Quattro nomi, una donna: Storia di una riscossa
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Anteprima del libro
Quattro nomi, una donna - Stefania Di Mei
CAPITOLO 1
1518 - REGNO DI POLONIA
Un fagotto informe sotto un cespuglio rado sussultò appena.
La ragazzina si strinse la testa fra le mani e serrò la mascella per non far sentire il rumore dei denti che battevano dal freddo e dal terrore. La copriva a malapena un mantello scuro che sua madre le aveva gettato addosso prima di scappare dalla chiesa ortodossa dove suo padre e gli altri sacerdoti avevano riunito quante più persone potevano nell’assurda speranza che quelle sacre mura li avrebbero protetti. Presto compresero che le orde dei Tatari stavano per sfondare la porta e li avevano fatti fuggire dal retro verso la montagna, attraverso la foresta.
Per un po’ erano riusciti a stare vicini, ma quando le urla dei razziatori si mescolarono alle grida di dolore dei fuggitivi, ai pianti dei bambini strappati alle donne, ai rantoli di morte, Nastia perse il contatto con i genitori e i fratelli e si ritrovò sola a correre come una forsennata nel bosco, lacerandosi le vesti e le mani attraverso i cespugli spinosi e zuppi di brina ghiacciata che la rallentavano come artigli.
Il respiro si fece parossistico, il cuore minacciò di uscirsene dalle costole e la giovanetta si accasciò a terra, tentando di riprendere fiato. Si raggomitolò come un riccio sotto il mantello con tutti i sensi all’erta da animale braccato quale era e distinse lontano il crepitio dei rami spezzati sotto i piedi nelle folli corse verso un’improbabile salvezza. Il suono assordante del terrore.
Un insolito silenzio le fece uscire lentamente la testa dal cappuccio come una lumaca dal guscio. Sopra di lei due uomini dalle tuniche insanguinate e dallo sguardo privo di pietà brandivano le sciabole senza fiatare e la guardavano fisso. In un istante mise a fuoco il suo fato e perse i sensi.
Rinvenne gettata di traverso sulla groppa di un cavallo dietro la schiena di un soldato maleodorante. Le corde ai polsi e alle caviglie le sfregavano la pelle delicata di bambina. La coscienza le si oscurò benignamente fino a quando la fecero scivolare dalla cavalcatura per rinchiuderla dentro un carro stipato di altri corpi.
Riuscì a raggomitolarsi in un angolino e chiuse ancora gli occhi. Non voleva vedere, non voleva affrontare la realtà, l’orrore della sua sorte quale che fosse.
CAPITOLO 2
Una vocetta intrisa di pianto la costrinse ad aprire le palpebre.
Nastia!
. Un mucchietto di bambini impauriti e piangenti erano ammassati su un lato del carro e uno tendeva le braccia verso di lei.
Fedor!
La ragazzina cercò di avvicinarsi e strisciò a colpi d’anca verso il suo fratellino più piccolo. Riuscì a mettersi accanto a lui, che le si strinse addosso in un tremito irrefrenabile. Non sapeva come consolarlo, la speranza non si era fatta strada nella sua testa e non riusciva ad inventare consolazioni nemmeno per sé, ma lo baciò sui capelli e sulla fronte. Il piccino si calmò per un istante e lei gli chiese notizie dei genitori. Fedor scosse la testa in un'altra crisi di pianto. Un Tataro lo aveva strappato dalle braccia della madre ed era corso via con lui, schiacciato contro il petto. Non aveva visto cosa fosse avvenuto dei suoi genitori, ma ne aveva sentito le urla.
In quell’istante la ragazzina percepì che la sua vita aveva perso qualsiasi significato, che aveva vissuto inconsapevole nella sicurezza che le dava la sua nobile famiglia, una dimensione ovattata scandita dalla liturgia del padre sacerdote. Non si era mai posta domande sul suo futuro perché le donne avevano tutte lo stesso destino di spose obbedienti e madri. Il suo mondo quieto era stato spazzato via in un’orgia di sangue e il domani era una nebulosa attesa del peggio. Il pensiero la atterriva, ma in qualche modo l’aver ritrovato suo fratello l’aveva fatta sentire meno sola. Doveva proteggerlo, doveva vivere.
Si abbandonarono l’uno vicino all’altra, finché il dondolio delle ruote li indusse al sonno benedetto dell’infanzia, l’unico mezzo per allontanare i mostri delle loro paure.
