La Firenze segreta di Dante
Di Dario Pisano
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Una giornata tra i monumenti sulle tracce di Dante Alighieri
Nelle prime terzine del XXV canto del Paradiso, Dante rivela il suo doloroso sogno: ritornare a Firenze ed essere incoronato poeta, nel luogo stesso (il Battistero fiorentino) dove era stato battezzato. Questo libro è un’esplorazione narrativa dei luoghi che custodiscono la memoria dell’avventura umana e poetica di Dante Alighieri, segnata dall’esilio. Attraverso un itinerario percorribile in un giorno, La Firenze segreta di Dante ci guida in un percorso suggestivo, fortemente ancorato ai versi danteschi. Il primo biografo del sommo poeta, Giovanni Boccaccio, ha infatti più volte posto l’accento sul rapporto fra «Firenze madre e matrigna» e il suo più illustre figlio, amato e respinto. In questo libro si intende recuperare i momenti più intensi e concitati della riflessione boccacciana (e di altri biografi) per dare maggior profondità e prospettiva storica alle memorie dantesche di Firenze, invitando il lettore a soffermarsi su ognuna delle tappe proposte con il giusto riferimento poetico.
Dario Pisano
è nato a Roma nel 1986. Dopo la laurea in Filologia Romanza presso l’Università degli Studi di Roma Tre, ha proseguito i suoi studi con un dottorato a Firenze, occupandosi di Lorenzo de’ Medici lettore di Dante. All’attività di ricerca affianca un lavoro di carattere divulgativo. Collabora con RAI Italia nell’ambito di una serie di trasmissioni dedicate all’illustrazione dei canti danteschi (Maratona Infernale e La Montagna Infinita). Tra le sue pubblicazioni, oltre ad articoli apparsi su riviste, si segnalano: Dante nella poesia di Lorenzo de’ Medici e Nel mezzo del cammin di nostra vita.
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Anteprima del libro
La Firenze segreta di Dante - Dario Pisano
FIRENZE COME ITACA.
IL BATTISTERO
immagineIl Battistero di San Giovanni in un’incisione di Barberis da La Patria di G. Strafforello.
immagineLa statua in bronzo di San Giovanni Battista, realizzata da Lorenzo Ghiberti, collocata all’esterno della chiesa di Orsanmichele.
Mancano nove canti alla fine della Commedia. Il nostro turista dell’oltretomba ha esplorato la voragine infernale; ha scalato la montagna del Purgatorio (quella clinica dell’anima dove «l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno»). È salito di cielo in cielo verso la meta finale: la visione di Dio.
Il protagonista del viaggio ha uno statuto eccezionale: è nello stesso tempo se stesso e tutti gli uomini (Ezra Pound, tra i maggiori poeti del Novecento, ha detto che Dante è l’everyman, l’ogni uomo)².
È tutti gli uomini perché il suo itinerario ha un altissimo profilo pedagogico indirizzato a una redenzione del genere umano; il fine è «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (rimuovere gli uomini dalla miseria morale e spirituale del presente e condurli verso uno stato di felicità).
È se stesso perché la successione delle cantiche scandisce un continuo confronto con il proprio vissuto: le sue passioni e le sue frustrazioni occupano il centro della scena di questo teatro di memoria individuale e collettiva che è la Divina Commedia.
All’inizio del venticinquesimo canto del Paradiso, l’autore si abbandona all’intenerimento memoriale più dolce.
Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
L’auspicio è questo: se mai possa accadere un giorno che il poema sacro, scritto dal cielo e dalla terra (alla stesura del suo poema hanno collaborato in pari misura l’ingegno dell’uomo e la grazia divina), la scrittura del quale mi ha reso privo di forze, possa vincere la crudeltà dei miei concittadini che mi hanno allontanato dal bello ovile dove ho aperto gli occhi al mondo (dove sono stato bambino, metaforicamente agnello), con altra voce e con altra pelle ritornerò nella mia città e otterrò la corona di poeta nel luogo stesso dove fui battezzato.
Il desiderio di essere incoronato poeta nel luogo del suo battesimo è meglio spiegato nella terzina immediatamente successiva:
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Attraverso il battesimo egli entrò nella fede grazie alla quale ora in cielo è stato premiato da Pietro che lo ha appena esaminato proprio in merito al dono più alto che l’uomo possa ricevere nella vita. Il battesimo è «la porta di ingresso alla fede». Nel quarto canto dell’Inferno, Dante aveva esplorato il nobile castello del limbo, che accoglie le anime di coloro i quali – pur avendo vissuto una vita di grande serietà morale – morirono senza essere stati battezzati.
