lentamente e quasi automaticamente, mentre il suo pensiero era altrove, oltre il conosciuto, oltre il visibile. Un'aura d'irrealtà sembrava circondare la donna diffondendosi nell’atmosfera.

    Si fermò quasi di scatto davanti a un portoncino, trasse dalla borsetta una chiave e con essa lo aprì, mettendo in luce un piccolo vano in cui sparì. Le scale circolari che si presentarono davanti non avevano luce. Riprese a salire lentamente, gradino dopo gradino, come se i muscoli non rispondessero del tutto ai comandi.

    Al primo piano, ansando, si fermò, attese che il respiro si facesse più ritmico e che il cuore smettesse di saltarle nel petto, prima di aprire la porta della sua abitazione.

    Appena dentro, cercò, con gesto frutto dell’abitudine, l’interruttore della luce La violenza improvvisa del chiarore le fermò sul viso un’impressione sofferente.

    Chiuse per un momento gli occhi, nel riaprirli guardò l’ambiente che la circondava, che le divenne estraneo, come se lo vedesse per la prima volta, o forse per l’ultima.

    Durò poco, poi le cose ripresero l’aspetto che le era familiare. L’arredamento era tutt'altro che moderno. Comprendeva tra l’altro un vecchio divano a fiori, una poltroncina di pelle nera, un tavolino e un grosso armadio di vecchio stile che occupava la parete opposta alla porta.

    La donna si sfilò il leggero cappotto autunnale con meticolosità esasperante, nel far questo tolse un filo bianco dalla manica e lisciò le pieghe della fodera grigia, quindi appese l’indumento all'attaccapanni. Avviandosi verso il piccolo studio tirò più giù la camicetta sui magri fianchi e poi scostò dal viso una ciocca ribelle appuntandola sulla testa con una forcina. I capelli erano l’unica cosa che trovava bella del proprio corpo: erano lunghi e di un nero quasi blu.

    Accostò una sedia alla scrivania in noce e vi si sedette lentamente, come se il farlo le costasse un grande sforzo fisico. Restò ferma qualche istante, tenendo tra le dita magre una penna stilografica d’oro, poi cominciò a scrivere:

    - "Due donne. Un corpo, un cervello. Muti gli occhi, mute e fredde le labbra, sordo tutto l’essere a ciò che avviene intorno. Muore un inutile corpo di fango ma la Mente rinasce a nuova vita . - Dopo avere scritto queste poche righe con grafia piccola e diritta, sembrò essersi stancata. Il suo sguardo parve smarrirsi, appoggiò la testa sulle braccia incrociate e scoppiò in singhiozzi. Il mattino assolato la trovò sveglia, con gli occhi lucenti come per febbre. Nelle lunghe ore notturne aveva affrontato problemi nuovi, cui aveva potuto trovare una soluzione, anche se parziale, nel proprio io. Cercando una risposta ai suoi dubbi, la donna trovava il coraggio di affrontare l’ignoto che l’attendeva. Quella donna si Chiamava Barbara Lettieri, aveva trent’anni ed era destinata alla morte. Il suo corpo, minato da un male inesorabile, consumava le ultime energie vitali. Tuttavia la Mente era sana e non riusciva ad accettare l'idea dell'annientamento, della fine. Vagava, come la stella di una galassia sconosciuta, in un chiarore indistinto, a tratti sperava di avere trovato il perché della sua fine e la forza mentale necessaria ad accettarla, ma subito dopo questa convinzione raggiunta tanto difficilmente, il perché le sfuggiva di nuovo e senza pace, si torturava col suo dilemma. Quel suo razionale cervello, che aveva appreso a pensare con calma alla morte degli altri, voleva un’ultima possibilità e per ottenerla accettava un altro corpo ed una vita incredibile, pur di non morire. Un cervello, in cerca di un corpo sano; l’io che per esistere aveva bisogno della materia, non era altro che un Mostro estraneo anche al suo ragionamento. Ricordava i volti di tanti esseri che si erano rivolti a lei per un verdetto. Ricordava quegli stessi volti raggrinzirsi e impallidire nel dolore. Aveva presente il terribile attimo del passaggio tra il vivere e l’essere morti nello sguardo di esseri umani che avevano creduto in lei. Era la dottoressa". Non aveva mai prestato fede ad una scienza quanto in quella medica, nella chirurgia, e abituare se stessa all'ineluttabilità della morte era stato l’esame più impegnativo sostenuto durante tutta la sua carriera, malgrado ciò, posta di fronte all’annientamento della propria personalità, non aveva saputo accettarla con altrettanta freddezza. Forse, se fosse stata credente, l’idea di un mondo aldilà l’avrebbe aiutata, con il pensiero di un’anima d’eternità, ma aveva vissuto sempre e soltanto con una forte coscienza scientifica, per cui preferiva l’altra possibilità, ossia un intervento mai tentato che aveva dell’incredibile e del fantascientifico, pur di restare viva. Al suo cervello sarebbe stato destinato un altro corpo.