Sobbalzarono atterriti quando un calcio non troppo pesante raggiunse le cosce di Nastia. Il carro era in movimento sul sentiero dissestato.
Un giovane Tataro meno truce degli altri le tendeva due ciotole di zuppa che puzzava di grasso stantio, ma che i due divorarono, come gli altri del resto. Tutti ebbero lo stesso pensiero: se li nutrivano non li avrebbero ammazzati, almeno per ora.
CAPITOLO 3
Il viaggio sembrò loro interminabile. Sentieri sconnessi e lunghi tratti di foreste umide e fitte, dove il sole stentava ad aprirsi un varco. Nessuno di loro aveva idea di dove fossero. Non conoscevano altro che i dintorni dei loro villaggi perché quelli erano i confini della terra. Il dondolio delle ruote segnava il ritmo del loro destino.
Il carro si fermava un paio di volte al giorno per fargli fare i loro bisogni e per scaldare il rancio, ma una volta li fecero spogliare tutti davanti a un pentolone di acqua calda dove era stata sciolta della cenere. Un paio di donne dall’espressione cupa e malvestite divisero con malagrazia le femmine dai maschi. Le creature si guardarono terrorizzate senza nemmeno provare vergogna. La paura sovrastava qualsiasi altro sentimento. Le tatare immersero degli stracci in quell’acqua e li strofinarono uno per uno energicamente insistendo sulle croste di sporcizia fino a farle scomparire, così che la pelle riprendesse il colore primitivo. Un altro pentolone caldo servì a inondare le loro teste per sciacquare i capelli. Una delle donne, mentre le torceva i capelli rossi per sgrondare l’acqua, le tirò i peli del pube e sghignazzò sguaiata. L’altra si avvicinò e strillò fra le risa: Roxelana, Roxelana
. Quel soprannome fece il giro dei suoi aguzzini e le rimase addosso. Le avevano rubato anche l’identità.
La vergogna la fece ritrarre e tentò di ricoprirsi con le mani, ma si disse che se li lavavano non intendevano ucciderli e che probabilmente erano vicini alla meta. Quale meta? Ricordò i discorsi intorno al fuoco degli adulti, mentre i bambini dormivano. Lei spesso rimaneva sveglia, affascinata dalle voci bisbiglianti dei genitori e del nonno e una volta li aveva sentiti parlare di una famiglia da cui avevano rapito due figlie per portarle al mercato degli schiavi.
All’improvviso capì. Li lavavano per cercare di venderli. L’intuizione la fece barcollare, ancora una volta la testa le si ottenebrò, ma non svenne. Si aggrappò all’idea che forse lei e suo fratello avrebbero potuto essere venduti insieme, magari a qualcuno che non fosse troppo malvagio. La prima cosa da fare era tenerselo il più possibile accanto. Cercò di non pensare a sua madre e suo padre, all’affetto di cui erano stati sempre circondati. Le faceva troppo male e su di loro non poteva contare più anche se in un angolino della sua mente sperava che fossero riusciti a fuggire. Doveva fare affidamento solo sulle sue forze perché ora era responsabile del suo fratellino.
Le donne intimarono loro di rivestirsi, una di esse si avvicinò con delle vesti sulle braccia a Nastia e a un’altra delle fanciulle, una bionda sinuosa che sembrava più grande. Porse alla prima una tunica verde e all’altra una rossa. La stoffa era leggera e avrebbero sofferto il freddo, ma la megera diede loro delle mantelle di lana grezza. I loro vestiti ridotti a degli stracci furono scalciati via, ma Nastia recuperò furtivamente il mantello nero pensando di proteggere dal freddo suo fratello che era già risalito sul carro insieme agli altri.
Montò anche lei, si diresse subito verso Fedor, lo trasse a sé e lo involtò con il mantello, poi si sedette accanto a lui, scosse la testa e si portò i capelli ramati sopra al petto per intrecciarli. Non erano stati mai tagliati ed erano diventati una massa fluente e ondulata, preziosa come un gioiello. Lei non aveva la percezione del suo aspetto. Non si era mai confrontata con nessuno che non fosse una sua parente più anziana. Suo padre e sua madre non facevano commenti sull’avvenenza di questa o quella. Tutti erano uguali al cospetto di Dio. Il padre vestiva sempre con una tunica nera e un copricapo a tubo. La barba nera era così spessa che le labbra non si vedevano più, se non un accenno quando sorrideva ed era un sorriso buono così come i suoi occhi ornati da spesse sopracciglia. Il pallido volto della mamma era sempre incorniciato da un copricapo che finiva in un soggolo di stoffa bianca e Nastia ne ricordava l’espressione ridente, che dava sicurezza.
