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Il Grimorio Cremisi - La saga di Jake Seidel
Il Grimorio Cremisi - La saga di Jake Seidel
Il Grimorio Cremisi - La saga di Jake Seidel
E-book483 pagine7 ore

Il Grimorio Cremisi - La saga di Jake Seidel

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Info su questo ebook

Una notte serena come tante. Un intricato bosco. Una comitiva di ragazzi pronti a festeggiare l'inizio del nuovo anno scolastico. A un certo punto Jake, uno studente come tanti, si accorge che Jason, uno dei suoi migliore amici, si è allontanato. Preoccupato, si avventura nel bosco in cerca del ragazzo scomparso e lo trova avvinghiato a una giovane sinuosa dalla chioma bionda, dagli occhi verde smeraldo e dai lunghi canini aguzzi infilati nel collo dell'amico. I vampiri esistono, e Jake scoprirà presto di essere legato a loro in modo indissolubile...
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2013
ISBN9788867930357
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    Anteprima del libro

    Il Grimorio Cremisi - La saga di Jake Seidel - Michael Gianotti

    Cremisi

    Prologo

    Era una notte buia e senza stelle. Una di quelle notti di inizio settembre, in cui il calore dell’estate inizia, lentamente, a lasciare il posto al gelo dell’autunno. Una di quelle rare notti in cui, grazie a quell’ancestrale retaggio dei tempi passati, che alcuni chiamano istinto, altri sesto senso, la maggioranza delle persone sa, inconsciamente, che è meglio restarsene chiusi in casa. Sa che qualcosa di terribile sta per succedere.

    Proprio in una notte così, nello stato del Massachusetts, su una strada appena fuori una piccola cittadina chiamata Dawn Hill, stava per accadere lo spaventoso evento che in molti, senza nemmeno saperlo, avevano presagito. La strada in questione attraversava il Dawn Wood, il vecchio e lugubre bosco che attorniava la città, ed era deserta, eccezion fatta per un vecchio pick-up e una bella macchina sportiva che sfrecciavano a velocità folle sull’asfalto.

    Nel mezzo che apriva la fila, il pick-up, si trovava Chinedu Abega, un ragazzo afroamericano di venticinque anni, alto e muscoloso, con occhi marroni e capelli neri e corti. I genitori di Chinedu erano originari del Sudafrica, ma si erano trasferiti a Boston prima della sua nascita. Fin da bambino si era dimostrato molto intelligente e sensibile, con uno spiccato talento per la recitazione, e il suo sogno era sempre stato potersi trasferire a Hollywood e fare l’attore. Purtroppo la vita aveva disposto diversamente, e Chinedu era finito a fare il commesso in un supermercato alla periferia di Boston. Ma la cosa non gli dispiaceva. Il suo stipendio gli consentiva di tirare avanti in maniera dignitosa, e lui aveva da tempo imparato ad accontentarsi di quello che il mondo gli offriva.

    I guai erano cominciati circa tre settimane prima, quando, una sera, era entrato nel supermercato dove lui lavorava un gruppo di ragazzi dalla testa rasata, con orridi tatuaggi di chiara ispirazione nazista e razzista su tutto il corpo. Skinhead, la feccia dell’umanità. Avevano iniziato a infastidirlo, ed erano tornati lì, una sera dopo l’altra. Dapprima lo avevano provocato con piccole cose, come far cadere apposta cartoni di latte o bottiglie di vetro, poi avevano cominciato a offenderlo, chiamandolo con nomi dispregiativi e urlandogli in faccia che loro appartenevano alla razza superiore. Lui era sempre stato calmo, aveva fatto finta di niente, fino a quella sera, quando, evidentemente innervositi dalla sua indifferenza, lo avevano aspettato all’uscita del supermercato armati di pistole e mazze da baseball e avevano cercato di picchiarlo. Lui era riuscito a stenderne uno e a raggiungere il suo vecchio pick-up. Aveva acceso il motore ed era fuggito, girando a vuoto, con quei bastardi alle calcagna che ululavano come dei lupi per più di un’ora e si era ritrovato in quella strada, non sapeva neanche lui perché.

    Aveva appena passato un cartello che recitava «Dawn Hill – 1 Mile», quando un tuono squarciò la quiete della notte, interrotta soltanto dal rombo dei motori. Contemporaneamente qualcuno esplose un colpo di pistola e la macchina di Chinedu iniziò a tirare tutta a destra. Il giovane afroamericano cercò inutilmente di tenere il veicolo fermo sulla carreggiata, ma sbandò e finì contro uno degli alberi ai lati della strada. In fretta e furia scese dalla macchina, in preda al panico. Lì intorno c’era solo il bosco, l’unica possibilità che aveva era cercare di nascondersi là, sperando che prima o poi quei pazzi si decidessero a lasciarlo in pace. Ma non fece in tempo a scendere dall’auto che un proiettile passò sibilando accanto alla sua testa.

    Fermati subito, sporco negro!. Chinedu si bloccò. Girati!. Lentamente si girò verso i suoi assalitori, che avevano spento l’auto, lasciando accesi soltanto i fari, che puntavano dritti verso di lui. Il loro capo, un ragazzo alto e muscoloso quanto lui, con una maglia nera con scritto «White Power», gli si avvicinò ridendo, pistola in mano.

