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E-book521 pagine8 ore

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Info su questo ebook

Quando la guerra finì, zio Ciccito era un garzone di cantiere con la licenza elementare e pochi soldi in tasca. Ciccito partì alla ventura e non diede più notizie di sé per quindici anni finché un giorno ritornò capo attrezzista di una grande compagnia di mimi che girava il mondo.

Lo ospitammo nella nostra casa al mare. Era estate, io e lui sedevamo in veranda, fuori splendeva un sole abbagliante. Ciccito teneva intrecciate sul grembo le mani larghe come pale, la sua mole celava la seggiola di vimini e lui pareva sospeso in aria. Come cedendo a una tentazione, zio disse:

- Credimi, ci sono posti molto più felici di questo.

Io lo guardai senza capire. Lui proseguì:

- Non c’è neppure teatro... dove c’è il teatro, la grande musica, c’è la vita. Qui tutto è immobile, si tira avanti perché nascono i figli. Non è un posto fatto per i giovani questo.

Zio cantava brani d’opera, declamava a memoria Shakespeare, ma soltanto quando papà non poteva udire perché mio padre considerava il teatro una “cosa voluttuaria” e i discorsi di Ciccito chiacchiere di un randagio che non era stato capace di farsi una posizione. Papà mi vedeva pendere dalle labbra di quell’omone calvo che parlava d’arte suadente e ironico, e, come se un presagio lo inquietasse, tentava di spegnere la mia ammirazione borbottando severi giudizi su di lui. Avrebbe voluto dirmi:

“Vedi dove l’ha portato “l’arte”? Adesso è povero e precario”.

Ma io, anche se ero ancora un ragazzo, avevo deciso che volevo la mia avventura, come Ciccito.

LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2016
ISBN9788892537354
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    Anteprima del libro

    Ci sono posti molto più felici di questo - Andrea Pirro

    QUARTA

    PARTE PRIMA

    Mekkanika

    Ho cominciato a sistemare le mie commedie da Gaetano, nel suo negozio di articoli per ufficio e cartoleria. Mi piaceva l’idea di adoperare una macchina che mi permettesse di montare e smontare le frasi, rimaneggiare la scrittura finché non fosse perfetta. Oggi questo si fa col computer, ma a quel tempo i pc erano una novità che costava un occhio della testa. Un amico mi presentò Gaetano e questi, forse per la curiosità di vedere che bestia fosse uno scrittore, mi fece provare una macchina da scrivere tedesca che aveva una caratteristica nuova: la memoria. Pigiavo i tasti, e le parole scorrevano su un display verde. Battuto il numero di caratteri corrispondente a una riga, la macchina, che fino a quel momento era rimasta silente, stampava sulla carta, poi taceva in attesa della riga successiva. La macchina era enorme, bianco avorio, complicatissima da usare. Il suo manuale di istruzioni era grosso come un libro. Dovetti studiare a lungo per impadronirmi dei comandi. La macchina era esposta nella vetrina del negozio, su d’una scrivania di laminato. Per provarla passai il mese di luglio dentro quella vetrina, in compagnia di una cassettiera a rotelle in plastica rossa, un tavolo per geometri, un teodolite montato su treppiede, registratori di cassa di varie dimensioni, l’uno accanto all’altro a formare una scala. La vetrina era larga cinque passi, chiusa da un unico grande cristallo che dava su una via trafficata, dove le auto si incolonnavano al semaforo. Talvolta passava un bimbo che si fermava e restava incantato a osservarmi con le gambette divaricate, poi correva dalla mamma e le diceva:

    - E’ un uomo vero, mamma! Non è finto!

    Io avrei preferito un luogo appartato, ma dovevo adattarmi all’offerta di Gaetano. Del resto c’era vantaggio per entrambi: io in vetrina trovavo la macchina pronta per l’uso, una comoda poltroncina; lui non perdeva occasioni di vendere un articolo che giaceva in magazzino da troppo tempo.

    Fu in quella circostanza che conobbi il commercio, le mattinate punteggiate di piccole vendite, l’attesa del cliente importante. Alla fine succedeva sempre qualcosa. Se non si vendeva un grosso articolo, arrivava la richiesta di preventivo da un ente pubblico: pagine e pagine di mobili, macchine, materiale di consumo.

    Gaetano ha imbroccato il filone giusto - mi dicevo. - L’ufficio è un articolo che non vedrà mai crisi.

    - . -

    Al negozio la giornata iniziava alle nove, quando dal traffico spuntava Lalla, la sorella di Gaetano, che faceva da segretaria e commessa. Lalla infilava la chiave nelle saracinesche, dava due giri, poi aspettava che arrivassero i garzoni addetti alle consegne perché le sollevassero. Non erano elettriche quelle serrande, c’era da spezzarsi la schiena nel tirarle su. Una crosta di polvere ricopriva la verniciatura color caffè; le luride tende parasole che le sormontavano parevano dimenticate aperte da sempre. Lalla entrava in negozio, accendeva la fotocopiatrice, passava il piumino sulle scrivanie e sugli altri mobili dell’esposizione, rispondeva al telefono che già squillava, concordava le consegne coi ragazzi. Gaetano arrivava più tardi, ad un’ora qualsiasi della mattinata, lento, il volto segnato dalle occhiaie dell’insonne, l’abito di grisaglia grigia, sempre lo stesso. Se la sorella o i garzoni gli rivolgevano qualche domanda, lui si fermava a dare laconiche direttive, altrimenti tirava dritto verso il fondo del negozio, sotto il soppalco, dove la greve luce di una lampada al neon rischiarava la sua scrivania di ferro dipinto.