    Un organismo sano, capace di farle continuare la sua carriera, per far sì che altra gente fosse salvata dalla sua intelligenza, che avrebbe mosso però altre mani. Non sue. Altre mani! Come avrebbero operato altre mani? Questa era soltanto una, delle mille incognite presenti nel risultato che ci si attendeva dall'intervento cui si sarebbe sottoposta. Sapeva bene che l’operazione in sé non rappresentava che il primo passo verso una possibile salvezza. Parziale o totale. Lo sapeva, giacché lei stessa aveva fatto parte di equipe per interventi eccezionali e, come chirurgo specializzato in chirurgia ricostruttiva, aveva eseguito il trapianto di una mano, un duplice trapianto di braccia e persino un trapianto di faccia. Aveva lavorato con lo stesso team formato da trentasette persone tra anestesisti, immunologi e personale sanitario, che si alternavano nel corso di ore ed ore d'interventi complessi, simili a quello che sarebbe toccata a lei come paziente, mentre l’organizzazione dell’equipe e la gestione interdisciplinare, oltre ai momenti più difficili dell’intervento sarebbero spettati a Vittorio, conosciuto come uno dei principali chirurghi al mondo capace di effettuare operazioni di tale difficoltà. I suoi pazienti, dopo la conclusione della crescita dei nervi, erano stati in grado di lasciare l'ospedale in non meno di cinque settimane e tutti avevano dovuto, appena condotto a termine l’intervento risultato tecnicamente riuscito, affrontare un calvario: quello del post operazione, in cui si sarebbe appurato se e quanto il corpo sarebbe stato in grado di accettare i nuovi elementi o se invece si sarebbe profilato un rigetto.

    Le terribili crisi di rigetto erano, difatti, in agguato . In realtà si trattava di segnali che l'organismo inviava al corpo in presenza di quello che lui considerava essere un corpo estraneo, non riconosciuto dal sistema immunitario, programmato, appunto, per riconoscere elementi estranei. Non le riusciva di dimenticare quanto era accaduto a lei ed al collega con una mano trapiantata oltre undici anni prima su di un paziente, uno dei fortunati che aveva ricevuto in Italia un trapianto dell'arto presso la clinica dove lei lavorava.

    Dopo anni di cure, proprio lei aveva dovuto decidere, insieme al paziente (visto che le crisi di rigetto erano diventate troppo frequenti, pericolose e soprattutto inarrestabili), di amputare l’arto trapiantato, a causa del timore che si potesse instaurare una setticemia. Difatti, le robuste iniezioni di cortisone non avevano ottenuto effetto, per cui a quel punto, per evitare rischi di cancrena e di setticemia, avevano dovuto decidere che l’intervento fosse l’unica soluzione.

    In quel caso si era poi optato per una protesi bionica, impiantata a poche settimane dall’intervento demolitivo, in quanto il recupero dell'arto, infatti, aveva riattivato le funzioni nelle aree cerebrali legate al movimento. Per lei, se l’intervento fosse andato male, non ci sarebbe stata nessuna protesi bionica: sarebbe morta; se fosse invece sopravvissuta, il monitoraggio e le cure avrebbero dovute perdurare praticamente per tutto il resto della vita, ed essere in particolare concentrate su nervi, muscoli e vasi sanguigni, che avrebbero avuto il compito di integrarsi con parti che a loro sarebbero risultate estranee. Ricongiungere due pezzi del sistema nervoso centrale, una volta che fossero stati separati, non era cosa semplice. Il nuovo cervello, cioè, qual ora non si connettesse col vecchio midollo spinale, determinerebbe la stessa situazione che si ha nei pazienti tetraplegici: paralisi e insensibilità di tutto il corpo. Il problema sarebbe nato dunque dalla necessità di restituire al tronco encefalico la capacità di porsi in contatto con il resto del corpo, dopo il trapianto, ed il massiccio trattamento con le cellule staminali. In realtà l’assoluta novità del suo intervento consisteva proprio nell’utilizzo delle staminali, ossia cellule primitive non specializzate, dotate della capacità di trasformarsi in diversi altri tipi di cellule del corpo, attraverso un processo di differenziamento. Il primo trapianto di cervello al mondo ed anche il primo che avrebbe avuto possibilità di successo per l’impiego di cellule staminali cerebrali, attraverso una serie d’iniezioni sia a livello del tronco encefalico che del midollo spinale lombare, ciascuna di un volume di quindici millesimi di millilitro, contenenti in totale poco meno di cinque milioni e mezzo di cellule staminali cerebrali. Tutto ciò avrebbe portato ad un primitivo stato di tetraplegia che, nel corso di un periodo non quantificabile, ma decisamente sperimentale, le avrebbe dovuto, nel tempo, restituire, oltre all’attività cerebrale ristretta alla sola testa, anche quella necessaria ai movimenti ed a renderle una vita normale.