    Bene, bene… Finalmente ti abbiamo ripreso, eh, carogna nera?. Chinedu stava sudando freddo, aveva il cuore che batteva all’impazzata e il cervello che lavorava alacremente, come un motore su di giri. Stava disperatamente cercando di trovare un modo per uscire da quella situazione, ma senza successo. Quei pazzi lo avrebbero pestato a sangue, o peggio. Anche gli altri si avvicinarono e Chinedu riconobbe quello che aveva steso prima di scappare. Aveva il naso gonfio e sanguinava. Probabilmente era rotto.

    Il capo avvicinò il volto al suo, aveva lo stesso odore di una distilleria: Sai perché ti abbiamo dato la caccia, eh?. Chinedu scosse la testa, gli occhi spalancati per il terrore. No? Lo immaginavo. Sei solo uno scimmione, non hai abbastanza cervello per capirlo. Fece una pausa. Ti abbiamo dato la caccia perché dobbiamo fare pulizia! Dobbiamo pulire la nazione dagli immigrati come te!.

    Chinedu tentò goffamente di ribattere: Io… Io sono americano come voi. L’altro lo guardò con gli occhi spiritati tipici di chi è sotto l’effetto di droghe pesanti. Chinedu ne aveva visti abbastanza di tipi così nel quartiere dove abitava.

    Non dire cazzate, brutto scimmione! Io ti spappolo il cervello!. L’altro gli premette la bocca della pistola sotto il mento, talmente forte da fargli male. Chinedu chiuse gli occhi. Presto sarebbe partito il colpo. Ormai era finita.

    Scusate, mi sono persa, sapreste dirmi dove mi trovo?. Una voce di donna. Chinedu riaprì gli occhi e contemporaneamente tutti gli skinhead si girarono verso il bosco alle loro spalle, dove videro una ragazza. Era sola. Indossava una camicetta rosa molto scollata e dei jeans. I lunghi capelli biondi e lisci le ricadevano sulle spalle lasciando scoperto il bel viso e gli occhi azzurri. Sembrava una Barbie. Chinedu sapeva bene che la sua situazione era già disperata, ma il suo primo pensiero fu che non poteva lasciare quella ragazza in balia di quei mostri, chissà cosa le avrebbero fatto. Il capo degli skinhead sorrise e diede una gomitata nello stomaco al giovane afroamericano, che cadde a terra boccheggiando.

    Bene, bene… Cosa fai in giro a quest’ora, tutta sola, piccola?. Si diresse verso di lei. Anche la ragazza avanzò, mettendosi di fronte agli altri componenti della banda.

    Mi si è fermata la macchina proprio dietro la curva e sono venuta a cercare aiuto. Qualcuno di voi sarebbe così gentile da aiutarmi?. Una risata si alzò dalle gole degli skinhead e il capo si mise di fronte alla ragazza mostrandole volutamente la pistola.

    Certo che possiamo aiutarti, tesoro. Ma prima tu dovrai fare qualcosa per noi. Bastardo! Chinedu riuscì a rialzarsi e corse verso l’uomo, caricandolo come un toro. Avrebbe difeso quella povera ragazza anche a costo della vita.

    Boss, attento!, gridò uno degli skinhead. Il loro capo si girò subito indietro e sparò un colpo, colpendo Chinedu allo stomaco. Il giovane cadde a terra portandosi le mani alla zona ferita. Quando vide che erano lorde di sangue, complici il dolore e l’emorragia, svenne.

    Mio Dio! Cosa avete fatto? Siete dei mostri!, disse la ragazza, e fece per correre verso di lui, ma il capo della banda, veloce come un fulmine, la colpì col calcio della pistola al volto e lei cadde a terra gridando.

    Hai ragione, puttanella, siamo dei mostri. Dei mostri che questa sera si divertiranno un po’ con te. Si avvicinò e la prese per i capelli, alzandola di forza. Si accorse che c’era qualcosa che non andava, ma tra l’adrenalina e l’alcool che gli pompavano nelle vene e le schifezze che si era sniffato, non ci fece caso.

    Pensa… avrai l’onore di farti fottere da esseri superiori come noi.

    La ragazza sorrise: Voi non siete esseri superiori, buffone. Fu troppo tardi quando il boss della banda capì che la cosa strana in quel momento era che la ragazza non era ferita. Anche se l’aveva colpita con forza con la pistola, il suo volto era intatto. Improvvisamente il viso della giovane cambiò. I suoi occhi lampeggiarono rossi come braci, la sua bocca si allungò e si riempì di zanne aguzze, emettendo un grido disumano.

    Poi scoppiò il caos. Dal bosco uscirono altri esseri come lei, con artigli lunghi come coltelli, e iniziarono a colpire barbaramente gli skinhead. Nel frattempo il capo del gruppo, che era caduto all’indietro per lo spavento, si ricordò di avere una pistola. Si rialzò e iniziò a sparare all’impazzata, svuotando il caricatore sulla ragazza. Ma inutilmente. Un proiettile aveva centrato la ragazza in piena fronte lasciandole un foro in cui sarebbe potuto passare un dito, che però si richiuse in meno di un minuto. Mentre attorno a lui i membri della banda gridavano per il dolore, gettò via la pistola e si mise in ginocchio: Non farmi del male... Ti prego! Dio, salvami!.