    Gaetano era sceso in città da un paese di montagna nei primi anni ottanta, aveva aperto quel negozio insieme a un socio e gli era andata bene, forse perché la fortuna arride agli inesperti, forse perché in quell’epoca era facile aprire e fare buoni affari. Gote rossicce, palpebre e naso tartarugheschi, sguardo poco mobile nel volto assorto in un disdegnoso torpore, Gaetano si muoveva tenendo la mano sinistra sotto la cintura, come Napoleone Bonaparte, perché un cronico bruciore affliggeva il suo ventre che lui credeva roso da un’ulcera perforante. L’altra sua ossessione era il danaro. Il danaro gli occupava la mente come un incessante sibilo di diapason, e gli faceva ripetere sovente che non sarebbero dovute esistere le domeniche. Gaetano era taciturno, raramente di buon umore; soltanto argomenti come sesso, ricchezza e potere gli strappavano un digrignar d’incisivi sporchi di catrame, un sorriso feroce come quello dei cattivi dei cartoni animati. Si professava comunista, non assicurava i dipendenti contro gli infortuni, pagava gli stipendi con mesi di ritardo, quando lo supplicavano col cappello in mano. Mi colpì il suo modo di vendere, perché allora io avevo un concetto romantico del commercio, vedevo il negoziante come una persona affabile, capace di ispirare fiducia. Gaetano, all’ingresso di qualunque visitatore che non avesse l’aria suadente del politico o il sussiego del professionista affermato, non si muoveva dal suo scranno. Torpido e indifferente lasciava che Lalla chiedesse che cosa il signore desiderasse e mostrasse gli articoli. Al primo intoppo della trattativa il predatore usciva dalla tana, il sottomarino atomico lasciava la base segreta sotto il promontorio. Altero come un deus ex machina, Gaetano s’impadroniva della scena, e, senza neppure presentarsi, affrontava il cliente in maniera ruvida. Ed ecco bottegai induriti da anni di commercio illuminarsi perché intuivano di trattare col titolare. Gaetano cavalcava quell’attimo di soggezione sferzandoli col suo tono degnato, con asserzioni che non ammettevano dubbio sulla bontà del prodotto, sproloquiando in un gergo tecnico-americano che prometteva scherno e vergogna a chi si fosse lasciato sfuggire di non aver inteso o si permettesse di contraddirlo. Allorché la trattativa verteva su un grosso acquisto, c’era un passaggio cruciale che si ripeteva: quello in cui i clienti scrutavano Gaetano cercando sincerità, lealtà, onore, insomma qualcosa di più consistente dell’oggetto di plastica e metallo che stavano per comprare. Sentendosi avvolgere da quegli sguardi Gaetano impietriva. Tutte le molecole del suo corpo conoscevano quello scrutare, aspettavano quel momento. Aveva sparato le sue cartucce e adesso era apatico come un idolo di giada. Il prezzo era fissato, non l’avrebbe cambiato più perché corrispondeva alla qualità della merce, perché la coerenza contava più del danaro, perché il danaro era nulla in confronto alle verità che aveva rivelato sul prodotto, allo sgarbo che gli avrebbero fatto se non lo avessero acquistato.

    Dalla mia postazione in vetrina assistevo a quelle scene e le confrontavo coi colloqui che lo zio Orlando, il mio capo-studio, teneva con i clienti. Nello studio legale capitavano due tipi di cliente: persone oneste, assetate di giustizia, oppure briganti che cercavano il modo di scansare la legge. A questi ultimi il vecchio avvocato rispondeva spavaldo, poiché era vasto l’armamentario a disposizione per soddisfare le loro esigenze. Col galantuomo il mio capo si faceva sibillino… le sue ragioni erano solide, sacrosante, ma la via per farle valere lunga e incerta. Sette anni, forse dodici sarebbe durato il processo. Ma questo il mio capo preferiva non dirlo, perché il cliente, messo di fronte a un abisso simile, poteva rinunziare alla causa, oppure poteva chiedersi se un avvocato più tosto sarebbe stato capace di strappare un successo in minor tempo. Il cliente scalpitava, la sua brama di rivalsa era oro. Bisognava prenderlo quell’oro, non buttarlo dalla finestra, tanto meno lasciarlo ad altri. Un timbro su un foglio di carta bollata, una firma, e la procura era pronta. E così un altro carro con le ruote quadrate partiva, come gli altri carri allineati nello schedario si sarebbe trascinato fino a giungere in un luogo dove la polvere del tempo avrebbe confuso torti e ragioni in un groviglio inestricabile, dove l’unica cosa concreta sarebbe stata la sfilza delle parcelle.

    Mi chiedevo chi facesse il lavoro più onesto: il mio capo-studio o Gaetano, col suo maccheronico gergo tecnico-americano?

    Il negozio aveva una manciata di visitatori affezionati. Il più assiduo era Silvano, il fidanzato di Lalla. Questi era un aviere dagli occhiali a specchio rialzati sulla fronte, come usano i campioni di sci dopo un arrivo vittorioso. Lalla ne festeggiava l’entrata con un repertorio di espressioni che lo facevano grande e davano a vedere che loro due formavano una coppia straordinaria. Silvano sorrideva scoprendo gengive equine, mentre la divisa color carta da zucchero moriva sulla figura molle, sulle spallucce cadenti, sull’adipe del ventre. Le giornate di Silvano correvano verso la partita domenicale dell’Inter, il perno di tutti suoi discorsi. Quando non parlava della squadra del cuore, Silvano si intratteneva sull’ultimo finto incidente d’auto che aveva organizzato per fregare le assicurazioni, ne descriveva le minute dinamiche facendosi beffe dei periti e dei liquidatori che considerava una genia di minorati mentali.