Virgilio gli aveva detto:
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta della fede che tu credi;
Senza il battesimo, la partita della salvezza non può neanche essere disputata. In questa zona franca dell’Inferno che è il Limbo non si amministrano tormenti corporali, ma si sconta la disperazione intellettuale che consiste nel desiderio perennemente frustrato di vedere Dio.
A Firenze, il battesimo si amministrava nel Battistero (che si trova fra piazza del Duomo e piazza San Giovanni, nel centro religioso della città), che è tuttora davanti agli occhi di milioni di persone che vengono da ogni parte del mondo.
immagineBattistero, Porta Ghiberti detta del Paradiso
, in un’incisione da La Patria di G. Strafforello.
Come tutti i battisteri italiani, anche quello fiorentino ha una pianta ottagonale: nel simbolismo numerologico della cultura medioevale, il numero 8 è il simbolo della resurrezione e dell’eternità, poiché inaugura la settimana che segue a quella della creazione del mondo. Il battesimo è, del resto, il sacramento che celebra la liberazione dell’uomo dal peccato originale e la sua rigenerazione.
Nel luogo dove ha ricevuto l’identità di cristiano e di cittadino, Dante spera di tornare con «il nome che più dura e più onora»: quello di poeta. La Commedia dantesca è, tra le altre cose, un’Odissea cristiana. Firenze sta a Dante come Itaca a Ulisse. A differenza dell’eroe greco, Dante non tornerà più nel luogo in cui ha aperto gli occhi al mondo; però, da cristiano, sa che la vera patria è quella celeste, l’agostiniana città di Dio, che a lui è dato esplorare da vivo.
Eppure, il ricordo di Firenze rimane il più lancinante.
Firenze, come lui, si inciela; è un’ossessione alla quale è impossibile sottrarsi. E il «bel San Giovanni» (ai suoi tempi l’edificio più grande e più riccamente decorato di Firenze) è sempre davanti ai suoi occhi. Questo era il tempio cittadino per antonomasia, dedicato a san Giovanni Battista, patrono della città. Ma, come scrive Marco Santagata,
l’insistenza dantesca su questo monumento mostra come una persona esule da molti anni possa restare legata a miti e simboli che nel frattempo, per coloro che in città hanno continuato a vivere, hanno perso di valore. Che San Giovanni fosse il tempio cittadino per antonomasia è stato vero a cominciare dal xii secolo, da quando cioè la gestione di quella chiesa, benché vescovile, era stata presa in carico dall’Opera di San Giovanni, vale a dire dall’amministrazione cittadina. Ma a cavallo del Due e Trecento Santa Reparata, al termine di un lungo processo, aveva conquistato la supremazia sulla chiesa sorella. Il processo era culminato nella trasformazione, anche architettonica, del vecchio tempio nella grande chiesa di Santa Maria del Fiore (1296). Nel giro di pochi anni sarebbe stata la nuova cattedrale con il suo culto mariano a rappresentare Firenze, dal punto di vista sia religioso sia politico-civile³.
All’epoca, l’usanza prevedeva un battesimo collettivo due volte l’anno: il Sabato Santo e il sabato precedente la Pentecoste. Quasi sicuramente Dante fu battezzato il Sabato Santo del 27 marzo 1266. La cerimonia prevedeva anche l’impositio nominis (la scelta del nome).
immagineIl Battistero e la Cattedrale di Santa Maria del Fiore: disegno del xvii secolo tratto dal vi tomo delle Notizie Istoriche delle Chiese Fiorentine di Giuseppe Richa.
Un documento del 3 gennaio 1343 (CDD 183) ci offre una testimonianza ulteriore e riporta: «Cum Durante, olim vocatus Dante, cd. Alagherii de Florentia, fuerit condempnatus […]». Il nome di battesimo, in omaggio al nonno materno, era quindi Durante, abbreviato poi in Dante. Filippo Villani scriverà: «Poetae in fontibus sacris nomen Durante fuit, sed syncopato nomine, pro diminutivae locutionis more, appellatus est Dante». Probabilmente il poeta non ebbe mai ad adoperare il nome di Durante: le uniche volte che si autonomina, lo fa nella forma ipocoristica. E il nome Durante «non appare in alcuno dei documenti in vita del poeta, né nel ricordato atto del 1283, né nella testimonianza del 6 settembre 1291, né nei verbali dei Consigli o nelle sentenze di condanna»⁴.