    Stai sprecando il fiato, omuncolo. Nessun dio ascolterebbe le preghiere di un essere ripugnante come te.

    Il capo degli skinhead iniziò a tremare in maniera incontrollabile: Che cosa siete? Che cosa siete?. Il viso della ragazza tornò umano, e lei gli si avvicinò, mettendogli una mano attorno al collo e sollevandolo come se fosse una bambola.

    Noi? Siamo i veri mostri. Un ultimo grido nella notte, poi calò il silenzio.

    Un altro tuono squarciò la notte e la pioggia iniziò a cadere a dirotto, forte e improvvisa come un alluvione. Poco distante dalla strada, nel fitto del bosco, un lupo correva a velocità innaturale sotto l’acqua scrosciante. L’animale arrivò in breve tempo ai margini del bosco, dove questo lasciava il posto alla Città Vecchia: qui sorgeva il cimitero di Dawn Hill. Il cimitero era diviso in due parti. Una veniva utilizzata ancora a quel tempo, l’altra era stata chiusa nei primi anni del Novecento.

    Il lupo, compiendo salti incredibili, scavalcò cancelli e murate e si ritrovò proprio in quella parte. Si fermò davanti a un vecchio mausoleo, quello della famiglia Dawn, i fondatori della città. Improvvisamente la pesante porta di ferro si spalancò e cadde a terra, divelta dai vecchi cardini arrugginiti, e l’animale entrò. Dentro, il mausoleo era piuttosto grande, ma conteneva soltanto i sepolcri di pietra dei coniugi Dawn, William e Alice, e una vecchia statua rappresentante un angelo con una lancia in mano. Un altro boato squarciò la notte. Nello stesso istante, l’aria davanti alla statua parve raggrumarsi, farsi densa come un liquido trasparente, poi prese a scurirsi, sempre di più fino a che, dove solo fino a un attimo prima non c’era nulla, non apparve una figura incappucciata coperta da un pesante mantello nero.

    Ben arrivata, Elizeth, disse la figura incappucciata, con voce profonda. Come in risposta al suo saluto, il lupo emise un basso ringhio e cominciò a mutare. Dapprima lentamente, poi sempre più in fretta. Cominciò ad allungarsi, a divenire ancora più snello di quanto non fosse; il pelo nero iniziò velocemente a ritirarsi, come le lunghe zanne e gli artigli, e il volto a divenire ogni attimo più umano. Al termine della mostruosa metamorfosi, al posto del lupo c’era una donna dagli occhi azzurro ghiaccio, con lunghi capelli corvini, completamente nuda. Uno schiocco delle dita della sua mano sinistra e un diafano velo nero simile a un filo di fumo apparve dal nulla adagiandosi sul suo corpo e prendendo la forma di un lungo ed elegante abito. Le sensuali labbra della donna si piegarono in un sorriso.

    Benvenuto, mio signore. Dopo tanto tempo, finalmente, la rivedo. Per un attimo, dentro il cappuccio della figura, nel quale non si scorgeva altro che un’ombra, lampeggiarono due punti rossi, come carboni ardenti.

    Non posso manifestarmi a lungo, perciò dimmi, Elizeth, che cosa hai scoperto?.

    La donna rabbrividì, non per il freddo, ma per il terrore: Sono quasi certa che sia qui, disse abbassando lo sguardo sulla fredda pietra.

    Ci fu un attimo di silenzio, poi la figura incappucciata parlò: Quasi certa?.

    Ho avvertito la sua aura, e..., Elizeth deglutì, … Penso che un paio di volte abbia inconsapevolmente utilizzato il suo potere.

    Lo pensi?.

    Ne sono sicura, padrone.

    Mostramelo.

    Il bel volto di Elizeth si fece teso per il terrore: Non sono ancora riuscita capire chi sia. Fu questione di un attimo, nulla più di una frazione di secondo. La figura incappucciata scomparve per riapparire a pochi centimetri dalla donna, gli occhi rossi come tizzoni. Ma sembrava diversa, come se fosse meno consistente, più eterea.

    Non mi rimane molto tempo, questa manifestazione sta consumando rapidamente le mie già esigue energie, disse.

    Mio signore… È solo questione di tempo… Giorni….

    Non posso più attendere, Elizeth. Ti concedo sette giorni, non un’ora di più. La figura si voltò di scatto. Fra sette giorni, allo scoccare della mezzanotte, mi manifesterò nuovamente. Per allora pretendo di conoscere l’identità della creatura.

    All’improvviso le tenebre parvero concentrarsi attorno al mantello nero, e quando svanirono, non c’era più nessuno. La donna si girò verso la porta. Fuori pioveva ancora. Concentrandosi espanse la sua mente per rintracciare i suoi servi. Li trovò, e attraverso le loro menti vide ciò che avevano fatto a quegli skinhead, e ne sorrise soddisfatta. Quel nero era stato forte e coraggioso, se era ancora vivo, lo voleva per sé. Impartì mentalmente gli ordini necessari, poi continuò a espandere la propria mente per cercare la fonte delle sue preoccupazioni. Non conosceva il suo aspetto, ma conosceva la sua aura, l’aveva avvertita distintamente in due occasioni e forse poteva ritrovarla.