    Un altro frequentatore del negozio era il signor Maurizio, il marito della padrona della lavanderia, tre civici più avanti, di fronte al semaforo. Quello strano ometto dallo sguardo fisso, come incollato alle lenti degli occhiali, i boccoli infantili che cadevano sulle orecchie, entrava caricando il peso del corpo da una gamba all’altra, come resistendo allo stimolo a urinare. Sua moglie gli dava incarichi semplici: ricevere i capi quando lei era assente, comprare pane e latte, portare la busta dell’immondezza al cassonetto. Maurizio faceva qualche fotocopia, oppure acquistava nastri per il registratore di cassa, oppure passava in negozio solo per salutare Lalla che lo accoglieva materna e gli parlava col tono carezzevole che si usa coi bambini. Accadeva di quando in quando che nel suo giro di commissioni Maurizio perdesse l’orientamento, si smarrisse e fosse riportato a casa dalla polizia. Una di quelle volte, in una piazza qualsiasi, Maurizio fu colto da un raptus di rivolta. Montato su una panchina, arringò pensionati e bambinaie scagliandosi contro il fisco rapace. Per un’ora ebbe un seguito berciante che le telecamere immortalarono. Il telegiornale si occupò di lui, lo intervistò e ne fece il protagonista del giorno.

    Altri due ospiti ricorrenti erano Bruno e il signor Baratella. Bruno sembrava un grosso Charlot: gli stessi occhi scuri e liquidi, baffetti, la chioma crespa e rigogliosa, con l’aggiunta di due guance cadenti da mastino napoletano. Incedeva seduto, i piedi tirati avanti da fili invisibili. Lo credetti un cliente la prima volta che entrò in negozio, dall’accoglienza che Lalla gli riservò intesi che era delle sue parti. Lui e Gaetano uscirono per andare al bar, così Lalla ebbe modo di dirmi che suo fratello e Bruno erano stati compagni di scuola e poi soci d’affari. Era lui il socio col quale Gaetano aveva aperto il negozio.

    Il signor Baratella era un romagnolo biondiccio e chiaro d’occhi, una carnagione rosea, un volto affabile. L’aspetto curato e il portamento disinvolto dicevano che era un uomo di mondo. In negozio lo salutavano come un personaggio importante; dalla sua caverna Gaetano gli concedeva un sorriso strappato al torpore ipocondriaco. Baratella era dirigente di un’industria che fabbricava registratori di cassa. Le sue visite, come quelle di Bruno, erano regolari e parevano rispettare un rituale. Duravano ore, mattinate intere, prevedevano molteplici andate al bar, lunghe passeggiate sul marciapiede. Quando rientravano in negozio, i due sedevano l’uno di fronte all’altro, separati dalla scrivania, e restavano in silenzio. Gaetano assumeva un’aria acida, fissava lontano, oltre le vetrine, fumando lentamente. Baratella resisteva al suo posto senza perdere il tratto amabile. I frequenti cambiamenti della seduta erano l’unico segno del suo disagio.

    Lalla mi rivelò che quelle non erano visite di cortesia: suo fratello doveva molto danaro alla ditta del signor Baratella e pure a Bruno, ma non pagava. Gaetano ordinava una gran quantità di registratori di cassa per spuntare un prezzo basso, quando poi stentava a venderli ritardava il saldo con mille pretesti. Quanto a Bruno: Gaetano diceva di avergli comprato la sua quota della società, ma in realtà aveva versato all’ex-socio un acconto, poi aveva interrotto i pagamenti senza motivo.

    L’idea di sedermi e battere a macchina in libertà, incurante degli errori perché potevo sempre correggerli, si rivelò ottimistica. Non riuscivo a concentrarmi. Il viavai del negozio mi distraeva, mi ritrovavo a fissare di là dalla vetrina l’incrocio che inghiottiva auto senza posa. Poi c’era Gaetano che andava al bar, e, avesse compagnia o no, invitava anche me. Le prime volte accettai perché pareva che ci tenesse e, del resto, ero suo ospite. Il bar faceva angolo accanto al semaforo coi suoi due ingressi. Era un locale spoglio, dal pavimento opaco, uno di quei locali che raccatterebbero clienti anche se fossero ancor più trasandati perché piazzati bene, in un punto di passaggio. Gaetano era di casa là, aveva un conto aperto e non permetteva che altri pagassero. Per sé ordinava alcolici, anche di prima mattina, mentre io, che non sapevo mai che prendere, alla fine sceglievo un succo di frutta o un tè freddo, notando la sua delusione. La prassi voleva che la mescita fosse lenta, che ci si trattenesse a lungo. Nella fantasia del mio ospite l’invito al bar doveva essere la premessa per una brillante conversazione, la conferma di una fraterna amicizia, ma lo slancio durava il tempo necessario per attraversare la via. Davanti al bicchiere di whisky servito sul banco d’acciaio Gaetano non trovava di meglio che alludere alla ricchezza di qualche corsaro delle cronache, oppure da un lunghissimo silenzio era capace di uscire con considerazioni che sembravano la sintesi di una profonda meditazione:

    - Certo che Mekkanika è forte...

    Mekkanika era la ditta tedesca che produceva la macchina da scrivere computerizzata. Gaetano, preso l’abbrivio, forse aiutato dall’alcool, scivolava verso l’esaltazione dell’azienda, dell’apparecchio e della forma cubica dei testicoli teutonici.

    Quando ebbi più confidenza cominciai a rifiutare gl’inviti al bar. Dapprima inventai scuse... un’indisposizione di stomaco, un paragrafo che necessitava della massima concentrazione... poi li respinsi e basta, concedendomi quando la comitiva era numerosa, per evitare le uggiose mescite a tu per tu. A Gaetano piaceva entrare nel locale seguito da un codazzo di persone, come i grandi uomini d’affari. I funzionari delle ditte, quarantenni dalla barba coltivata e zazzera ardita, camicia con le iniziali ricamate sotto il costato, cravatta di tessuto intrecciato, sigaro, olezzo vivace, lenti brunite all’ultima moda, sapevano come stuzzicare Gaetano, magari traendo spunto dal dondolio di mammelle di una povera crista che passava nei paraggi.

    Quando non stava rintanato sotto il soppalco, Gaetano vagava per i marciapiedi intorno al negozio fumando. Mi accorsi un giorno che mi spiava da lontano, di là dalla via. Ormai avevo capito che la sua opinione su di me oscillava fra il ritenermi un mentecatto che non sapeva come passare il tempo e un furbo che mettendo insieme quattro scempiaggini si sarebbe fatto un fracco di soldi.

