Teleroromanza. Mezzo secolo di sceneggiati & fiction
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Info su questo ebook
Oreste De Fornari, critico cinematografico, ha pubblicato libri su Sergio Leone, Walt Disney, François Truffaut, oltre al recente Classici americani e ha curato un volume su Il sorpasso di Dino Risi. Membro per alcuni anni della Commissione Cinema presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, collabora con la Rai da lungo tempo come autore e conduttore televisivo, quasi sempre in coppia con Gloria De Antoni.
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Anteprima del libro
Teleroromanza. Mezzo secolo di sceneggiati & fiction - Oreste De Fornari
fiction
Presentazione
di Raffaele La Capria
Anni fa, invitato a far parte della commissione giudicatrice di un concorso per l’assunzione di nuovi funzionari televisivi, mi capitò di leggere un considerevole numero di dattiloscritti, coi temi dei candidati. Fu una lettura faticosa, non solo perché fatta a ritmo serrato per rispettare i tempi, ma soprattutto perché gli «elaborati» (come li chiamavamo) erano scritti per la maggior parte nella lingua delle scienze umane male apprese e mal digerite all’università, che li rendeva ostici, inutilmente concettosi e pretenziosi. Uno solo di quegli «elaborati» mi parve miracolosamente immune da quella abusata terminologia e tanto brillante da ripagarmi della noia provata fino a quel momento. Era una ricerca sugli sceneggiati televisivi condotta da tre punti di vista incrociati: quello letterario (in rapporto all’opera da cui erano stati tratti), quello cinematografico (in confronto alla versione cinematografica dello stesso soggetto, se c’era), e quello televisivo (rispetto agli altri sceneggiati dello stesso tipo prodotti dalla televisione).
Fui subito colpito dalla qualità dei giudizi espressi e dalla qualità della scrittura, pervasa da una lieve ironia sempre precisa e intransigente. E ricordo che suggerii all’autore, Oreste De Fornari, conosciuto in quell’occasione, di trarre dalla sua ricerca una trasmissione culturale che rendesse visibili i tre punti di vista da lui considerati. Sarebbe stato interessante vedere la stessa scena realizzata al cinema e alla televisione e commentarla conoscendo le varianti rispetto all’originale letterario. Sarebbe stato interessante sentir citare, a proposito di uno sceneggiato, Auerbach o Debenedetti, così come lui faceva, quasi di sfuggita e senza farlo troppo pesare. Sarebbe stato interessante ricordarsi al momento giusto di aver letto bene i propri testi, e poter dire (nel commento) che Franco Rossi nell’Odissea televisiva «usa le voci di dentro (dell’eroe che ricorda o degli dèi che gli parlano) in modo tale che il suo Ulisse confina con l’Ulysses
» o che Sandro Bolchi, quando fa leggere «la sventurata rispose» fuori campo sulle immagini di Gertrude che dalla finestra risponde a Egidio, «ottiene il risultato di trasformare un archetipo di concisione in un esempio di stile pleonastico». E così via.
Sarebbe stato interessante fare un simile programma, dicevo, in un momento in cui «il rapporto della televisione con la sua memoria sta(va) migliorando» e la televisione cominciava a parlare di se stessa non più soltanto per fornire il pretesto a un’imitazione o a una scenetta di varietà.
Quel programma da me suggerito non si fece, ma per fortuna De Fornari ha ripreso la sua ricerca di allora, l’ha rivista, aggiornata, riscritta, e ce la presenta in questo volume, cui do il benvenuto. Sia pur «lacunoso e impressionistico», a me il suo libro non sembra affatto «superfluo» come teme l’autore. Lui sa che «i letterati non amano la televisione e in particolare aborriscono il teleromanzo», ma da letterato (oltre che da uomo di cinema) vuol forse riparare in qualche modo a quel disamore, e perciò, nonostante il suo illuminismo, non si vergogna di citare a proposito di Majano i versi: «Non vergognatevi delle lagrime / Non vergognatevi delle lagrime, o giovani cuori!».
Certo, leggendo questo libro uno si domanda se si può trattare il casuale eterogeneo avvicendarsi delle scelte televisive (che avvengono secondo il gusto o il capriccio di questo o quel regista, il criterio o la strategia di questo o quel funzionario) come se si trattasse dell’organico sviluppo delle forme espressive di una letteratura. E se quella monotonia che si avverte nella successione di titoli e personaggi e trame televisive possa già configurarsi come storia, o debba attendere ancora perché si possa dirlo.