    La sua coscienza continuò a espandersi, andando a toccare uno per uno gli umani che abitavano la piccola città. Niente. L’aura che aveva avvertito non c’era più, oppure era debole, o ben nascosta. Ma l’avrebbe trovata, avrebbe trovato quella creatura e l’avrebbe usata per compiere il grande disegno del suo padrone. E il mondo degli uomini avrebbe tremato di nuovo…

    PARTE PRIMA

    Creature della notte

    Capitolo I

    Quando Jake e Lucas sbucarono dall’intrico vegetale del bosco e arrivarono alla festa, mancavano quindici minuti a mezzanotte. Il cielo era sgombro dalle nuvole e le stelle erano talmente luminose che sembravano ammiccare a chi le osservava.

    Jake Seidel era alto circa un metro e settanta, con i capelli neri un po’ arruffati, gli occhi verdi, il naso leggermente a patata e il viso ovale ben rasato. Era magro e aveva le spalle larghe, anche se non era affatto uno di quei ragazzi tutto muscoli che passano le loro giornate in palestra. Indossava una maglietta rossa, il suo solito giubbotto in pelle nera e dei blue jeans. Era lì con il suo migliore amico, Lucas Green. Di pochi centimetri più basso di lui, Lucas aveva invece i capelli lunghi, color castano chiaro, e gli occhi marroni. Anche lui aveva le spalle larghe, ma era più muscoloso e ben piazzato. Patito del rock fin da quando aveva dieci anni, indossava una felpa dei Led Zeppelin e un paio di blue jeans strappati, in perfetto stile rock anni ’70.

    Avevano lasciato la macchina di Lucas ai margini del bosco e si erano incamminati, seguendo le torce lasciate dagli organizzatori, e dopo nemmeno cinque minuti erano arrivati alla festa. Questa si svolgeva in un ampio spiazzo vuoto, delimitato su tre lati dal vecchio Dawn Wood, e dall’altro lato dalla scarpata, opportunamente transennata, che scendeva verso il fiume Arskatonic. Al centro dello spiazzo c’era un grosso falò che spruzzava fiamme e scintille dappertutto, mentre il resto dell’ambientazione era occupato da gigantesche casse per la musica e bar improvvisati.

    Allora ce l’hanno fatta alla fine, correva voce che volessero rimandare la festa a causa della pioggia di ieri, disse Lucas con noncuranza, accendendosi una sigaretta.

    Per fortuna che ce l’hanno fatta, senza un Wood party l’anno scolastico non inizia come si deve, disse Jake sorridendo. Wood party era il nome della festa che si teneva all’inizio di ogni anno scolastico da ormai dieci anni, e che festa era! L’anno prima avevano suonato quattro gruppi diversi e c’erano state persino una gara di air-band e una retata della polizia. Chissà cosa sarebbe successo quell’anno? Distogliendosi da questi pensieri, Jake notò la cascata di capelli castani e lisci di Becky Fitzmore, la ragazza di Lucas, che si agitava davanti al falò al ritmo di Another brick in the wall.

    Lucas, guarda, c’è Becky, disse all’amico indicando la ragazza, che in quel momento li vide e li salutò con la mano. Quella sera indossava anche lei dei jeans e una felpa dei Pink Floyd.

    Dai, andiamo, rispose Lucas avviandosi verso la ragazza lungo il terreno leggermente scosceso e irregolare.

    Tu vai, gli disse Jake, io vado a prendere da bere e poi vi raggiungo. Lucas fece cenno di sì con la testa e ripartì. Jake si avviò verso il bar più grande, quello vicino alla scarpata, ottenuto con varie assi di legno inchiodate insieme e dei frigoriferi presi in prestito al Red Arrow, il pub del padre di Becky, punto di ritrovo per i giovani della città. Quando arrivò salutò il barista, un giocatore di football dell’ultimo anno di cui non ricordava il nome, prese due birre e si voltò a osservare la festa: il Wood Party era la sua festa preferita, oltre a una delle poche cose che riuscivano a rompere la monotonia di una cittadina di provincia come Dawn Hill, per questo era contento quando riusciva bene ed era pieno di gente che si divertiva. La radura era gremita di ragazzi, sia attorno al falò sia verso il bosco che verso il fiume.

    Si avviò a passo svelto verso il fuoco, lottando contro il terreno irregolare e contro la folla per non rovesciare le birre. Quando raggiunse i due amici, vide che si erano lanciati in una delle loro solite discussioni, del tipo Mick Jagger versus Robert Plant. Per fortuna si fermarono quando arrivò. Lucas prese la sua birra e Becky lo salutò. Si misero a chiacchierare del più e del meno, e Becky si gettò a capofitto in un’esauriente spiegazione dei cambiamenti che suo padre aveva apportato al Red Arrow. Stavano ancora parlottando, quando Julie McLeaven, un’amica di Becky, arrivò piangendo e si gettò tra le sue braccia. Becky li guardò stupita, poi prese la testa di Julie tra le mani, le sistemò i capelli biondi e ricci dietro le orecchie e la costrinse a guardarla. I limpidi occhi azzurri della minuta ragazza erano offuscati dalle lacrime.

    Julie, cos’è successo?, le chiese Becky con voce ferma.