    - Come va? - mi chiedeva con quel ceffo da caino, e io sentivo che la seconda ipotesi gli piaceva.

    In realtà le cose stavano in maniera diversa. Mi ero laureato in legge da pochi mesi, facevo pratica legale nello studio di mio zio Orlando, ma non ero più sicuro di voler fare l’avvocato. Orlando era uno zio acquisito, un quarantenne compiaciuto di sé e di qualsiasi cosa facesse, soprattutto della fama del matrimonialista inesorabile (si vantava dicendo che dove passava lui non nascevano più bambini). Le sue gioie professionali erano gli intoppi che facevano prescrivere i processi, oppure afferrare per il collo mariti abbandonati, costringerli a pagare alimenti e ridurli in povertà.

    E così mi rifugiavo nel teatro. Là tutto mi era congeniale, chiaro, facile, forse perché fin da bambino ogni persona che incontro non è solo una faccia, ma una maschera, il protagonista di una nuova storia da inventare. Nella mia famiglia abbondavano i personaggi, gli intrighi, i segreti, i luoghi rapinosi.

    Meditavo di buttare all’aria anni di studio. Era un salto nel buio. Nessuno avrebbe capito, mi avrebbero giudicato un irresponsabile. Così mi sembrava urgente stampare le mie opere, come per una prova di forza, come per dimostrare a me stesso che ero capace di lasciare un segno su questa terra.

    - . -

    In Italia un praticante legale è un tizio che si alza al mattino, si sbarba, mette giacca e cravatta, e con la sua brava borsa di cuoio calca gli anditi del tribunale. I tribunali sono edifici che trovi pressoché uguali in tutti i capoluoghi. L’architettura è quella fascista: il peristilio a colonne rotonde, grigie e massicce, le alte volte, i pavimenti di graniglia. Nei loro corridoi ogni giorno scorre la stessa fiumana d’omini armati di borsa e giacchetta. Anch’io mi confondevo con quella folla, incrociavo i compagni dell’università e li trovavo strani, insaccati com’erano in giacche che mai gli avevo visto a lezione. Le loro figure mi apparivano di colpo decrepite, come quelle di mediocri attori che si sentono padroni della parte solo perché indossano l’abito di scena. Nel tribunale aleggiava il mito dello scaltro oratore, del Quintiliano che s’impone in virtù del dono dell’eloquenza. Di questo mito restava traccia nelle invettive degli avvocati anziani che rimbombavano fino all’atrio. Ma quando, incuriosito da quegli accenti, entravi nell’aula dove si svolgeva il processo, trovavi nei giudici e nei giurati il paziente compatimento che si deve ai vecchi. Tutti sapevano che le cause si vincevano fuori dall’aula, attaccandosi a un errore di procedura, tirando per le lunghe il processo perché si prescrivesse, perché in Italia il miglior avvocato di chi ha torto è il tempo. Il tempo spossa le velleità di giustizia dell’offeso, intorbidisce i ricordi dei testimoni, spinge le cause su un binario morto.

    Io seguivo le disposizioni del mio capo, che in genere erano le stesse:

    Chiedi un rinvio mi diceva al mattino, quando preparavamo le borse per andare in tribunale.

    E così entravo nelle sale delle udienze civili dove ci si accalcava intorno alla scrivania di una signora dal trucco sofisticato e molti anelli alle dita, per scrivere su un registro quel che altri giovani dall’eleganza acerba come la mia scrivevano: Si chiede un rinvio.

    Mi pesavano quelle quattro parole che condannavano qualcuno a non ottenere giustizia per altri sei mesi. Mi faceva rabbia che le udienze saltassero per i motivi più futili, magari perché il mio capo si era accordato per andare a caccia insieme all’amicone che difendeva la parte avversa.

    Un giorno lo zio Orlando mi affidò un fascicolo sul cui frontespizio erano annotati tre nomi: Alessandro Monti - Giorgio Monti contro Nicola De Marchi. Gli atti narravano la disgrazia di Giorgio Monti, un cameriere di quattordici anni, investito sul marciapiede mentre serviva ai tavoli di un caffè. L’auto che aveva provocato l’incidente apparteneva Nicola De Marchi che ne aveva perso il controllo perché andava troppo forte. Il ragazzo si era rotto il bacino e una gamba. La causa per il risarcimento del danno era stata intentata dal padre Alessandro, e adesso la proseguiva il figlio, poiché nel frattempo era diventato maggiorenne. Durava da sette anni quella causa, e il nostro studio ricorreva ad ogni artificio per allungarla perché l’interesse dell’assicurazione nostra cliente era di pagare il più tardi possibile.

    Fuori dalla sala delle udienze mi affrontarono un giovane mingherlino, di carnagione olivastra, e un vecchio che portava occhiali storti sul naso e rabberciati con nastro adesivo, la bocca che si apriva in una barba giallastra.

    - Avvocato, che speranza abbiamo di avere i nostri soldi?

    - Non lo so. Io non sono il vostro avvocato.

    - E qual è il nostro avvocato? - disse il vecchio volgendosi intorno. - Dal giorno che gli abbiamo dato l’incarico non l’abbiamo più visto... vengono ragazzi sempre diversi a sostituirlo... lei non sa chi è il sostituto dell’avvocato Bonomo?

    - Non lo so - mentii.

    - Ma lei c’entra con la nostra causa? Mi pare che l’ho vista un’altra volta...

    - Ce n’è tante di cause che il giudice tratta tutte insieme...

    Seguii con lo sguardo i due mentre si aggirano per l’andito, chiedendo informazioni e ottenendo sbrigativi cenni di risposta. Poi udii il vecchio dire:

    - Non posso più trattenermi. Devo dare da mangiare ai cani.

