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Gli Elfi
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E-book990 pagine14 ore

Gli Elfi

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Info su questo ebook

Di tutte le creature che popolano i mondi del fantasy, gli elfi sono i più inavvicinabili e misteriosi, tanto che sembrano incarnare un desiderio di bellezza e di eterna giovinezza. Il fascino enigmatico degli elfi è il piatto forte del romanzo, che conduce il lettore attraverso un universo denso di sorprese. Il mondo degli elfi è sotto la minaccia di un demone. Nuramon e Farodin, a cui si unisce il nordico Mandred del Regno degli uomini, si accingono ad affrontare la mostruosa creatura. Più d'ogni altra cosa, ai tre preme la liberazione dell'amata maga Noroelle, diventata vittima del demone ed esiliata per l'eternità in un deprimente mondo parallelo. Disperati, essi si gettano nell'avventura, cercando di salvarla. Nel frattempo verranno svelati molti segreti, e il destino del mondo degli elfi sarà segnato da una cruenta battaglia...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita19 apr 2022
ISBN9788834436424
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    Anteprima del libro

    Gli Elfi - Bernhard Hennen

    Indice

    Copertina

    Frontespizio

    Ringraziamenti

    Mappa

    1. L'uomo cinghiale

    2. Gioco d’amore

    3. Il risveglio

    4. Una sera a corte

    5. La chiamata della regina

    6. La notte al castello degli elfi

    7. Il commiato

    8. Il Mondo degli Uomini

    9. Il bisbiglio nell’ombra

    10. Vecchie ferite

    11. La via verso i ghiacci

    12. Un sogno

    13. Il guaritore

    14. Il bambino

    15. La valle abbandonata

    16. La sentenza della regina

    17. Addio alla Terra degli Albi

    18. La saga di Mandred Torgridson

    19. Il peso delle parole

    20. Il ritorno nella Terra degli Albi

    21. Le parole di Noroella

    22. I tre volti

    23. I tre granelli di sabbia

    24. Una partenza nel cuore della notte

    25. La saga di Alfadas Mandredson

    26. Il guaritore di Aniscans

    27. A casa di Guillaume

    28. La sciagura

    29. Le finestre murate

    30. La Sacra Scrittura di Tjured

    31. Lo Jarl di Firnstayn

    32. La notte d’argento

    33. Alaen Aikhwitan

    34. La Quercia del Fauno

    35. La prima ora di lezione

    36. La sbornia della Quercia

    37. La Stella Albica

    38. Nella Terra Infuocata

    39. I Sentieri Elfici

    40. Il popolo dei Liberi

    41. Sul bordo dell’oasi

    42. I racconti dei Tearagi

    43. A Iskendria

    44. La biblioteca segreta

    45. Sulle tracce di Yulivea

    46. I racconti di Yulivea

    47. I sentieri si dividono

    48. Il diario di bordo della galea Vento Purpureo

    49. La patria perduta

    50. Davanti alla porta dell’oracolo

    51. L’ira di Farodin

    52. I Figli degli Albi Scuri

    53. La Rocca Oscura

    54. Il regno dei Nani

    55. L’ultima via

    56. La carne

    57. Uno sguardo nello specchio

    58. Strade sbagliate

    59. I compagni d’armi

    60. Il banchetto

    61. Le vie si separano

    62. Il canto di Elodrin

    63. Darea

    64. Il libro di Alwerich

    65. La città di Firnstayn

    66. Le famiglie di Firnstayn Nuramon l’elfo

    67. Vecchi compagni

    68. La forza della sabbia

    69. Un incantesimo durante la bassa marea

    70. La cronaca di Firnstayn

    71. Nuove strade

    72. Sale vuote

    73. La bambina elfa

    74. Lettera al Gran Sacerdote

    75. Le selve di Drusna

    76. Il volto del nemico

    77. Persi per sempre?

    78. Una mattina a Fargon

    79. Tempo di eroi

    80. Ritorno nella Terra degli Albi

    81. Un vallo di legno

    82. Sulla nave della regina

    83. La potente magia

    84. Al cospetto della regina

    85. Il gioco delle ossa

    86. Emerella in pericolo

    87. Pietre e Troll

    88. Dieci passi

    89. Vicino al soffio della morte

    90. Sfondamento

    91. Il dono di un dio

    92. La rivelazione

    93. Il vecchio nemico

    94. La cronaca di Firnstayn

    95. Dopo la vittoria

    96. Trofei

    97. Therdavan il prescelto

    98. La vendetta del Devanthar

    99. Rovine