    Jason! Jason!, riuscì a balbettare tra i singhiozzi. … Mi ha tradita!. Tutti e tre si bloccarono. Jason Gilmore era un altro grande amico di Lucas e Jake, oltre che il ragazzo di Julie da quando avevano dodici anni, ed era in assoluto il ragazzo più affidabile, onesto e sincero che conoscessero. Era a dir poco impensabile che Jason potesse tradire qualcuno, figurarsi tradire Julie.

    Ne sei proprio sicura?, si intromise Jake.

    Certo che ne sono sicura! L’ho visto!, urlò la ragazza in un impeto di rabbia. Un ragazzo ubriaco stava ballando vicino al fuoco, e per poco non ci cadde dentro.

    Jake si avvicinò all’orecchio di Lucas: Resta qui con loro, vado a vedere cosa sta combinando Jason. Il ragazzo si avvicinò a uno dei tanti bidoni sparsi in giro per la festa, trangugiò la birra in una sola sorsata e gettò il bicchiere di plastica, poi si mise a cercare Jason con lo sguardo, tentando di penetrare la folla onnipresente e rumorosa.

    Hey, Jake!, sentì urlare dietro di sé, si girò e vide Laura Ferrucci, la sua ex vicina di casa. Indossava un golfino blu scuro e un paio di jeans neri, i lunghi capelli castani trattenuti all’indietro da un cerchietto dorato, gli occhi verdi sottolineati da un tocco di matita scura.

    Ciao, Laura, disse Jake, non immaginavo venissi anche tu. Era una ragazza tranquilla, di solito non le interessavano quelle feste.

    Infatti non volevo venire, ma alla fine Mark mi ha convinto. Mentre lo diceva due braccia muscolose, fasciate dal tessuto bianco e blu della giacca della squadra di football, la strinsero alla vita, e la faccia tonda con i corti capelli biondi di Mark Winchel spuntò da dietro la sua spalla destra, per salutarlo con il suo solito tono di superiorità: Seidel….

    Winchel…, rispose Jake freddamente, con un cenno del capo. Tra i due non correva buon sangue. Laura piaceva a Jake fin dalle elementari ma, nonostante Jake avesse, di solito, un discreto successo con le ragazze, lei lo aveva sempre considerato solo un amico. Ma al biondo giocatore di football questo dava comunque fastidio. Del resto, pensava Jake, come biasimarlo se voleva tenersela tutta per sé?

    Per caso avete visto Jason?, gli chiese.

    Chi, il rosso?, chiese Mark, che lo chiamava così per via dei capelli rossicci. Jake annuì, Laura disse che non lo avevano visto e chiese perché lo cercavano.

    Lo so che può sembrare incredibile, ma Julie dice che l’ha tradita, e volevo vedere dove si era cacciato.

    Mark sorrise, mostrando due file di denti da spot pubblicitario: Tradita? E con chi? Con una strafatta, forse. Chi mai vorrebbe baciare un rospo del genere?.

    Laura gli diede una gomitata e gli lanciò un’occhiataccia: Mi dispiace, Jake, ma non possiamo aiutarti. Tirò fuori il cellulare e guardò l’ora: Ora dobbiamo proprio andare. Buona serata. Lui la salutò con un cenno della mano e si fermò per un attimo a osservarli mentre se ne andavano, chiedendosi per l’ennesima volta cosa ci trovasse una ragazza come Laura in uno sbruffone come Mark. Continuò per altri dieci minuti buoni a girare a vuoto tra la gente, salutando a destra e a manca e chiedendo informazioni a tutti, ma nessuno sapeva dov’era Jason. Poi lo vide.

    Riconobbe da lontano i capelli rossi che si infilavano tra gli alberi, nel bosco, lontano dalla folla rumoreggiante, e notò, non senza stupore, che teneva per mano una delle ragazze più belle e più strane che lui avesse mai visto. Anche da lontano notò una riccia massa di capelli neri dai riflessi argentei che cadevano su un corpo sinuoso e pallido, coperto da un top cremisi sopra e da una lunga gonna nera sotto. Come faceva a non avere freddo? Infastidito da quell’insolito slancio di stupidità dell’amico, Jake decise di andare a prenderlo. Non voleva passare per impiccione, ma la situazione con Julie era già abbastanza brutta così, ed era meglio non peggiorarla ulteriormente.

    Si diresse velocemente verso gli alberi, al margine della festa, e vi si infilò in mezzo, stando attento ai rami e alle asperità del terreno. Subito all’interno del bosco si trovò in una piccola radura con un solo albero al centro, ben illuminata dalla luce lunare. Appoggiata con la schiena all’albero c’era la ragazza. La prima cosa che Jake notò erano gli occhi: erano gli occhi più belli che lui avesse mai visto, verdi come smeraldi, che sembravano scintillare alla luce della luna.

    Quello che notò subito dopo fu meno piacevole. La gonna di lei era alzata, Jason aveva i pantaloni calati e dava delle goffe spinte verso la ragazza che, leggera come una piuma, si sollevava e si abbassava a ogni movimento del giovane. Razza di idiota, ma che cazzo combini? Pensò Jake, quando vide con stupore che la ragazza aveva abbassato il viso sul collo di Jason, e sembrava come se… Come se stesse succhiando. Ma succhiando cosa? Poi vide il sangue. Il sangue che colava in sottili rivoli sulla pelle olivastra di Jason. La ragazza sollevò la testa di scattò e lo fissò. La sua bocca era sporca di sangue, i canini erano lunghi e appuntiti, e gli occhi risplendevano di una strana luce rossastra.