    Si allontanarono. Il vecchio pareva incedere sulle zolle di un campo arato, compiendo grandi passi con le sue gambe arcuate; il giovane lo seguiva a capo chino, trascinando la gamba che non sarebbe guarita più. Dopo un poco li vidi riemergere dalla folla, questa volta tenevano dietro all’avvocato Bonomo che dovevano avere abbordato nell’atrio. Costui era noto per la sua flemma, ma questa volta agitava la pipa che teneva in pugno e gridava un po’ in italiano e un po’ in dialetto, come si usava un tempo nel rivolgersi a persone di basso rango:

    - Che cosa siete venuti a fare in tribunale? Voi dovete venire quando ve lo dice il vostro avvocato! Capito? Qui non siamo al mercato!

    - Chiedo venia - diceva il vecchio mettendosi sull’attenti e chinando il capo. - Chiedo venia.

    Più tardi, al bar del tribunale, l’avvocato Bonomo divertiva i colleghi raccontando del barbone che aveva visto una sola volta, ma di cui si era ricordato di colpo quando la puzza che emanava lo aveva afferrato alle narici e gli aveva tolto il respiro. L’avvocato Bonomo mimava il soffocamento, gli amici ridevano.

    Io pensai che non era quella la vita che volevo. Io volevo una missione. Mille volte meglio sarebbe stato fare il medico come mio padre.

    La sera, allorché gli raccontai l’episodio, lo zio Orlando rise:

    - Quel tizio puzza veramente! Una cosa terribile!

    - Il ragazzo zoppica… sembra che gli sia rimasta una gamba più corta dell’altra…

    - Già… temo alla fine sarà un botta per l’assicurazione… ma troveremo il modo di farla arrivare il più tardi possibile.

    - Non è giusto però.

    Lo zio Orlando mi squadrò:

    - Noi siamo pagati per fare la nostra parte. La legge non l’abbiamo inventata noi. Col tempo ci farai l’abitudine… e poi, tanto per essere chiari: la giustizia non esiste.

    Quel cinismo mi parve orribile. Io ero destinato a diventare come lui?

    - . -

    Una mattina Gaetano si avvicinò alla mia scrivania in vetrina. Teneva entrambe le mani in tasca, una volta tanto sembrava di buon umore:

    - Come va? - chiese.

    - Comincio a capirne qualcosa - risposi.

    - Perché non la vendi? - fece lui, quasi con timidezza.

    Devo riconoscere che Gaetano in quella circostanza fu sagace. Poteva suonare offensiva per l’aspirante avvocato una proposta del genere; allo scrittore, poi, poteva persino giungere come l’esortazione ad abbandonare le velleità artistiche come si abbandona un binario morto. Gaetano la buttò lì, con l’aria lieve di chi ti chiede se ti va di bere un’aranciata. Io non mi offesi, risposi solo:

    - Non ho mai venduto nulla...

    Lui soggiunse:

    - Questa è una bella macchina… ma se non la conosci non la vendi... tu la sai usare...

    Intuii che Gaetano aveva sperato che la acquistassi io stesso. Fin allora lui aveva venduto oggetti, ma la macchina non era oggetto, era un sistema del cui funzionamento dovevi essere padrone, anche solo per proporlo. Ecco perché aveva bisogno di me.

    Io non gli risposi subito, non avevo mai pensato di darmi al commercio. L’idea di mettere qualche soldo in tasca mi piaceva, ma l’ostacolo era mio padre: lui avrebbe preso molto male quel cambio di rotta.

    Un agosto torrido prese d’assalto il negozio. A mezzogiorno, quando il sole scintillava sul marciapiede, una gran calura attraversava il cristallo della vetrina. Nel pomeriggio tenevamo la porta aperta per creare corrente, ma entravano solo folate di un’afa pesante, mendicanti, zingari, neri con la loro mercanzia che tentavano qualche passo oltre la soglia ma s’imbattevano in Lalla che li cacciava sfoderando un’insospettabile acredine da arpia.

    - Ci vorrebbe un condizionatore…

    - Sì, dillo a quel tirchio di mio fratello!

    Io resistevo al mio posto perché volevo stampare le commedie prima che finissero le ferie estive. Poi non avrei più potuto rimandare una decisione sul mio futuro. Mi coglievano momenti di offuscamento, uscivo, camminavo a caso per il marciapiede.

    Ai primi di settembre seppi che Lalla si sarebbe sposata. Già in giugno avevo sentito parlare di quel matrimonio, ma passando ore e ore in compagnia della futura sposa, lei nella sua scrivania al centro del negozio, io in vetrina, avevo dubitato che l’evento si sarebbe mai verificato. Lalla, supponendomi un intellettuale, teneva con me una posa seriosa. A mano a mano che il discorso si faceva sottile succedeva una cosa strana: grandeggiava fra noi l’insulsa figura del fidanzato aviere, tifoso dell’Inter, come un fantasma innominabile. Un giorno Lalla arrivò a confessarmi di essere stata sua a sedici anni, disse che quel fatto rendeva quasi ineluttabile il matrimonio, perché sarebbe stato difficile tradire l’attesa delle rispettive famiglie e della comunità paesana. Lei temeva quel passo, per questo l’aveva molte volte rinviato.

    Lalla andò in licenza nuziale e fu sostituita da Annalisa, una bellezza di diciotto anni, un visetto bruno illuminato dal bianco degli occhi, un nasino all’in su, un seno florido, all’in su anch’esso. Annalisa si dichiarava fidanzatissima, ma ogni suo gesto tradiva la smania di piacere all’intero genere maschile.