Fu il tataro che portava loro il cibo a farle intuire brutalmente che ormai era una ragazza buona per il sesso.
Roxelana
sibilò con libidine.
Le si avvicinò tanto che lei si rannicchiò tutta contro la parete del carro, ma lui la fece alzare con malagrazia, le afferrò il braccio e le tirò su la veste puntando il pube con gli occhi. Non fece in tempo a metterle una mano tra le cosce che una delle donne, la più nerboruta, salita anche lei per dare il rancio, lo tirò indietro con uno strattone per poi rifilargli un pesante manrovescio e spingerlo fuori dal carro con un calcio. Prima di scendere dietro di lui gridò qualcosa a Nastia in una lingua che lei non capì, ma corse vicino a Fedor e se lo strinse al petto. Proteggere lui significava proteggere sé stessa e il filo che li legava alla famiglia.
Abbi fede, fratello mio, non ti lascerò mai.
Rimasero così avvinghiati fino a che il carro si immise lentamente in una strada che brulicava di gente e di altri carrozzoni pieni di merci.
Dopo un po’ raggiunsero uno spiazzo e furono fatti scendere.
Negli occhi di ciascuno era tornata l’angoscia. La spianata era piena di uomini alcuni dei quali si affollavano attorno a delle pedane rialzate dove si stipavano dei giovani incatenati. Un uomo libero con un bastone in mano gridava qualcosa puntando la verga verso l’uno o l’altro dei soggetti incatenati, alcuni con la pelle scura, altri chiara, molti con ferite coperte di stracci luridi, ma in grado di alzarsi o camminare. Dei militari contrattavano il prezzo di quelli che giudicavano un buon affare. Nessuno sembrava mostrare pietà.
Nastia stringeva con forza la manina di suo fratello, mentre venivano spintonati verso un’altra piattaforma. L’impotenza che provava nel non potersi opporre a quelle brutalità, la rendeva folle di paura, ma si conteneva per non terrorizzare ancor più il fratello.
Il tataro che l’aveva importunata indicò alle donne di mettersi su un lato della pedana e i bambini dall’altro. Fedor la guardò implorante, Nastia
urlò aggrappandosi a lei con le due mani, ma una delle donne lo strappò dalla sorella, lo spinse con gli altri e intimò alle ragazze di salire dall’altra parte.
Se non fate quello che vi diciamo, vi incateniamo come animali
urlò la virago, poi sputò a terra.
Nastia inciampò perché le lacrime le impedivano di vedere dove metteva i piedi, ma una mano ferma la tirò su. La ragazzina vide un uomo dalla pancia prominente e ben vestito, che si tirò indietro non appena si fu rimessa in piedi. Il suo sguardo era puntato sul gruppo dei bambini. Vicino a lui alcuni uomini dai capelli scuri e dall’aspetto opulento, che parlavano in una lingua melodiosa e sconosciuta fra di loro, contrattavano a segni con il sensale. L’uomo grasso fece un cenno verso il gruppo delle ragazze e il tataro spinse verso di lui Nastia. Le sollevò la chioma fulva e disse con un sorriso stolido Roxelana
. Poi spinse in avanti la fanciulla bionda con il vestito rosso. Si presero istintivamente per mano in una stretta consolatoria e si guardarono disperate. Avrebbero voluto nascondersi, ma erano solo delle fragili e indifese creature in balia di eventi imprevedibili. L’uomo, impassibile, fece un cenno di assenso con la testa.
Una delle donne tatare era a guardia del gruppo dei ragazzini, che non riuscivano nemmeno più a piangere. Solo gli occhi sgranati testimoniavano la loro angoscia, quella stessa angoscia dipinta sui visi contratti delle ragazze.
Le grida dei sensali che magnificavano la merce umana martellavano l’animo di quelle creature in mostra.
Passarono dei lunghi minuti nella contrattazione prima di arrivare ad un accordo, fin quando la guardiana dei bambini li spinse verso il sensale.
Gli occhi di Nastia andavano dall’una all’altro per capire cosa stesse succedendo fin quando il loro aguzzino le spinse verso quegli uomini dai capelli scuri che li circondarono e fecero cenno a tutti di seguirli.