Nell’allegorismo medioevale esisteva una vera e propria scienza dei nomi. Un antico adagio recitava nomen omen: il nome è portatore di un destino, dare un nome significa attribuire un destino. L’interpretatio nominis aveva un grande seguito, e Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante ci ha consegnato una riflessione stupenda in merito al nome del poeta, accorgendosi, lui per primo, che quel nome è il participio presente del verbo dare e calza perfettamente addosso a uno dei più grandi elargitori di regali poetici che siano mai apparsi nella storia:
Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per sé medesimo si dimostra; perciocché ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato Dante. Che costui ne desse volentieri, l’effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilità si truova da ciascuno che con caritatevole ingegno cercar ne vuole.
Mentre nel canto venticinquesimo del Paradiso l’autore fa riferimento al luogo del suo battesimo, tre canti prima aveva formulato un’invocazione al suo segno zodiacale, quello dei Gemelli, consegnandoci una nuova chiave biografica.
Durante la salita all’Empireo, venutosi a trovare proprio in quella costellazione, prega i Gemelli di aiutarlo nell’ultimo impegnativo tratto della sua ascesa e ricorda come il sole fosse congiunto con loro nel momento in cui, per la prima volta, aveva respirato l’aria di Toscana: «quand’io sentì di prima l’aere tosco». Nell’istante del suo primo respiro, quando gli influssi degli astri agiscono con più forza, quelle «gloriose stelle» avevano infuso in lui tutto «l’ingegno» di cui, grande o piccolo che sia («qual che si sia»), egli si sente dotato.
O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;
Gli astrologi dell’epoca sostenevano che, se nella casa
dei Gemelli erano presenti anche Mercurio e Saturno (congiunzione che si era verificata proprio nel 1265), i nati sotto il segno erano dotati di eccellenti qualità intellettuali e di particolari capacità di scrittura.
Dante sarebbe dunque nato tra il 21 maggio e il 21 giugno (periodo dell’anno nel quale il sole è nella costellazione dei Gemelli) 1265, e sarebbe stato battezzato l’anno successivo nell’antico fonte battesimale di San Giovanni, distrutto nel 1576 quando il tempio fu preparato per un battesimo principesco.
A questo luogo è tra l’altro legato un aneddoto sulla vita del poeta, divulgato da lui stesso nelle terzine del diciannovesimo canto dell’Inferno, dedicate alla descrizione della terza bolgia:
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fòri,
d’un largo tutti e ciascuno era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.
È qui che l’autore racconta il curioso aneddoto del salvataggio al battistero: quando era priore, vi aveva salvato un bambino. Un gruppo di ragazzini giocava a rincorrersi in piazza, e uno di loro per nascondersi entrò in chiesa, cadendo accidentalmente dentro una delle anfore di terracotta contenenti acqua lustrale. Stava per annegare, imprigionato nello stretto pertugio. Tra le urla e il panico generale, non si trovava il modo di estrarlo dal buco. Dante arrivò sul posto, si fece portare una mannaia e riuscì a rompere il recipiente salvando il malcapitato bambino. La gente applaudì il suo tempestivo soccorso.
immagine«O gloriose stelle…»: la costellazione dei Gemelli, cara a Dante Alighieri.