    Le ferie estive erano finite, il tribunale si ripopolava e io andavo per gli anditi in tenuta da avvocato portando i volantini di Mekkanika nella borsa, in mezzo ai fascicoli delle cause. Avevo concluso che i soldi di Gaetano mi servivano, soprattutto nel caso che avessi preso la decisione di lasciare lo studio legale. Per il momento preferivo che la mia missione di venditore restasse segreta. La mia strategia consisteva nell’approfittare di ogni occasione per tirare in ballo la macchina. Abbordavo l’argomento come per caso, per dire che il nostro studio l’aveva comprata e l’aveva trovata uno strumento formidabile. Allorché mi pareva di avere catturato l’attenzione dell’interlocutore, decantavo la mole di lavoro che l’apparecchio permetteva di svolgere senza l’aiuto di una segretaria:

    - Sono le sette del mattino, sei solo in studio e ti stai preparando per andare in udienza, trovi un errore nella citazione: che fai? Accendi la macchina, entri nella memoria, correggi e le fai ribattere tutto. E’ facile.

    Il primo cliente me lo procurò Gaetano: l’avvocato Gambarella, un penalista. Nel suo studio feci la mia prima dimostrazione a un segretario che l’avvocato chiamava maresciallo perché prima di andare in pensione era stato davvero maresciallo nei carabinieri. A dispetto dell’età, costui sfoderò un ingegno pronto. Gli occhietti furbi ghermivano le mie dritte e subito le mani grinzose le mettevano in pratica, come fosse un punto d’onore mostrare che se la cavava con le novità tecnologiche.

    La macchina fu venduta. Gaetano m’invitò al bar e mi disse soddisfatto che ne aveva ordinate altre cinque.

    - Investo su di te - dichiarò, tronfio come un capitano d’industria.

    Io, incoraggiato dal successo, ci diedi dentro con maggior convinzione. Sfruttavo tutte le cinque ore in cui avvocati, commercialisti e ragionieri affollavano il palazzo di giustizia. Entravo nelle aule dove si teneva udienza e firmavo il registro dei praticanti, poi mi appostavo nel bar interno, e tra la folla che lo gremiva a ogni ora cercavo di attaccar discorso coi potenziali clienti. Ma stavo in guardia perché, levata la maschera del collega, sarebbe stato difficile anche soltanto attaccare discorso.

    La necessità sprona il venditore, ne aguzza i sensi, ne fa un lupo sul terreno di caccia. Da quando portavo in borsa i volantini osservavo sotto una nuova luce quel che mi girava intorno. Il tribunale era il mio mercato. Poteva essere interessato alla macchina l’avvocato Poma? Quella palla da biliardo su un corpo tozzo, il saluto gioviale che scopre denti d’oro? E il professor Corda? Quel faccione di bronzo che radia boria e veleno. E Spotorno, l’avvocato della mutua? Mmm... difficile l’affare tecnologico con uno che calza scarponi da cantoniere. E l’avvocatessa Aragna con la sua borsa di pelle nera, una matassa di capelli cenerini, foulard intorno al collo, modi acconci all’elevatezza della casata? La Aragna, amabile con i cancellieri che le riservano reverenze cavalleresche, è ancor più cortese con le loro impiegate, popolane sfiorite e tracagnotte, capelli mal tinti, deretani insaccati in blue jeans che sembrano sul punto di scoppiare. Più quelle sono rozze, più lei le tratta con una cortesia che marca la differenza di ceto. Passa il geometra Vignolo, la Aragna lo saluta con una breve piega del capo, il geometra risponde facendo risuonare nell’andito un argentino Buongiorno. Vignolo è un piccoletto dal fisico a chiodo, il tratto del gentiluomo di campagna. La sahariana beige e la cravatta di maglia verde oliva sussurrano che lui appartiene a una classe sociale inferiore a quella forense: lui è un consulente.

    E’ meglio puntare sui giovani, che sono aperti alle novità. I figli, devo rivolgermi ai figli. Per loro, i vecchi istrioni cacciano i danari che non spenderebbero per sé.

    I figli degli avvocati erano timidi e gentili, portamento posato, volti lisci. Ben rasati i maschi, ricercate nel vestiario le femmine. C’era pure un’altra gioventù che incrociava in quegli androni: ragazzotti di paese con qualche ruga sulla fronte, impacciati dalle grosse borse che portavano, dalla giacca troppo larga, dai colletti delle camice troppo stretti. Dovevo considerarli potenziali clienti? O era gente così carica di rate da non essere in grado di scucire un centesimo?

    Quando la tua testa è occupata dalla fissa di vendere, la realtà si trasforma, le cose s’induriscono e intorno a te c’è solo materia, gli uomini sono fantocci di carne e stoffa, le loro voci sono versi di animali, ogni gesto tuo e altrui obbedisce all’istinto di sopravvivenza, come accade tra cacciatore e preda. Sentivo di progredire sulla strada che Gaetano mi aveva aperto. Forse non sarei diventato bravo quanto lui, perché lui era un talento naturale, però io potevo far valere psicologia e capacità di osservazione.

    Riuscii a prendere alcuni appuntamenti e cominciai a introdurmi in territorio nemico. Il venditore studia la sala d’aspetto del cliente, ne annusa l’aria, dai particolari trae informazioni utili per la trattativa che sta per affrontare. Le prime attese furono nervose, insofferente com’ero di chi aveva la precedenza su di me, dei telefoni che squillavano, degli accidenti che ritardavano il momento in cui sarei stato ricevuto. Eccomi in uno stanzone affollato di anziani, non sono capitato in un ambulatorio, no, mi trovo nella sala d’aspetto dell’avvocato Vassallo, dove la gente è attirata dalla diceria che egli abbia la mani in pasta, e per un verso o per un altro riesca a procurare uno straccio di pensione d’invalidità. Eccomi in un’angusta anticamera dalle pareti macchiate di muffa, dove la luce fioca e intermittente di una plafoniera spiove su un basso tavolino cosparso delle riviste Previdenza forense vecchie di vent’anni, che dovrebbero allietare l’attesa dei clienti. Ecco la stanza di un principe del foro: pareti spoglie, uno schedario metallico, unico mobile che si erge come una torre solitaria fra pile di raccoglitori sparsi sul pavimento. La scrivania è zeppa di carte, le persiane sono chiuse a mezzogiorno, polvere dappertutto, a testimoniare che mi trovo in un deserto antico, non nello scompiglio occasionale di un trasloco. In un’altra città ho intorno a me i figli di un vecchio politico di provincia, tre ragazzi dagli occhi verdi che osservano estasiati la macchina. Nessuno di loro è riuscito a diventare avvocato, così aiutano alla buona l’anziano genitore. Sono ricchi, ed è evidente che preferiscono pensare a cose più amene dei libri di diritto. Non devono mancargli frotte di ragazze. Verso le otto invade lo studio un vapore di minestrone che filtra dall’annessa abitazione. L’interfono squilla: la cena è pronta. Il vecchio avvocato cede, acquista Mekkanika, un balocco per i bellissimi figli, come i tanti altri che non gli ha saputo negare.