Lo stesso De Fornari sembra essere cosciente di questo e mentre scrive il suo libro si chiede: «Ne varrà la pena? Una volta sembrava inutile perfino conservarli, gli sceneggiati». Io credo che ne valga la pena, anche se per ora conviene accontentarsi della approssimativa tipologia da lui offerta, che distingue tra sceneggiati «all’antica italiana», «di qualità», «d’autore», e «quasifilm», e disegna una mappa delle tendenze: «popolare», «accademica», «sperimentale», «colossale», corrispondente a modi di produzione, stili, gusti diversi. E credo che ne valga la pena anche perché il suo è un libro sulla nostra televisione finalmente piacevole a leggersi, e divertente. Ecco, per esempio, un ritratto di Majano: «Ex ufficiale di cavalleria… Majano intuisce subito che l’universo della cultura di massa è uno, e lo percorre in lungo e in largo, al galoppo». E a proposito delle sue sceneggiature: «Gran folla di vip nei saloni parigini, dove si intrecciano malignità e convenevoli: – Simpatica serata, vero Flaubert? E voi, Sainte-Beuve, che cosa ne pensate del giovane Bizet?
». Non v’è dubbio che le simpatie di De Fornari vanno a Majano, e anche se riconosce la «grandezza» di Bolchi, non gli va troppo a genio «la sua anima cattolica, quaresimale, perfino giansenistica», né che lui «si fidi molto delle parole, poco dei fatti e niente dello spettatore», perché nei suoi sceneggiati «le parole, come al solito, hanno l’ultima parola».
Come Majano e Bolchi, definiti «i due titani» dello sceneggiato, così gli altri registi sono rapidamente e causticamente sistemati: «Più enfant gâté che enfant terrible Giorgio Albertazzi… semina suspense abusivo e soprattutto non fa che ripetersi». Nel Jekyll «non ha rispettato né dissacrato: a volte è l’indecisione che genera i mostri». E Gregoretti nel Circolo Pickwick «si esprime in pickwickiano, come i tromboni che prende in giro». In lui «c’è un’ironia un po’ da cabaret, esposta a invecchiamento precoce». Nel pedagogico Rossellini televisivo si assiste al «trionfo della Storia sulla story». Franco Rossi, nell’Eneide, «se non più poeta di Virgilio, è certamente più poetico». Gli effetti speciali di De Bosio, nel Mosè (definito un «kolossal interruptus»), sono «tanto indigenti da compromettere la plausibilità dei miracoli». Il Gesù di Zeffirelli «difetta insieme di realtà e di irrealtà». Nel Sandokan di Sollima «turismo e avventura legano male». Di Nocita «si può dire che è insieme calligrafico e bozzettistico» oppure, come scriveva Manzoni del suo anonimo, «rozzo insieme e affettato». Solo per l’Orlando di Ronconi e la sua «scomplessata apoteosi del teatro filmato» c’è un’adesione senza riserve: «Non sapremmo dire se stiamo assistendo a un rito teatrale o vivendo un’illusione televisiva. Il dubbio talvolta è delizioso». E, giustamente, per Comencini, che ha riscritto Cuore «non come è veramente, ma come ci piace ricordarlo», e che in Pinocchio sa essere fedele all’originale ricreandone un equivalente, senza mai cadere in quella «insensata fedeltà» (letterale) che è stata l’ossessione di tanti volonterosi registi, come Bolchi, ad esempio, o come lo stesso Rossellini che racconta gli Atti degli Apostoli «con immagini moderne e parola accademica», quando invece sarebbero occorsi «dialoghi più infedeli, in tutti i sensi».
Ecco, è questa scrittura «intelligente» che rende piacevole a leggersi e divertente il libro di De Fornari. Dov’è che non sono d’accordo con lui? Su Diario di un maestro di Vittorio De Seta, che meritava forse maggiore attenzione perché è una specie di esperimento «dal vivo» che solo la televisione poteva mettere in atto, in cui si segue il progressivo apprendimento scolastico di un gruppo di ragazzini osservati a uno a uno nella loro evoluzione, così come a volte in un documentario osserviamo un fiore rapidamente sbocciare sotto i nostri occhi. Non sono inoltre d’accordo su Cristo si è fermato a Eboli, che a me pare una bella invenzione cinematografica e insieme televisiva tratta da un libro che sembrava irriducibile sia per il cinema che per la televisione. Ammetto che non avrei dovuto dirlo, visto che uno degli sceneggiatori del libro di Levi sono stato io stesso, però, già che ci sono, aggiungo senza imbarazzo che forse De Fornari avrebbe potuto ricordare anche la serie dei Racconti italiani da me curata, non solo perché in una monografia sullo sceneggiato televisivo ci sarebbe stata bene, ma perché (a parte i risultati non sempre soddisfacenti) quella serie ruppe la preclusione che fino a quel momento era esistita verso la nostra narrativa contemporanea, e dimostrò che la misura breve del racconto poteva offrire un ottimo materiale per una trasposizione televisiva. Fu allora che i racconti di Soldati, Cassola, Bassani, Petroni, Del Buono, Tecchi, Dessi, Tobino, eccetera, passarono in televisione e aprirono la strada agli altri.