    Pensaci tu, disse con voce suadente mentre si chinava su Jason e ricominciava avidamente a bere. Solo allora Jake capì che non erano soli. Al margine opposto della radura c’era un ragazzo di colore, alto e muscoloso, con i capelli neri e corti, vestito con un paio di jeans e una camicia rossa.

    Cosa cazzo state facendo?! Jason, sei impazzito?, esclamò Jake, arrabbiato e preoccupato per Jason. Da Lucas si sarebbe aspettato, forse, l’essere coinvolto in un ménage à trois con una specie di masochista amante dei film sui vampiri, ma dal pudico e irreprensibile Jason proprio no. Il ragazzo era davanti a lui. Non sapeva come ci era arrivato, non l’aveva neanche visto muoversi. Un attimo prima era dalla parte opposta della radura, e adesso era a pochi centimetri da lui.

    Guardami, gli ordinò con voce roca, e Jake alzò lo sguardo verso i suoi occhi. E cambiarono. Gli occhi del ragazzo cambiarono. Erano occhi color nocciola, strani e magnetici come quelli della ragazza, poi cambiarono. Di colpo divennero neri, completamente neri, come se la pupilla si fosse espansa ingoiando il colore dell’iride, e Jake si sentì risucchiato al loro interno, senza possibilità di fuga. Apriti il colletto e resta immobile, gli ordinò l’altro.

    La mano di Jake scattò automatica verso la cerniera del giubbotto di pelle che gli copriva parzialmente il collo, senza che avesse neanche il tempo di chiedersi perché. Poi, con un grande sforzo di volontà, la fermò lì, a mezz’aria. Distolse lo sguardo dagli strani occhi del ragazzo e prese a fissarsi la mano, come se non fosse sua. Ti ho detto di aprirti il colletto, ripeté con veemenza l’altro. Jake lo guardò come se fosse pazzo.

    Non ci penso neanche. E adesso vattene, guardone, lasciami andare a prendere il mio amico. Fece per avanzare, col cuore che batteva a mille, ma la mano del giovane afroamericano gli si appoggiò al petto. Tentò di spingere, ma era come spingere contro un muro.

    Kayla, ho fatto come mi avete insegnato, ma non funziona. Jason aveva smesso di spingere, e rimaneva immobile. La ragazza alzò il viso, annoiata, si ripulì dal sangue con la lingua e spinse delicatamente Jason, che indietreggiò barcollando.

    Stai qui fino a che non torno, gli disse, poi si avviò verso di loro, con la gonna che ora poggiava al suolo strascicandosi sul terreno. Sei un idiota, Chinedu, guarda come si fa, disse al ragazzo scansandolo in malo modo con uno spintone e mettendosi di fronte a Jake. Questa volta Jake non dovette alzare lo sguardo, lei era alta poco meno di lui. Anche gli occhi di lei si trasformarono come avevano fatto quelli del ragazzo, e Jake, solo per un istante, si sentì nuovamente trascinato dentro quegli abissi.

    Apriti il colletto e stai immobile, gli disse.

    Ora basta, mi avete stancato, rispose pronto lui, ora veramente arrabbiato. Toglietevi di mezzo e lasciatemi portare via quell’idiota. Scansò la ragazza con la mano e fece per passare tra i due, ma con un gesto fulmineo lei gli portò una mano al collo e lo sollevò da terra. Tu sei pazza! Lasciami, urlò Jake, ansimando. Gli occhi di lei erano tornati come prima, ma lampeggiarono rossi per un istante, poi aprì la bocca mettendo nuovamente in mostra i canini appuntiti, lo avvicinò a sé e lo morse al collo. Fu un dolore allucinante. Per un attimo Jake temette di perdere i sensi, poi ritornò in sé e si sentì mancare di nuovo, e allora cominciò a sentire un freddo pungente là dove lei lo stava mordendo.

    All’improvviso cadde. Si ritrovò col sedere per terra e si portò velocemente una mano al collo. Sanguinava. Quella pazza lo aveva morso per davvero, ed ora era per terra anche lei. La ragazza si era portata le mani al collo e urlava come un’ossessa, mentre sottili rivoli di fumo si alzavano dal suo viso. Solo allora Jake notò che le sue mani non terminavano con delle normali unghie, ma con dei lunghi artigli affilati come rasoi.

    Si alzò dolorante e vide che il ragazzo si era portato vicino a lei, urlando il suo nome: Kayla! Kayla, che ti succede!. Anche il viso di lei era cambiato: era scavato e mortalmente pallido, gli occhi ardevano, rossi come braci, e la bocca era piena di denti acuminati e mortali. Poi, di colpo, la ragazza prese fuoco e cominciò a bruciare come una torcia. Lui si girò minaccioso verso Jake, che se ne stava lì, immobile, paralizzato dal terrore. Anche quello aveva subito la stessa, repentina metamorfosi della ragazza. Cosa le hai fatto?!, urlò con voce disumana avanzando lentamente.