Perché Dante racconta questa vicenda? Abbiamo detto che secondo la sensibilità medioevale parlare di sé era lecito solo se entravano in gioco elementi insegnativi e pedagogici. Probabilmente l’autore si era accorto che quel gesto ne aveva ripetuto uno analogo compiuto dal profeta Geremia. Gli abitanti di Gerusalemme si erano dati a culti profetici, e allora Dio aveva ordinato a Geremia di rompere un’anfora nella valle antistante la Porta dei cocci per profetizzare loro che la città sarebbe stata distrutta. Dante, dunque, si è persuaso che anche il suo era stato un gesto profetico, e lo comunica ai lettori attraverso un procedimento figurale
: la rottura dell’anfora con l’acqua benedetta replica il gesto e, nello stesso tempo, il messaggio del profeta biblico. Come Geremia si era scagliato contro l’idolatria degli ebrei, lui, con la Commedia, si scaglia contro la simonia, ossia la moderna idolatria della Chiesa. Dante così isola nell’ambito del proprio operato quei gesti nei quali baluginava un carisma profetico. Tornando al Battistero, le origini di questo monumento costituiscono uno dei temi più dibattuti della storia dell’arte italiana. La tradizione cittadina riteneva che l’edificio sorgesse su un antico tempio dedicato al dio Marte, il primo protettore della città. La notizia è trasmessa dallo storico di Firenze Giovanni Villani nel quinto paragrafo del secondo libro della Nuova Cronica, intitolato Come in Firenze fu fatto il tempio di Marti, il quale oggi si chiama il Duomo di Santo Giovanni, dove leggiamo che
i cittadini di quella, essendo in buono stato, [i fiorentini che avevano raggiunto un livello florido di benessere, n.d.A.] ordinaro di fare nella detta cittade un tempio maraviglioso all’onore dello Iddio Marte, per la vittoria che’ Romani avieno avuta della città di Fiesole, e mandaro al senato di Roma che mandasse loro gli migliori e più sottili maestri che fossono in Roma, e così fu fatto. E feciono venire marmi bianchi e neri, e colonne di più parti di lungi per mare, e poi per Arno; feciono condurre e macigni e colonne da Fiesole, e fondaro e edificaro il detto tempio nel luogo che si chiamava Camarti anticamente, e dove i Fiesolani faceano loro mercato. Molto nobile e bello il feciono a otto facce, e quello fatto con grande diligenzia, il consecraro allo Iddio Marti, il quale era Iddio di Romani.
La tradizione recuperata da Giovanni Villani è ripresa da Dante e registrata nelle terzine del canto tredicesimo dell’Inferno, ambientato nella selva dei suicidi, dove un’anima dannata si presenta al viator con queste parole:
I fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;
Chi parla è un fiorentino suicida che menziona la sua città la quale, divenuta cristiana, cambia il suo primo protettore (cioè il Dio Marte) con san Giovanni Battista: per questa ragione, spiega, il vendicativo dio della guerra non smetterà mai di seminare i germi della discordia. Ecco l’origine della conflittualità endemica che contrassegnava la vita del comune, quindi: l’antico dio, dopo che i fiorentini gli volsero le spalle scegliendo un altro patrono, si vendicò seminando nei cuori dei cittadini i germi del rancore e dell’odio.
Prima della conversione al cristianesimo, le statue di Marte pullulavano in tutti gli angoli e i crocicchi della città, per essere poi distrutte ad eccezione di un esemplare posto su una torre presso l’Arno. Dopo la devastazione operata da Attila (ma in realtà si trattava dell’ostrogoto Totila), i cittadini ritrovarono nel fiume solo la parte inferiore della statua, e per l’antico superstizioso timore la rimisero in piedi presso il Ponte Vecchio. Questo è spiegato nei versi successivi:
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Se non fosse che presso il ponte sull’Arno rimane ancora una qualche immagine visibile («vista») di quel dio, quei cittadini che la rifondarono sulle ceneri rimaste dopo il passaggio leggendario di Attila l’avrebbero ricostruita inutilmente (perché Marte l’avrebbe distrutta ancora). Quel monumento oggi non c’è più. Se ne sono perse le tracce dopo l’alluvione del 4 novembre 1333 quando fu travolto di nuovo e mai più ritrovato.
Le strade fiorentine sono corredate di targhe commemorative che ricordano i peggiori disastri alluvionali. La più antica è posta in via San Remigio, all’angolo con via de’ Neri. Una trecentesca lapide quadrata sormontata da una croce ricorda, con una mano scolpita tra i flutti, il livello raggiunto dalle acque nello straripamento di giovedì 4 novembre 1333 (per una curiosa, tragica coincidenza, la più recente alluvione del 1966 cadde sempre in quel giorno), che provocò la distruzione di tutti i ponti della città, il più antico dei quali venne ricostruito diventando l’attuale Ponte Vecchio. Nella Divina Commedia, l’altra celebre occorrenza del battistero fiorentino è nel canto quindicesimo del Paradiso, dedicato al racconto che il trisavolo di Dante, Cacciaguida, fa della Firenze antica. Vissuto nel xii secolo, Cacciaguida morì in Terra santa al seguito dell’«imperador Currado» (Corrado iii di Svevia, imperatore dal 1138 al 1152). Dante lo incontra nel cielo di Marte, nel quale scendono verso il pellegrino gli spiriti che hanno combattuto per la