    100. Il grande incontro

    101. Il comandante

    102. Le due spade

    103. Il pugnale della regina

    104. Il ricordo di una notte lontana

    105. L’inizio della battaglia

    106. In difesa dello Shalyn Falah

    107. Una forza inesauribile

    108. Lo gnomo del tabacco

    109. Morte e rinascita

    110. Tra le linee del nemico

    111. Fuoco e zolfo

    112. La fine della battaglia

    113. L’ultimo schieramento

    114. A caccia delle mosche per pescare i salmoni

    115. L’opera sacra di Tjured

    116. L’ultimo varco

    117. La Luce Lunare

    BERNHARD HENNEN

    Gli elfi

    Armenia

    Titolo originale dell’opera: Die Elfen

    Traduzione di Loredana Rotundo, Cristina Ranghetti e Raffaella Asni

    Copyright © 2004 by Bernhard Hennen and James Sullivan

    Per l'Italia

    Copyright © 2022 Armenia S.r.l.

    Edizione digitale 2022

    978-88-344-3642-4

    Via Milano 73/75, 20007 Cornaredo (MI)

    tel. 0299762433

    www.armenia.it

    info@armenia.it

    151089  @Edarmenia

    Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    è vietata ogni pubblicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Attraverso il bosco al chiaro di luna

    Vidi gli elfi cavalcare;

    Udii suonare i loro corni

    Sentii i loro campanelli tintinnare.

    I loro piccoli destrieri

    Avevano corna di cervo dorate

    Volando davanti a me come cigni selvatici

    Veloci fendevano l’aria.

    Sorrise la regina e mi fece un cenno di saluto,

    Sorrise continuando a cavalcare.

    Era un segno del mio nuovo amore

    O morte significava.

    Heinrich Heine

    Ringraziamenti

    Come molti romanzi fantasy anche il racconto di questo libro inizia in una tempestosa notte d’autunno e con un invito ad una Quest (cerca). Mentre il mio amico James Sullivan era alle prese con il suo imminente esame finale di epica medievale, io irruppi da lui sull’orlo di una crisi di nervi. Gli chiesi se non avesse tempo e voglia di collaborare all’avventura e di scrivere un libro con me. Una domanda che in verità tra le letture di Prosa-Lancelot e il Parzival di Wolfram non si vorrebbe sentire. Un’ora dopo iniziammo il discorso ancora una volta dal principio e James parlò del fatto che un vero cavaliere non poteva rifiutare, se la Signora Aventiure tendeva la mano. E così iniziò la ricerca degli elfi…

    Non esiste nessuna creatura nella letteratura fantasy che abbia ispirato così tante diverse immagini come gli elfi. Essi sono le leggiadre forme luminose di Il Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, le essenze senz’anima di La spada rotta di Poul Anderson o le fiabesche figure di Lord Dunsanys in La figlia del re dal regno degli elfi e molte altre. Così anche noi abbiamo creato, sicuri una nostra immagine di elfo, che si colloca fra i classici del fantasy vecchi e nuovi.

    Non si può fare una Quest senza compagni.

    E così Martina Vogl, Angela Kuepper, Natalja Schmidt, Bernd Kronsbein, così come, Menekse Deprem, Heike Knopp, Elke Kasher, Stefan Knopp e Sven Wichert ci hanno aiutati a condurre a buon fine l’avventura di questo romanzo.

    Bernhard Hennen,

    luglio 2004

    CARTINA.tif

    1. L’Uomo Cinghiale

    Al centro della radura giaceva la carcassa di un alce. La carne martoriata fumava ancora. A Mandred e ai suoi compagni era chiaro che cosa significasse: dovevano aver fatto uscire allo scoperto il cacciatore. Il cadavere era coperto di tagli sanguinanti, il pesante cranio fracassato. Mandred non conosceva nessun animale che cacciasse solo per divorare il cervello della sua preda. Un rumore sordo lo fece voltare di colpo. Era stata la neve che cadeva in vorticosi mulinelli dai rami di un pino silvestre al margine della radura. L’aria era piena di cristalli di ghiaccio.

    Ora il silenzio era sceso di nuovo sulla foresta. Lontano, sopra le cime degli alberi, una luce verde si librava danzando verso il cielo. Non era proprio la notte adatta per inoltrarsi nelle foreste!

    «È solo un ramo che si è rotto sotto il peso della neve», disse il biondo Gudleif scuotendo la bianca coltre dalla sua mantella pesante. «Dunque non guardare là dentro come un cane infuriato. Vedrai che stiamo seguendo solo un branco di lupi».