    Non le ho fatto niente… Io… Niente…. Jake era sopraffatto dal terrore, indietreggiava senza guardarsi indietro, così finì con l’inciampare in una radice e cadde. Il giovane afroamericano, o il mostro che fosse, fu su di lui in un attimo, gli artigli levati in alto pronti a colpirlo, quando una freccia passò sibilando sopra la testa del ragazzo e si infilò nel suo stomaco. Quello indietreggiò, alzando lo sguardo su qualcosa dietro Jake, poi un’ombra, rapida e silenziosa, passò di fianco a lui e in uno scintillio metallico lo colpì. Il bracciò destro del ragazzo mostro cadde a terra mozzato di netto, e si polverizzò. Un altro scintillio, come una scheggia d’argento, e anche la testa cadde, trasformandosi in polvere ancora prima di toccare terra, e così fece il resto del corpo.

    Ci volle qualche minuto a Jake per riprendere il controllo di sé e rialzarsi. Quando lo fece, vide che al posto della ragazza c’era solo un mucchietto di ceneri fumanti, e al posto del ragazzo solo i vestiti stesi scompostamente a terra e sporchi di cenere. Davanti a lui stava una ragazza, vestita completamente di nero, giacca, pantaloni e stivaletti, con lunghi capelli biondi e lisci che le arrivavano alle spalle, due penetranti occhi azzurri e una lunga spada sporca di sangue nella mano destra. Jason era steso a terra, pallido come un morto, con due piccoli fori rossi sul collo, i pantaloni ancora calati.

    Cosa… Cos’è successo?, trovò la forza di chiedere Jake.

    Niente, rispose la ragazza, con voce tranquilla e controllata. Ti conviene rivestire il tuo amico e portarlo all’ospedale, in fretta. Si girò per andarsene, ma prima osservò Jake, incuriosita, soffermandosi a guardare i due piccoli fori che aveva anche lui sul collo, poi disse: Vi ha attaccato un animale, ricordalo. Raccolse da terra i vestiti dell’uomo e se ne andò, correndo veloce verso l’interno del bosco.

    Quando arrivarono al Dawn Hill Hospital era quasi l’una e mezza. Jake pensò, sorridendo, che non era mai andato via dal Wood party così presto. Inutile tentativo di sdrammatizzare. Non appena la ragazza bionda se ne era andata, aveva rivestito Jason, si era chiuso il colletto fino a sotto il mento ed era corso da Lucas. Erano tornati insieme a riprendere Jason mentre Becky chiamava un’ambulanza e Julie strillava come una pazza. L’operatore dell’ospedale gli aveva chiesto se potevano portarlo oltre il bosco, sulla statale, perché l’ambulanza non poteva attraversare il bosco per andare a prelevarlo, ci avrebbero messo molto più tempo.

    Tutti erano preoccupati e si erano tenuti per loro le domande che volevano fare a Jake. Quando arrivarono in ospedale, dove vennero chiamati i genitori di Jason, Lucas lo prese da parte e gli chiese spiegazioni, mentre le ragazze stavano sedute sulle sedie in corridoio.

    Allora, cos’è successo?.

    Non lo so, l’ho visto che correva dentro il bosco, ma quando sono arrivato era già così.

    Lucas si spazientì: Non raccontarmi balle, Jake, cos’è successo?.

    Te l’ho detto, non lo so, l’ho trovato così. Jake odiava dover mentire a Lucas, ma non poteva dirgli cos’era successo realmente. Anche perché non ne era sicuro nemmeno lui.

    Lucas stava per ribattere, quando arrivarono anche Laura e Mark, entrando dalla porta d’ingresso: Jake, Lucas, cos’è successo? Come sta Jason?, chiese Laura preoccupata. Jake ebbe un tuffo al cuore. Avrebbe dovuto mentire anche a lei. Maledizione.

    Credo… Che sia stato attaccato da un animale, disse appoggiandosi stancamente a una parete. Mentire alle persone importanti era maledettamente faticoso.

    Sta male sul serio?, chiese all’improvviso Mark, rompendo il silenzio che era momentaneamente calato su di loro. Mark Winchel era sicuramente un idiota, sbruffone e pieno di sé, ma in fondo era un bravo ragazzo. In quel momento uscì il medico, e tutti si diressero verso di lui, ricongiungendosi a Becky e a Julie. Il dottore stava parlando a bassa voce con i genitori di Jason, il signor Roger Gilmore, alto e leggermente ingrigito, sempre compito nei suoi jeans e nel suo gilet grigio, e la signora Louise Gilmore, bassa e rossiccia come il figlio.

    Il dottore chiese loro qualcosa indicando i ragazzi e il signor Gilmore disse: Certo, sono tutti suoi amici, hanno il diritto di sapere.

    Mentre Julie stringeva la mano di Becky tanto da farla diventare bianca, il dottore iniziò, rivolgendosi a Jake: Sei tu che l’hai trovato così, vero?. Jake annuì. Bene. Sei sicuro di non aver visto che cosa… Quale animale lo ha attaccato?.

    Altre bugie. Mi dispiace, ma confermo quello che ho già detto: l’ho trovato così.

    Doveva esserci un bel macello: ha perso una notevole quantità di sangue, ho dovuto effettuare una trasfusione. Il dottore era un uomo alto, bruno e stempiato. Si tolse gli occhiali. Non capisco come possa aver perso tutto quel sangue da quei due piccoli fori sul collo. Scese un altro silenzio imbarazzante, e Jake si affrettò a cambiare discorso, timoroso che qualcuno potesse dire ad alta voce quello che probabilmente tutti stavano pensando, ripescandolo dalla memoria dei libri o dei vecchi film dell’orrore. Quello che lui stesso aveva visto.

