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La realtà pura
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E-book131 pagine1 ora

La realtà pura

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La realtà pura è un romanzo-metafora dell’Impedimento, esistenziale e metafisico, che ci impedisce di essere ciò che vorremmo essere e ottenere ciò che desideriamo. Quali sono le forze che si oppongono ai nostri disegni? Chi ci impedisce di realizzare i nostri sogni? Il romanzo tenta di spiegarlo, o meglio tenta di dipanare i fili del destino che non riusciamo a sciogliere, fili che – nella finzione romanzesca – sono retti da una fantomatica Organizzazione criminale. Un uomo di cui non si conosce la provenienza sorveglia e pedina il protagonista, Carlo Gozzini, un economista innamorato di una giovane donna, Blandine, avvocatessa ricoverata in manicomio, la quale non ricambia (se non nella mente dello stesso Gozzini) l’amore dell’uomo. L’economista, l’io narrante, tenta di difendersi dalla morsa dell’Organizzazione, che non gli consente il pieno controllo della propria vita e, naturalmente, di raggiungere l’amata. Gozzini vive così una duplice ossessione di matrice paranoide: la “prigionia” e la passione per Blandine, due situazioni che potrebbero essere le facce della stessa medaglia. Il romanzo si conclude con il disvelamento della verità: in forma non di discesa, bensì di ascesa all’inferno.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2020
ISBN9788833860374
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    Anteprima del libro

    La realtà pura - Riccardo De Gennaro

    Tavola dei Contenuti (TOC)

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    scafiblù

    ( 6 )

    © 2018 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di novembre 2018

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione digitale: gennaio 2019

    isbn 978-88-3386-037-4

    Prima edizione cartacea: novembre 2018

    isbn 978-88-3386-021-3

    L’unico modo per conoscere una persona è amarla senza alcuna speranza.

    Walter Benjamin

    Le opere più belle sono quelle dove c’è meno materia.

    Gustave Flaubert

    1.

    Uno, attendere; due, desiderare; tre, ricordare. L’amore è questo, mi diceva, il resto nulla, se non ingannevole menzogna. Leopardi – non so dove l’avesse letto se consideriamo che non era riuscita a terminare le scuole superiori – le tornava utile per impedirmi di avvicinarmi troppo. Ed eccomi qui, adesso, che ancora attendo, desidero, ricordo. Quanto tempo abbiamo trascorso insieme? Poco, troppo poco, se pensiamo che la nostra relazione copre un arco di cinque anni. Abbiamo lasciato trascorrere, senza ragionevoli motivi, periodi esageratamente lunghi di silenzio, e sono rimaste soltanto macerie. Il mattone che qualche volta riuscivamo a posare non faceva un gradino e i successivi non formavano una scala. Inciampavamo, ruzzolavamo giù dall’incompiuto ed era sempre un ricominciare da capo. Non sapevamo il perché. Non del distruggere, questo lo sapevamo. Del ricominciare. Cercarsi, nascondersi, cercarsi di nuovo. Sembrava facile, un gioco pressoché perfetto. Ma in questo momento Blandine è là e io sono qua. Lei in attesa di una cura, ospite di una clinica psichiatrica al riparo di una montagna, io prigioniero del mio presumibile assassino, senza sapere chi sia né se agisca in proprio o risponda a un mandante. Non pretendo che lei si preoccupi per me. Se qualche volta ha prestato attenzione a ciò che dicevo è stato soltanto per cogliere nelle mie parole qualcosa di cui rimproverarmi o con cui potermi successivamente ricattare. È anche per questo che adesso, approfittando del suo silenzio, mi sento autorizzato a raccontare liberamente di me, di questi miei giorni e, se ce ne saranno, di quelli che verranno. La immagino muta, a letto o sulla sedia verniciata di bianco accanto al letto, guardare il muro verde mela del suo reparto e, forse, nella sopraggiunta indifferenza, ancora più bella di com’era. Quando ti alteri, le dissi durante uno dei nostri frequenti litigi, i tuoi lineamenti si deformano al punto da farti sembrare brutta, vecchia, il naso si fa ferino, gli occhi sembrano più piccoli e di brace, le labbra si serrano e quasi scompaiono, la tua fronte si trasforma in un mare increspato dal vento. Come durante una giornata di sole scorgiamo, lontano, il lembo di una nuvola che crediamo innocua, ma che in seguito piomba all’improvviso sulle nostre teste, così dopo un breve scambio di battute innocenti la sua ira poteva scatenarsi repentina, pronta a rovesciare sul malcapitato e incolpevole interlocutore il suo carico oltraggioso. Fredda, crudele, egoista, un cuore di bambina, nonostante i ventinove anni. Questa, Blandine. Odiava la madre perché priva di ambizioni, mentre lei – che finora aveva partecipato soltanto a un film di Natale – citava Bergman, convinta di poter recitare nel ruolo di Liv Ullman in Persona. Torno presto, mi aveva detto prima di scomparire dietro le porte del controllo bagagli l’ultima volta che la vidi. Ti chiamo, aveva promesso, mimando da lontano la cornetta del telefono, il pollice vicino all’orecchio, il mignolo allungato sul mento. Ero tornato a casa tranquillo, mentre guidavo raccoglievo le idee, mi chiedevo quale fosse il modo migliore per trascorrere i giorni dell’attesa senza sentire troppo la sua mancanza. Dormire di più, perché nel sonno il tempo passa più in fretta, incontrare i miei studenti, andare spesso al cinema (in solitudine), tutti accorgimenti franati come la roccia friabile di una strada costiera. Sono trascorsi molti mesi da quel giorno, mi sentivo sempre più debole e indifeso, sono arrivato a boccheggiare per mancanza di ossigeno. Non sapere dove fosse mi faceva perdere la ragione, mi sembrava di trovarmi in una stanza che cambiava continuamente colore. Giallo, rosso, blu, nero. E di nuovo giallo, rosso, blu, nero. Ora l’ho scoperto, ma è il nero che ha vinto. Non so se ne uscirò vivo.