    La paura era scivolata di soppiatto nel cuore dei quattro uomini. Tutti pensavano alle parole del vecchio che sulla cima li aveva avvertiti di una bestia portatrice di morte. Il terrore li aveva assaliti, eppure non erano quattro sprovveduti deliranti per la febbre o la pazzia. Mandred era lo Jarl di Firnstayn, il signore che governava quel piccolo villaggio sul fiordo, dietro la foresta. Allontanare qualsiasi pericolo che minacciasse il paese era suo dovere. Questo avevano deciso gli anziani e lui doveva obbedire. E invece…

    Quando l’inverno iniziava presto, il freddo si faceva sentire prima e la Luce delle Fate si librava danzante verso il cielo. Allora nel mondo degli umani arrivavano i Figli degli Albi. Mandred lo sapeva, e lo sapevano anche i suoi compagni.

    Asmund incoccò una freccia nell’arco e socchiuse gli occhi, nervoso. Aveva i capelli rossi, era goffo e non era mai stato di molte parole. Viveva a Firnstayn da due anni. Si diceva che al sud fosse stato un famoso ladro di bestiame, e che Re Horsa Scudoforte avesse messo una taglia su di lui. A Mandred questo non interessava. Asmund era un buon cacciatore, portava molta carne al villaggio. E questo contava più di qualsiasi diceria.

    Gudleif e Ragnar conoscevano Mandred fin dall’infanzia. Entrambi erano pescatori. Gudleif era un tipo tarchiato, con la forza di un orso, sempre di buonumore, aveva molti amici, anche se era considerato un po’ ingenuo. Ragnar era basso e dai capelli scuri, si distingueva per la sua capigliatura e per la sua statura dal resto degli abitanti, alti e biondi, che abitavano la Terra dei Fiordi. Talvolta veniva deriso e alcuni lo chiamavano di nascosto figlio del folletto Coboldo. Era una sciocchezza. Ragnar era un uomo dal cuore d’oro. Uno di cui ci si poteva assolutamente fidare!

    Mandred era triste, pensava a Freya, sua moglie. Di certo, in quel momento stava seduta davanti al focolare, tendendo l’orecchio fuori, nella notte. Un suono di corno preannunciava un pericolo. Quando il corno suonava due volte, in paese si sapeva che nessun pericolo era in agguato là fuori, e che i cacciatori si trovavano sulla via di casa.

    Asmund aveva abbassato l’arco e aveva posato un dito sulle labbra, allarmato. Sollevò il capo come un cane da caccia che aveva appena fiutato qualcosa. Ora anche Mandred lo sentiva. Uno strano odore si diffondeva nella la radura. Ricordava la puzza di uova marce.

    «Forse si tratta di un troll», sussurrò Gudleif, «negli inverni freddi scendono dai monti. Un troll potrebbe stendere un alce con un pugno».

    Asmund guardò cupamente Gudleif e con un cenno gli fece capire di stare zitto. Il legno degli alberi scricchiolava lievemente nel gelo. Mandred aveva l’impressione di essere osservato. Era lì. Vicinissimo.

    Improvvisamente i rami si mossero e due uccelli bianchi si librarono sopra la radura e volarono via con un fragoroso movimento di ali. Mandred alzò istintivamente la lancia, poi respirò sollevato. Erano soltanto due civette. Ma che cosa avevano scansato? Ragnar puntò l’arco verso un arbusto. Lo Jarl abbassò l’arma. Sentiva lo stomaco che gli si contorceva. C’era un mostro in agguato là nella boscaglia? Restarono in silenzio.

    Sembrò trascorrere un’eternità e nulla si mosse. I quattro avevano formato un ampio semicerchio intorno alla boscaglia. La tensione era troppa per poterla sopportare. Mandred si sentì un sudore freddo scendergli lungo la schiena e fermarsi all’altezza della cintura. La strada per tornare al villaggio era lontana. Quando i vestiti intrisi di sudore non avrebbero più potuto proteggerlo dal freddo, lui e suoi compagni sarebbero stati obbligati a improvvisare un campo da qualche parte e accendere un falò.

    Il grasso Gudleif si inginocchiò e infilò la lancia nel terreno. Poi, sbuffando, affondò le mani sotto la neve fresca e formò una palla. Guardò Mandred, e lo Jarl fece un cenno di assenso. La palla di neve planò nella boscaglia. Nulla si mosse.

    Mandred sospirò di sollievo. Forse era stata soltanto la sua paura a prendere forma nell’ombra della notte. Era stata lei a fargli credere che le due civette fossero volate via spaventate.