Ma nonostante queste piccole divergenze e trascurabili omissioni, a lettura finita il libro di De Fornari, almeno a me, si è rivelato anche sotto un altro aspetto: non più quello di una ricerca sugli sceneggiati, ma di una «recherche» in quella specie di memoria collettiva che la televisione ci fabbrica giorno per giorno dagli ormai lontani anni Cinquanta, dove i nomi di Majano e di Bolchi e di tanti attori e personaggi acquistano la particolare risonanza del nostro «tempo perduto», dei nostri «Television Days».
Excusatio
Avete presente l’amico che arriva a teatro ferratissimo sul testo e poi muore dalla voglia di segnalarvi le varianti abusive introdotte dal regista? Ebbene, temo di essere come lui, un delatore di infedeltà veniali.
A essere sinceri, nelle lunghe ore trascorse nei sotterranei della Rai, a tu per tu con i vecchi sceneggiati, più che un pedante mi sentivo un censore, ultimo erede di una genia di cacciatori di streghe, inquisitori maccartisti e zdanoviani, moralisti di provincia. Mi sembrava di rivivere le loro stesse eccitazioni, disappunti, perplessità. Da buon persecutore avevo una vittima preferita: la mia bestia nera era Sandro Bolchi, quello dei Promessi sposi prima versione. A differenza degli altri registi, Bolchi può vantare un alibi di ferro, l’assoluta fedeltà agli originali: perciò è difficile commentarlo, accusarlo, perdonarlo. Il critico si sente inutile e diventa dispettoso.
Il proposito comunque non era censorio, anzi perfino ludico. Dietro al giudizio universale (Majano tra i passionali, Bolchi tra gli ignavi, Albertazzi tra i superbi), si dovrebbe intravedere una specie di caccia al tesoro crossmediale, tra pagina, schermo e teleschermo, in cerca di piaceri del testo e di «specifici» un po’ chimerici: ciò che cinema, letteratura e tv possono dirci coi loro propri mezzi.
Ne varrà la pena? Una volta sembrava inutile perfino conservarli, gli sceneggiati, tanto che un dirigente ne ha fatto distruggere più di cento, tra sceneggiati e commedie, per alleggerire i magazzini e recuperare il nastro magnetico: non rivedremo più I giacobini, Demetrio Pianelli… Ma oggi che il rapporto della televisione con la sua memoria sta migliorando, una monografia sullo sceneggiato, sia pure lacunosa e impressionistica, non dovrebbe sembrare del tutto superflua. È stata scritta, tra l’altro, nella speranza che ai registi di teleromanzi succeda come a quelli di melodrammi e commedie all’italiana, quando finalmente ci si è accorti che sono stati un po’ autori anche loro, con un posto non marginale nell’immaginario collettivo.
A proposito del rapporto dell’azienda radiotelevisiva con la sua memoria è d’obbligo ricordare il poderoso lavoro di riordinamento dell’archivio audiovisivo e fotografico compiuto, a partire dal 1997, dalla Direzione Teche Rai, diretta da Barbara Scaramucci, che ha reso consultabile oltre un milione di ore di televisione e di radio (per maggiori informazioni si può andare al sito internet www.teche.rai.it). A questo si aggiunga la possibilità, da qualche anno, di acquistare copie in dvd di quasi tutti i romanzi sceneggiati (vedi più avanti alle voci filmografia televisiva e videografia). Non è difficile comprendere quale enorme opportunità tutto ciò rappresenti, oltre che per gli studiosi e gli autori di programmi televisivi, anche per gli autori presenti e futuri di fiction, in cerca di modelli cui ispirarsi e con cui confrontarsi criticamente.