Li attendevano altre vetture. I maschi furono divisi dalle femmine. Nastia cercò di trattenere il fratello, ma lo strattone deciso di una donna li separò ancora una volta.
Maledetti
gridò la ragazzina, saettandoli con lo sguardo, ma non ottenne altro che risate sardoniche.
Prima di farli salire però un paio di ragazze dallo sguardo impudente e dalle vesti appariscenti diedero loro dell’acqua e del pane e formaggio che tutti addentarono voracemente ancora prima di essere sul carro. Nastia si era resa conto che una delle ragazze parlava la sua lingua, le tirò la veste e le chiese chi fossero quelle persone che li avevano comprati.
La donna dapprima si liberò con fastidio dalla mano della ragazzina, ma poi le rispose secca che erano mercanti genovesi e che li avrebbero venduti in Turchia. Di quella spiegazione la fanciulla aveva capito solo che li portavano in una terra conosciuta dai genitori per i racconti dei viandanti che passavano dal villaggio. Quel luogo non le era estraneo, almeno per sentito dire, era qualcosa che poteva prefigurarsi. Era una piccola consolazione, non più il nulla oscuro che li aveva accompagnati fino allora.
Udirono dei comandi stentorei e il corteo si mise in moto cigolando.
Si fermarono dopo poco. Avevano raggiunto il porto. Furono fatti scendere in fretta e spintonati verso un grande veliero. Nessuno di loro aveva mai visto il mare e tantomeno una nave. L’enormità di quella scoperta li fece ammutolire e il terrore dell’ignoto riprese il sopravvento. Una volta a bordo, nessuno avrebbe potuto fuggire, ammesso che fossero abbastanza coraggiosi per farlo. Le ragazze furono facile bersaglio dei lazzi dei marinai, ma i mercanti si imposero con secchi comandi e il capitano, un tipo nerboruto dalla pelle color cuoio e lo sguardo sfuggente, richiamò l’equipaggio e li minacciò con la frusta.
I prigionieri furono fatti scendere a spintoni sottocoperta. Nastia si tenne stretta al fratello e insieme guardarono stupiti quella massa d’acqua che li circondava. Navi non ne aveva mai viste, ma ne aveva sentito raccontare storie. La nostalgia della sua casa e la consapevolezza della sua solitudine le torsero le budella ancora una volta. I suoi genitori erano sempre accoglienti e ben disposti verso gli altri. A volte ospitavano dei viaggiatori e questi raccontavano le loro vicissitudini davanti al focolare. Se le storie erano troppo cupe suo padre faceva loro il cenno di tacere, per non turbare i bambini, che ascoltavano a bocca aperta, fino a quando cascavano dal sonno.
Una stretta scaletta di legno conduceva al locale buio dove avrebbero passato molti giorni di viaggio in mare aperto. Due finestrelle rotonde vicine al soffitto facevano passare un po’ di luce. Il fetore di chiuso e sporcizia era denso come se avesse succhiato via l’aria. Nessuno di loro si guardò in giro, erano come rattrappiti dalla paura, ma la ragazzina scivolò accanto al fratello, gli strinse la mano e si disse con caparbietà che si sarebbe difesa per poter difendere anche lui.
I maschi furono fatti accomodare alla bell’e meglio sui pagliericci buttati sul pavimento. Alle femmine furono riservate delle cuccette con delle coperte. Nastia si accomodò su una in basso così avrebbe potuto far dormire Fedor con lei. Su quella superiore salì pronta la bionda, almeno sarebbero state in grado di darsi aiuto a vicenda.
Dopo un po’ uno dei mercanti, un individuo dalle palpebre grevi che gli davano uno sguardo torpido e minaccioso, scese accompagnato da un marinaio slavo. Questi tradusse ciò che il genovese gli suggeriva. Si trovavano su un veliero mercantile e il viaggio verso Costantinopoli sarebbe durato molto, i venti erano a favore e il mare calmo, ma i venti potevano cambiare e trasformarlo in tempestoso. In questo caso non si sarebbero dovuti muovere dai loro posti. Chi si fosse sentito male, doveva vomitare nei buglioli che servivano anche per le deiezioni di ciascuno. Uno di questi era dietro una tenda per proteggere l’intimità delle femmine. Il cibo glielo avrebbero dato due volte al giorno e ogni tanto li avrebbero fatti salire sulla tolda per lavarsi. Nessuno fiatò. Quelli che non avevano capito avrebbero imitato gli altri.