    Anche Gudleif sorrise sollevato. «Qui non c’è niente. La bestia che ha dilaniato l’alce è lontana, sui monti».

    «Siamo proprio un bel gruppo di cacciatori», scherzò ancora Ragnar, «ce la siamo lasciata sfuggire per un soffio».

    Gudleif si alzò e afferrò la sua lancia. «Adesso la lancio là, nell’ombra!». Ridendo, stuzzicò i ramoscelli degli arbusti.

    All’improvviso, uno scossone lo fece balzare in avanti.

    Mandred vide una grande mano afferrare la lancia. Gudleif lanciò un urlo, che subito si trasformò in un farfuglio gutturale.

    L’uomo tarchiato indietreggiò, con entrambe le mani pressate sulla gola. Del sangue gli schizzò tra le dita e arrivò fino al farsetto di pelo di lupo.

    Dalla boscaglia emerse una figura gigantesca, metà uomo e metà cinghiale. La creatura era completamente piegata sotto il peso dell’enorme testa di cinghiale e quando fece due passi avanti apparve ancora più imponente. Il corpo della bestia era quello di un potente colosso; grasso, nodoso, la muscolatura delle braccia e delle spalle molto sviluppata. Le mani terminavano con artigli scuri. Le gambe sotto le ginocchia erano innaturalmente magre e ricoperte di peli grigio-bruni. Al posto dei piedi aveva degli zoccoli divisi in due. L’Uomo Cinghiale lanciò un grugnito profondo e gutturale. Dalla mascella sbucavano zanne lunghe come pugnali. Gli occhi sembravano voler divorare Mandred con avidità.

    Asmund sollevò l’arco. Una freccia scoccò dalla corda. Colpì la bestia al lato della testa, lasciandole un graffio rosso. Mandred afferrò più saldamente la lancia.

    Gudleif cadde in ginocchio, oscillò un istante, per poi cadere rovesciandosi sul fianco. Le sue mani nodose cedettero. Il sangue gli sgorgava sempre dalla gola, e le gambe robuste tremavano, senza appoggio.

    Wut il Cieco afferrò Mandred. Lui si divincolò e scagliò la lancia nel petto dell’Uomo Cinghiale. Gli sembrò che fosse uscito da una roccia. La lama passò a lato della creatura, senza arrecare alcun danno. Un artiglio si frantumò contro il manico dell’arma.

    Ragnar afferrò il mostro da una parte, per distrarlo da Mandred che si lasciò cadere nella neve e prese un’ascia dalla cintura. Era una buona arma con una lama appuntita, ben affilata. Lo Jarl sollevò con tutte le sue forze le catene dell’Uomo Cinghiale. Il mostro grugnì. Quindi, abbassò il capo imponente, e colpì il cacciatore di striscio. Una falce colpì Mandred nella parte interna della coscia, lacerò i muscoli e frantumò il corno d’argento che aveva appeso alla cintura e usava come segnale.

    Con un colpo, l’Uomo Cinghiale lo sfregiò sulla nuca, così che Mandred fu catapultato tra gli arbusti.

    Mezzo intontito dal dolore, premette una mano sulla ferita, mentre con l’altra strappava delle strisce di stoffa dalla mantella. Veloce, pressò la lana nella piaga aperta poi si tolse la cintura, per stringere la gamba ferita.

    Alti lamenti risuonavano nella radura. Mandred ruppe un ramo da un arbusto e lo infilò nella cinta. Poi la strinse più forte, finché si fece tesa sulla parte superiore della coscia. Il dolore stava per fargli perdere i sensi.

    Le grida dalla radura ora erano cessate. Mandred piegò cautamente i ramoscelli dei cespugli. I suoi compagni giacevano nella neve, senza vita. L’Uomo Cinghiale era curvo sopra Ragnar e lo colpiva ancora nel petto con la lama della falce. Mandred voleva attaccare subito il mostro, ma la sua ascia era stata scagliata via. Era vile fuggire da una battaglia! Ma era anche stupido affrontare un duello senza speranze. Lui era lo Jarl, aveva la responsabilità dell’intero paese. Perciò doveva avvertire quelli che erano ancora in vita!

    Tuttavia, non poteva semplicemente tornarsene a Firnstayn. Le sue tracce avrebbero guidato il mostro dritto al villaggio. Doveva trovare un’altra via. Quatto quatto, Mandred strisciò all’indietro verso i cespugli. Ogni volta che un ramo si spezzava, il suo cuore quasi si fermava. Ma la bestia non se ne accorse. Si rannicchiò nella radura e consumò il suo orribile pasto.