Ho ripreso qualche pagina da una mia ricerca per la Rai del 1979 e da due articoli apparsi rispettivamente sul catalogo del festival di Gabicce del 1988 e sul «Patalogo Tre» del 1981. A Raffaele La Capria va tutta la mia gratitudine per avere a suo tempo segnalato e incoraggiato la ricerca. Sono inoltre debitore di aneddoti, testimonianze, aiuti a consultare il materiale e prestiti di libri, agli indimenticati Anton Giulio Majano e Ludovico Alessandrini, e a Carlo Orichuia, Fabio Storelli, Francesco Pinto, Paola Debenedetti, Luciana Catalani, Enrico Ghezzi (per le sue Schegge
ho curato nel 1989 un’antologia di sceneggiati, intitolata La tv dell’Ottocento), Filippo Porcelli, Eugenio Buonaccorsi, Marco Salotti, Maurizio Imbriale, Valeria Moretti, Valeria Paniccia, Fania Petrocchi e soprattutto a Gloria De Antoni, che ha videoregistrato per me in orari impossibili. Con lei ho realizzato e condotto Romanzo popolare un programma di incontri con i protagonisti dei teleromanzi, andato in onda nel 2002 su RaiSat Album, il canale diretto da Marco Giudici.
Per le fotografie, una parte delle quali è stata fornita a suo tempo dal «Tv Radiocorriere» (Giuseppe Gennaro) e dall’ufficio stampa Rai (Gabriella Silvestri), ringrazio, oltre alla già menzionata Barbara Scaramucci, direttore di Rai Teche, (che ha in catalogo oltre 30.000 fotografie digitalizzate), Stefano Nespolesi e Chiara Antonelli della Biblioteca Rai di viale Mazzini 14, Roma. Quelle più recenti sono state gentilmente concesse dall’Ufficio Stampa Rai (Fabrizio Casinelli e Barbara Pellegrino).
Dal romanzo di…
Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi racconta, come noto, di due ricamatrici che vivono in provincia di Firenze, intorno agli anni Venti. Abilissime, parsimoniose, rigorosamente nubili, hanno una sola debolezza, il nipote orfano che allevano pieno di vizi. Gliele danno tutte vinte e lui, crescendo, pretende sempre più soldi, per comprarsi la moto, l’automobile, e per mettersi in affari, affari grossi, affari incerti; finirà per dilapidare i risparmi delle zie, prima di andarsene da casa con una moglie americana. Si sarebbe tentati di leggere questa storia come un’allegoria di trent’anni di televisione, sostituendo alle due ricamatrici gli umili tessitori di trame sceneggiate, esautorati da nipoti velleitari e spendaccioni, sempre in cerca di un partner americano. Ognuno vedrà alla fine se il paragone tiene e fino a che punto.
Ma il romanzo di Palazzeschi è importante per noi anche perché lo sceneggiato che ne fu tratto da Mario Ferrero nel 1972 ha ottenuto un curioso e prestigioso riconoscimento. Si dice che l’ayatollah Khomeini, durante l’esilio parigino, l’abbia visto e, una volta al potere, abbia raccomandato ai responsabili della tv iraniana di rivolgersi anche all’Italia e non più soltanto agli Stati Uniti per l’acquisto dei programmi. (Ammesso che la notizia sia fondata, è probabile che a conquistare l’imam siano state le solide, antiche virtù celebrate nella vicenda delle due sorelle.)
Se avesse visto anche gli altri sceneggiati Rai dei primi vent’anni, non sarebbe rimasto deluso. E se avesse conosciuto i primi dirigenti avrebbe trovato dei punti in comune, almeno il misoneismo, cioè la diffidenza nei confronti del nuovo. È proverbiale il caso del primo consigliere delegato, Filiberto Guala, che poi si farà frate trappista, il quale dichiara di non avere mai messo piede in un cinema in tutta la sua vita. L’industria delle immagini televisive, al suo nascere, è in mano a uomini libreschi, frugali, talvolta piemontesi. Da cui l’adozione del romanzo sceneggiato, che filtra serialità elettronica e pedagogia ottocentesca.
D’altronde in quegli anni il pubblico, anche laico e «d’élite», indulge in piccoli esorcismi antitecnologici. Mentre il popolo si raduna nei bar per vedere «Lascia o raddoppia?», i borghesi adornano il televisore con centrini e soprammobili, gli snob lo mimetizzano dentro a mobiletti in stile e gli intellettuali si vantano di non possederlo. E non fanno che dir male delle trasmissioni. Gabriele Baldini esclude Tom Jones dai programmi di letteratura inglese perché la visione dello sceneggiato guasterebbe la lettura agli studenti, e Raul Radice minaccia Ilaria Occhini di espellerla dall’Accademia d’Arte Drammatica se accetterà di lavorare con Majano. Accetterà, come noto, e sarà espulsa.
Insomma, i letterati non amano la tv e in particolare aborriscono il teleromanzo, anche più dei romanzi condensati di «Selezione»: due modi di riprodurre, togliere l’aura, mistificare forse, banalizzare certamente;