    Solo al superamento di questo periodo critico si sarebbe potuto comprendere se l’intervento fosse effettivamente riuscito oppure no, e capire, quindi, se a lei sarebbe toccata una vita in tutto o in parte normale, l’inferno di un cervello pienamente cosciente in un corpo morto o, nel migliore dei casi verrebbe fatto di pensare, la morte.

    I tempi di recupero sarebbero stati in ogni caso lunghi, qualora l’intervento si potesse dire riuscito, lei avrebbe potuto tornare a camminare non prima di otto mesi, tempo necessario alla ricrescita dei nervi, alla ricostituzione-guarigione della circolazione sanguigna, alla trasformazione delle cellule staminali in cellule atte a fare da ponte tra il cervello ed il corpo ed alla indispensabile riabilitazione.

    Tuttavia, benché lei, da medico, fosse pienamente cosciente di quante incognite le riservasse l'avvenire, doveva smettere di pensarci. Era necessario che trovasse qualcosa che la distraesse da quel pensiero ossessivo.

    Alla Clinica si sarebbero meravigliati di vederla. Sapevano cha aveva chiesto tre mesi di permesso per malattia. Una di quelle cose stupide che si fanno per obbedire alla burocrazia. Certamente, se nulla fossa mutato, sarebbe morta prima di qualche mese. Si alzò con cautela dalla poltrona su cui aveva trascorso le ore notturne, per andare in cucina. Nel frigorifero c’era il caffè della sera prima, lo riscaldò e lo bevve senza sentirne neanche il sapore, soltanto per tenersi desta.

    -Mi converrebbe fare colazione, magari bere un uovo -

    Pensò, ma la sola idea la disgustava. Ricordò le sue medicine: sapeva che dopo averle prese si sarebbe sentita più forte, almeno per un po’e giudiziosamente le ingoiò, una dopo l’altra. Con mani esperte si fece da sola l’iniezione nel muscolo del gluteo e nel giro di qualche minuto cominciò a sentirsi meglio. Non sarebbe durato molto, ma le faceva comodo. Con la mente rivolta altrove, si dedicò lentamente alle solite pulizie della mattina, finché tutta fu in ordine, poi indossò il cappotto e usci. Per spostarsi doveva attendere un pullman, era tanto che si proponeva di comprare una macchina, ma la sua salute l’aveva costretta sempre a desistere e oramai questo problema non aveva più importanza! Chissà se dopo avrebbe potuto. Non appena l'autobus arrivò, prese posto sul sedile più facilmente raggiungibile, contenta di aver trovato un posto per sedere. I muscoli, che di solito le dolevano al più piccolo sforzo, li sentiva più elastici grazie al farmaco. Sarebbe durato fino alla prossima iniezione.

    -Se guardo questi corpi sani, provo invidia per chi li possiede. Non sanno cosa vuol dirà la sofferenza! Ed io convivo con lei da troppo tempo. Non sono belli questi fisici, ma funzionano come delle macchine costruite bene, e questo mi basterebbe. Chissà invece come sarà Lei. Mi sono rifiutata di conoscerla! Potrebbe essere grassa o senza forme come quella signora che stringe la borsa della spesa sul grosso petto. Oppure come quell'altra, leggermente ingobbita, che si regge al mio sedile. Ma cosa importa? È vitale e che non debba più sentirmi inutile come adesso. Che lo spettro della morte sia allontanato da me.-

    Questo pensava Barbara, mentre i suoi occhi guardavano fuori dal finestrino, senza vedere niente.

    Il corpo.

    Il camerino dell'attrice era pieno di fiori, gli abiti di scena, abbandonati su poltrone di raso, parevano le spoglie dei personaggi interpretati. Un grande specchio, attorniato di luci e fotografie rifletteva l'immagine di una donna slanciata, bionda, dal volto intenso illuminato da grandi occhi verdi. Indossava un abito nero, molto attillato e senza maniche da cui uscivano, armoniose, le braccia candide, il collo lungo e snello e il volto, dall'ovale perfetto. L’attrice si mosse con gesto elegante, tirando su con le mani i lunghi capelli e fermandoli sulla nuca con forcine dorate. Dopo un poco guardò che ora segnava l'orologio che portava al polso e dovette pensare di essere in ritardo, perché impresse ai suoi gesti più velocità. Passò sul volto un cerone spesso e intenso, che potesse sfidare anche le luci del palcoscenico, truccò gli occhi con ombretto viola, fatto questo si alzò per verificare l’insieme. L’abito era lungo fino alle caviglie e lasciava scoperte soltanto le scarpine argentate, ma un lungo spacco partiva all'altezza della coscia sinistra, mettendola in evidenza ogni volta che la donna accennava ad un passo o ad un inchino. In quel momento un rapido bussare alla porta attirò la sua attenzione. Entrò un ragazzo dall'aria eccitata che disse:

    -Signora Boero, tocca a lei! In teatro c’é il tutto esaurito!-

    La donna lo ringraziò con un sorriso ed il ragazzo andò via, chiudendo delicatamente la porticina rosa confetto. Nadia Boero si fermò al centro della stanza, come se un pensiero imprevisto l’avesse bloccata: davanti ai suoi occhi, d’improvviso, era apparsa come una nebbia bianca e lei con una mano fece un gesto vago nell'aria, come se potesse scacciarla, poi cercò un appiglio, come se stesse per cadere, trovando sotto la mano lo schienale del divanetto. Si lasciò cadere su di esso nel momento in cui non poté più reggersi in piedi. Trascorsero pochi minuti prima che Nadia potesse riprendere i sensi, ma, non appena le forze le tornarono lei, si affrettò a rialzarsi, controllandosi poi allo specchio per rassicurarsi di non avere un aspetto malato. Il pallore del volto era nascosto dal pesante strato di cerone, ma a lei sembrava che tutti dovessero notarlo. Dalle belle labbra sfuggì un sospiro di desolazione. Era a conoscenza della causa di quei disturbi, in proposito il medico non le aveva nascosto nulla. Lanciò a se stessa nello specchio un altro sguardo e sorrise, dapprima con sforzo e poi sempre più spontaneamente, finché fu certa di aver del tutto recuperato il suo sangue freddo, poi si avviò verso la porta per fare il suo ingresso in scena. La prima impressione che provò, nel mostrarsi sul palcoscenico, fu quella, terrorizzante, di avere davanti a sé un teatro vuoto. Le luci impedivano ai suoi occhi, già appannati, di vedere qualcosa al di là della coltre luminosa; l’aveva accolta un silenzio assoluto. Ecco che pochi istanti dopo, scoppiò un applauso fragoroso, che sembrava provenire dal nulla, placando la sua ansia. L’insieme dl centinaia di mani, con i palmi che si urtavano tra dl loro, volevano donarle il calore di un affettuoso benvenuto, e questo calore la pervase di una gioia vivida e violenta. Per la prima volta nella sua vita d’artista non trovava le parole per ringraziare il suo pubblico. S’inchinò, lasciando che il suo corpo parlasse per lei, col fascino che sapeva sprigionare anche soltanto con un movimento delle belle braccia. Poi finalmente parlò:

    -Grazie! Vi ringrazio tutti per essere intervenuti questa sera! Certamente sarete al corrente del fatto che questa rappresenta probabilmente la mia ultima apparizione in teatro. Spero ardentemente che il mio ricordo resti impresso nei vostri cuori per molto tempo ancora.-

    La voce le venne meno e un fiume di lacrime presero a scorrere sul volto, creando un solco nero sul resto roseo del fondo tinta. Gli applausi scrosciarono e fiori multicolori le volarono intorno. Non riusciva più a parlare, non ricordava più le parole tanto accuratamente preparate dal suo manager. In quel momento il suo intuito d’attrice le disse che loro non volevano altro. Restò ancora ferma, sotto lo sguardo affettuoso del pubblico, prima di lasciare la scena per far sì che la commedia in programma cominciasse. . Nessuno, nemmeno colui che più l’amava e che più le era stata accanto, poteva comprendere in pieno lo stato del suo animo quella sera. Nessuno del suo pubblico comprese che la grande attrice stava recitando in quell’occasione una commedia brillante per nascondere un dramma.

    Il cervello.

    La Clinica, benché fosse stata costruita decenni prima, appariva con un aspetto moderno, forse perché l’architetto che l’aveva progettata aveva avuto una mentalità molto più avanzata rispetto all’epoca in cui era stato chiamato a crearla. La costruzione si alzava notevolmente dal suolo, con le mille aperture curve ed i muri ricoperti di smalti e pannelli di marmo rosa. L’ingresso, cristallo fumé e metallo, dava una percezione di grande pulizia ed ordine. Barbara, come sempre le accadeva, provò una grande sensazione d'intima gioia nel sentirsi parte di quell’ordine e di quella pulizia. Uno degli infermieri assegnati all’Accettazione Sanitaria – Emergenze, l’accolse con un sonoro: - "Buongiorno dottoressa!"- E lei ricambiò il saluto. Erano circa otto anni che lavorava in quella Clinica, fondata nel

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