    2.

    C’è una palazzina rossa, di fronte. Quando la guardo provo fastidio. Non è il mio senso estetico a patirne, ma il senso morale. L’edificio ha due piani e dista da me duecento metri in linea d’aria, ma – siccome un fiume la separa dal mio palazzo – per raggiungerlo bisogna arrivare al vicino ponte, attraversarlo e tornare indietro sul lato opposto. Un chilometro circa. Nonostante le fronde degli alberi posso vedere entrare e uscire, senza difficoltà, uomini in giacca e cravatta, giovani donne in abiti colorati. Osservandoli, ho realizzato che è il tempo a dirigere i flussi e i movimenti degli uomini, come per una legge matematica. O della fisica. Nessuno può negare che anche il caso risponda a una legge, la più segreta, lontana e forse inaccessibile. Il caso, come la morte, appartiene al lato possibile dell’impossibile. Mi sono chiesto se non siano le persone che entrano e che escono a irritarmi quando guardo la palazzina. Per esorcizzare il fastidio che trasmette avevo pensato a una sorta di libro mastro nel quale segnare date e orari. Le cifre, le operazioni aritmetiche, fanno bene all’anima, se ne abbiamo una. Poi mi sono detto che una stima dei flussi nelle sole ore di lavoro è sufficiente per avviare un’indagine sulla natura del luogo e sulle cause del mio disagio. Le finestre che si affacciano sul fiume sono otto, quattro al piano nobile e quattro al piano superiore. Il portone è di legno massiccio, talmente grande rispetto al resto da dare l’impressione che la palazzina sia stata costruita soltanto in ragione del maestoso ingresso. Un androne pavimentato di nere mattonelle ospita una portineria, mentre in fondo, dietro una porta a vetri, si può intravvedere un piccolo cortiletto con un alberello al centro, che dovrebbe essere un salice piangente, e un’edera rampicante sul muro a destra. Il custode è alto, grosso e credo abbia una gamba rigida. Quando cammina, ma la maggior parte del tempo la trascorre nella sua guardiola, si aiuta con un bastone. Ho sentito dire che una volta era un magistrato di Corte d’Appello, mentre adesso non è che un povero vedovo in pensione. Sono voci di quartiere, beninteso. Potrebbe essere vedovo, ma non aver mai svolto funzioni di magistrato, oppure un ex magistrato nient’affatto vedovo. Oppure ancora, siccome – ripeto – non si tratta che di voci, né l’una né l’altra cosa. Pare soffra anche d’asma, ma è più probabile che il respiro corto sia provocato dal suo handicap. È singolare che un magistrato, una volta in pensione, decida di dedicarsi alla portineria di una casa dove, peraltro, non abita. Alle sei di sera si toglie il grembiule di lavoro, che è di un blu stinto per via dell’uso, indossa una giacca a quadri, chiude il portello contenuto nel portone e si allontana. È una di quelle porte piuttosto fastidiose perché costringono i visitatori a scavalcare la soglia e, nello stesso tempo, ad abbassare la testa. Senza dubbio il guardiano trae intimo godimento nel vedere sfilare gli inquilini e i loro ospiti sotto queste moderne forche caudine, personaggi importanti, che spesso scendono da solenni auto nere, obbligati a chinare il capo davanti a lui. Come l’ex magistrato non è più un magistrato, ma un custode che difende il suo potere mantenendo bloccato il portone grande e aprendo soltanto il portello, così Blandine (il quale in realtà è un nome d’arte) oggi non è più un’aspirante attrice, ma un’anonima paziente senza un passato tra centinaia di altre anonime pazienti senza un passato. Ai medici che dovrebbero curarla non interessa ciò che

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