    - . -

    Un Gaetano di ritorno dal bar, forse alticcio, stoppie di barba sulle gote rubizze, mi rivolse uno dei suoi:

    - Come va?

    Aveva appena arruolato un vigile urbano per vendere i suoi registratori di cassa. Costui avrebbe agito sottobanco perché, essendo un pubblico ufficiale, non poteva commerciare alla luce del sole. Gaetano gongolava come un generale che per la sua brigata aveva ottenuto la dotazione di un’arma micidiale. L’illiceità della faccenda lo intrigava, lo entusiasmavano le qualità del prescelto. Nella vita privata il soldato era culturista, e infatti i grossi fasci muscolari tendevano la stoffa della sua divisa conferendogli un portamento possente. Sotto l’elmo, un volto color castagna, occhiali scuri a goccia, labbra carnose. Inquietanti le voci al suo riguardo: Gaetano me le riportò con la salivazione abbondante di chi sta per gettarsi in un amplesso. Remo, questo era il nome del nostro uomo, era noto ai commercianti per il vezzo di andare per le corsie del mercato ortofrutticolo tenendo in mano il blocco delle contravvenzioni. Fra saluti camerateschi e lazzi, capitava che egli si mettesse a scrivere sui fogli rosa, così, come se prendesse appunti o abbozzasse il ritratto di qualcuno. E invece la contravvenzione era bell’e fatta e non si poteva più levare, e coloro che avevano creduto di farselo amico con la cassa di arance mandata a casa rimanevano di sale.

    La gente del mercato avrebbe considerato molto seriamente il registratore di cassa offerto da Remo. Questo pensiero per Gaetano era una melodia celestiale.

    - Come va? - ripeté. Gli capitava spesso di ripetere quella domanda. Col tempo imparai che non aspettava una risposta.

    - Vendere mi piace - risposi.

    - Ti piace? - fece Gaetano in un tono tra l’ironico e lo scherzoso. - Qui abbiamo tante cose da vendere. Puoi sbizzarrirti.

    Smisi di battere a macchina e lo guardai:

    - Per esempio?

    - Mobili per ufficio... l’arredamento di un ufficio è una bella vendita... ti posso dare anche il dieci per cento... poi ci sono i registratori di cassa... li devono comprare per legge... non hanno scampo... persino gli ambulanti alla fine dovranno comprarli.

    Gaetano proferiva quelle parole pregno di compiacimento. L’idea che i colleghi negozianti fossero costretti per legge a comprare da lui lo faceva godere. Tutti dovevano passare sotto la sua forca caudina: i supermercati, le boutiques di lusso del centro, i bottegai del suo paesino d’origine, la bellona del negozio di scarpe più giù che se aveva bisogno di una fotocopia andava oltre, fino all’incrocio, in bilico sui tacchi a spillo, per scroccarla a Pietro, lo scapolo dell’agenzia di pratiche automobilistiche. Gaetano era così: quando gli sembrava che un’onda di danaro stesse per rotolare nelle sue tasche ringalluzziva e riusciva ad articolare qualcosa che non riguardasse gli affari, faceva persino qualche battuta a sfondo sessuale, lui, il timido che sognava donne conturbanti e invece aveva sposato una bigotta tutta casa e chiesa, piatta come un asse da stiro. Ma erano momenti. Ben presto si sgonfiava e ridiventava il sacco rovesciato sulla scrivania nella penombra del soppalco.

    Il giorno appresso ero di nuovo in tribunale, chiacchieravo al bar con un vecchio compagno d’università e Elvirella, una giovane procuratrice, figlia di un decano degli avvocati, un tipetto minuto, che dimostrava i suoi trent’anni anche se cercava di nasconderli con un trucco vivace. Prima che i bicchieri fossero vuoti, riuscii a portare il discorso su Mekkanika. La procuratrice parve incuriosita, mi diede un appuntamento.

    Il pomeriggio stesso caricai l’apparecchio nel portabagagli dell’auto e partii. L’ufficio si trovava in un quartiere residenziale, lontano dal tribunale. Suonai, girai attorno a un grande salice piangente che sorgeva al centro del cortile e salii al terzo piano. Là trovai un uscio socchiuso, lo scostai ed entrai tirandomi dietro la macchina. Sotto le mie suole un pavimento di parquet scuro, incavato qua e là per l’usura. Sulla sinistra, alle spalle di un divano di cuoio nero, una lunga finestra ad ante scorrevoli. Di fronte, una libreria. Mancava una segretaria, che però in passato ci doveva essere stata: lo rivelavano le impronte di una scrivania impresse nel parquet e un telefono riposto fra i libri dello scaffale, col filo arrotolato e la spina staccata. Quell’assenza era un brutto segno, puzzava di poco lavoro o di avarizia.

    Apparve Elvirella che mi invitò a seguirla, sempre con l’aria impacciata da secchiona, da bambina diventata donna suo malgrado. Passammo davanti all’ufficio del padre, dove il fumo di sigaretta avvolgeva la scrivania, si librava in volute su pile di fascicoli allineate lungo la finestra. Il grande decano telefonava, la sua voce tuonava come in un’arringa di corte d’assise.