    Ora sta bene, però, vero?.

    Il dottore annuì: Sì, ora si è stabilizzato, ma dovrà rimanere qui ancora per qualche giorno, il tempo di accertarci che non abbia contratto alcuna infezione, poi potrà tornare a casa. Si perderà i primi giorni di scuola.

    Non credo che questo gli dispiacerà. Probabilmente è l’unica cosa buona di tutta questa storia, disse Lucas, e tutti scoppiarono a ridere. La tensione si stava lentamente sciogliendo.

    Ragazzi, penso che ora possiate anche andare a casa, disse il dottore.

    Io vorrei rimanere con lui, disse timidamente Julie, gli occhi ancora lucidi per le lacrime versate. Il dottore disse che poteva rimanere, a patto che non lo disturbasse. Julie avvertì telefonicamente la madre, per rassicurarla sulla salute di Jason e per dirle che sarebbe rimasta lì. Mark e Laura se ne andarono, Lucas e Becky fecero lo stesso. Jake disse a Lucas che sarebbe tornato a casa a piedi e, nonostante le insistenze dell’amico, lo fece.

    Erano ormai le due passate. La luna era alta nel cielo scuro e una fitta nebbiolina si stava lentamente alzando da terra. Jake era a tutti i costi voluto tornare a casa a piedi per riflettere sugli strani eventi di quella notte e per evitare le insistenti domande che Lucas gli avrebbe sicuramente posto. Non poteva credere a quello che aveva visto. Eppure era successo, tutto sembrava confermarlo. Jason era stato aggredito da due vampiri. Era incredibile, impensabile, surreale, impossibile. Eppure era così. Ma ora che la situazione si era calmata, nella mente di Jake sorgevano spontanee altre domande: chi era quella strana ragazza che aveva ucciso quella creatura in pieno stile Buffy? Perché Jason era sembrato obbedire ciecamente agli ordini della ragazza mentre lui non lo aveva fatto? Ma soprattutto, perché, quando la vampira, se quello era veramente, lo aveva morso e aveva bevuto il suo sangue, era caduta a terra e aveva preso fuoco?

    Con la mente in subbuglio a causa di tutti quegli interrogativi, Jake non si accorse di essere arrivato nella piazza del paese. Era abbastanza grande per essere il centro di un paesino di provincia. Era circondata da negozi e case, e al centro c’era la fontana con la statua dei fondatori della città, i coniugi Dawn, gli stregoni, le cui riproduzioni in pietra zampillavano acqua nel bacino circostante. L’unica fonte di turismo di Dawn Hill erano gli appassionati di esoterismo e di soprannaturale che venivano da ogni angolo degli Stati Uniti, a volte anche dall’estero, per visitare quella che era chiamata la piccola Salem. Si diceva, infatti, che Dawn Hill fosse stata fondata da un piccolo gruppo di stregoni fuggiti da Salem nel periodo della caccia alle streghe, nel 1692, ai piedi della collina che si chiamava, appunto, Dawn Hill. Balle. Cazzate grosse come case. Secondo Jake, secondo i suoi genitori, e anche secondo i tre quarti degli abitanti di Dawn Hill, era una voce messa in giro dall’ex sindaco per alimentare il turismo.

    Improvvisamente Jake udì un basso ringhio che lo fece voltare. Niente. Eppure lo aveva sentito, era sicuro, aveva sentito un ringhio, come quello di un animale. Si era talmente spaventato che aveva subito dimenticato le sue riflessioni ed era tornato nel mondo reale. Tuttavia era solo. La nebbia si era alzata, arrivando all’altezza della vita, e la fredda aria notturna aveva ormai cacciato via ogni calore dall’ambiente. Piccoli sbuffi di fumo uscivano dalla bocca di Jake mentre respirava. Un altro ringhio, poi lo vide. All’inizio gli parve poco più che un’ombra inconsistente in mezzo alla nebbia, poi si mosse e si avvicinò a lui, sbucando da dietro la fontana dei fondatori.

    Era un lupo, col pelo nero e lucido, gli occhi azzurri come ghiaccio che avevano qualcosa di umano, come una debole scintilla di consapevolezza, che negli animali solitamente manca. Il lupo arrivò a pochi metri da lui e scoprì i denti, ringhiando rabbiosamente. Il cuore di Jake cominciò a battere come se fosse sul punto di scoppiare, la paura gli attanagliò il petto, minacciando di sopraffarlo. Cosa ci faceva un animale del genere lì, nella piazza di Dawn Hill? Il lupo si acquattò, come se si preparasse a saltare, ad attaccare. Per Jake fu troppo. Dimenticando ogni cautela, prese a correre disperatamente, a correre alla massima velocità che il suo corpo gli permetteva, sentendo sempre il ringhio del lupo dietro di lui e avvertendo una strana sensazione, come se potesse avvertire il fiato caldo dell’animale proprio sul collo.

    Quando, circa dieci minuti dopo, arrivò a casa, aveva il fiatone. Aveva corso per tutto il breve tragitto e si era infilato di corsa nell’abitazione, aveva inchiavato la porta, controllando due volte di averlo fatto, ed era corso in camera sua. Ora era lì, col fiato corto per la paura e

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