    La stanza dell’avvocatessa era arredata in frassino chiaro, con mobili nuovi e coordinati. La porta-finestra, velata da una tenda di pizzo, guardava la chioma del salice piangente, vette di palazzi, un lembo di cielo. In una vetrina i libri dell’università. Un basco da pittrice pendeva da una gruccia a piantana, insieme a uno scialle e a una piccola borsa a tracolla. Un solo fascicolo era aperto sullo scrittoio di pelle color panna, fra il tagliacarte e altri accessori in tinta. Un pupazzo abbracciava un mazzo di penne.

    L’avvocatessa chiuse la porta e mi stette di fronte silenziosa. Non sembrava più tanto convinta dell’appuntamento che mi aveva dato, o forse non sapeva come comportarsi con un venditore. Mi passò per la mente il pensiero che non importasse granché della macchina a quel visetto mascolino, dai lineamenti forti, truccato in modo da far risaltare gli occhi, l’unica nota piacevole in una figura insignificante. Le chiesi dove potessi mettere l’apparecchio e lei esitò guardandosi intorno, poi accettò la proposta di sgomberare la scrivania sul davanti. Attaccai la corrente con la prolunga che portavo sempre con me, poi sedetti e iniziai la dimostrazione mentre lei mi osservava stando in piedi alle mie spalle. Avevo congegnato un discorsetto che accompagnavo con esempi di grande effetto che esaltavano le potenzialità della macchina. Li buttavo lì come idee che mi venissero in quel momento, azionando i comandi con naturalezza, come se manovrare l’apparecchio fosse la cosa più facile del mondo. Ogni tanto mi voltavo per studiare le sue reazioni, e ad un certo punto capii che l’avevo colpita, infatti mi chiese di provare. Entrammo nella solita fase critica. Il miglior cliente è quello che si accontenta della dimostrazione, fa poche domande e firma un assegno. Ma sono rari i buoni clienti, la maggior parte mette le manacce sulla tastiera e si ficca in un pasticcio che spegne l’entusiasmo. Quello per il venditore è il momento della massima concentrazione. Egli deve seguire ogni mossa del cliente, prevenire l’intoppo premendo il tasto giusto, correggere il comando sbagliato prima che le cose precipitino.

    L’esperimento procedeva bene. Come un sapiente istruttore di scuola-guida portavo l’avvocatessa Elvirella verso la convinzione di cavarsela fin dalla prima prova.

    - Questa macchina sarebbe un grande aiuto, ora che siamo senza segretaria… - diceva lei eccitata.

    La mancanza della segretaria poteva dare una spinta decisiva all’affare, tuttavia il parere del decano mi preoccupava molto. Lo sentivo di là dalla parete telefonare senza posa con piglio frettoloso, come se il tempo tiranno gl’imponesse di tirare per le corte e fosse sempre sul punto di concludere, ma poi lui stesso ritornava sui concetti già sviscerati, agghindandoli di termini vetusti e roboanti. A tratti riuscivo a seguire il filo del discorso, e arguivo che dall’altro capo del filo qualcuno aspettava novità sulla propria causa. Il decano riempiva l’assenza di notizie con un fiume di parole che assecondavano la smania di rivalsa dell’assistito, lo confortavano passando in rassegna le potenti artiglierie che lui aveva schierato per vincere la battaglia. In un’altra telefonata il cliente non riusciva a capire perché il giudice ascoltasse i testimoni bugiardi dell’avversario e non interrogasse lui, la parte lesa. E Benito Massa a rassicurarlo, a dirgli cento volte che lui teneva la situazione sotto controllo. L’altro però insisteva, voleva conoscere la data dell’udienza per alzarsi in piedi e gridare la sua verità, e Gavino a ripetergli che non era possibile, che le udienze civili erano diverse dai processi di Perry Mason che trasmettevano in televisione.

    All’improvviso ci fu silenzio. Percepii un respiro dietro di me. Mi volsi e vidi un tipo sui settant’anni, un volto grigio, lenti a mezzaluna sulla punta del naso bitorzoluto.

    - Musetta scusa... - disse il decano alla figlia che non si era accorta dell’ingresso del padre, presa com’era dalla prova della macchina. - Chi è questo signore?

    - Oh, è un collega… un amico di Lucio Spadavecchia, il figlio dell’avvocato...

    - Sì, certo. Il figlio di Agostino Spadavecchia, un amico carissimo!

    - Mi ha portato questa macchina da scrivere. Le dai un’occhiata?

    Il decano si rivolse a me:

    - Ma lei fa l’avvocato o vende macchine da scrivere?

    - Papà... ce l’ha portata perfino in studio...

    Il decano si avvicinò alla macchina e la guardò appena:

    - Che cosa fa? - chiese. - Lo fa il caffè?

    - Papà, tu scrivi... puoi correggere quanto vuoi... quando sei sicuro che va bene, le fai ribattere tutto su carta bollata.

    Il decano non ascoltava, i suoi pensieri parevano altrove. Di certo notava il favore della figlia per l’acquisto.

    - Quanto costa? - chiese a bruciapelo.

    Di colpo capii che l’impresa era disperata. Feci il prezzo minimo, un prezzo che Gaetano avrebbe considerato una disfatta, una confessione di poca virilità. Tuttavia la cifra, per quanto ridotta, provocò una reazione imprevedibile nel decano. Scorta la custodia che era posata a terra, egli afferrò l’apparecchio e cercò di riporvelo:

    - Mi faccia il favore... uno studio come il nostro è una vetrina... gli altri ci danno un aggio perché teniamo le novità qui, in bella mostra... abbia pazienza...

    Il peso della macchina lo tradì, gli fece perdere l’equilibrio. Il vecchio cadde in ginocchio, dietro l’apparecchio che si schiantò sul pavimento. Nel tonfo si distinse lo schiocco tipico della

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