    Quando Mandred fu fuori dalla boscaglia, cercò di orientarsi. Un dolore lancinante gli percorreva la gamba. Tastò il tampone di lana. Sopra, si erano formati dei cristalli di ghiaccio. Per quanto avrebbe ancora resistito al freddo?

    Lo Jarl zoppicò per il breve tratto fino al margine della foresta. Lanciò lo sguardo al ripido scoglio, la cui scura cima svettava alta sopra il fiordo. Lassù c’era un antichissimo Cerchio di Pietra. E lì vicino c’era una catasta di legno per i segnali di fumo. Se avesse potuto accendere il fuoco, il villaggio sarebbe stato avvertito. Ma aveva ancora due miglia da percorrere per arrivare in cima.

    Mandred si fermò al margine della foresta, ora doveva avanzare nella neve fresca. Angosciato, osservò l’ampio campo innevato davanti a sé che lungo una dolce salita, conduceva alla parte posteriore della scogliera. Lì la coltre bianca era abbastanza irregolare, e le sue tracce non sarebbero saltate all’occhio.

    Quasi esanime, si trascinò fino ai piedi di un tiglio e cercò di riprendere le forze. Se solo avesse dato retta alle parole del vecchio saggio! L’avevano trovato una mattina, dinanzi al recinto di legno che proteggeva il villaggio. Il freddo aveva quasi tolto la vita alle ossa del povero vecchio. Nei suoi sogni febbrili aveva raccontato di un cinghiale che camminava su due zampe, un mostro che era venuto dai lontani monti del nord per portare morte e distruzione tra i villaggi della Terra dei Fiordi. Un mangiatore di uomini! Se gli avesse parlato dei troll, che venivano dal profondo delle montagne, di cattivi folletti, che coloravano i loro berretti di lana con il sangue dei morti, della caccia agli elfi con i loro lupi bianchi, Mandred gli avrebbe creduto. Ma un cinghiale che camminava ritto su due zampe e mangiava gli uomini… Nessuno avrebbe ascoltato simili idiozie! E subito giudicarono le parole del vecchio come confusi sogni febbrili.

    Poi era arrivata la notte invernale. Lo straniero aveva chiamato Mandred al suo letto di morte. Non era riuscito a trovare pace finché Mandred non gli avesse finalmente giurato che sarebbe andato alla ricerca dei compagni del mostro e avrebbe dato l’allarme agli altri villaggi del fiordo. Mandred non gli aveva creduto, nonostante fosse un uomo d’onore, che non sottovalutava un giuramento. Per questo era uscito…

    Se soltanto fossero stati più attenti!

    Mandred sospirò profondamente, poi arrancò zoppicando lungo il grande campo innevato. La sua gamba sinistra era completamente intorpidita. Perlomeno, il freddo non gli faceva più avvertire il dolore della ferita. La gamba indolenzita rendeva ancora più difficile il tragitto. Inciampò ancora. Un po’ strisciando, un po’ camminando, cercava di proseguire. L’Uomo Cinghiale non sembrava sulle sue tracce. E se avesse già terminato il suo orribile pasto?

    Finalmente raggiunse un’ampia distesa di detriti. L’inverno precedente era caduta una frana in quel punto. Il terreno insidioso era nascosto sotto un fitto strato di neve. Mandred respirava affannosamente. Nuvole di vapore spesse e bianche volteggiavano davanti al suo viso trasformandosi in brina sulla sua barba. Maledetto freddo!

    Lo Jarl ripensò all’ultimo inverno. A volte era stato lì con Freya. Si erano sdraiati sul prato e avevano contemplato il cielo stellato. Si era vantato delle sue avventure di caccia davanti a lei, e raccontato come il Re Horsa Scudoforte al suo passaggio per la guerra, lo avesse accompagnato alle coste di Fargon. Freya lo aveva ascoltato pazientemente e talvolta lo aveva preso un po’ in giro, quando aveva ricamato troppo sulle sue imprese eroiche. La sua lingua riusciva ad essere tagliente come un coltello! Ma baciava come… No, non ci doveva pensare! Deglutì aspramente. Presto sarebbe diventato padre. Ma non avrebbe mai visto suo figlio. E se fosse stato un maschio? Mandred si appoggiò a una sporgenza di roccia per riprendere fiato. Era riuscito a percorrere solo metà del sentiero. Il suo sguardo si posò sui margini della foresta. L’oscurità della selva non riusciva a nascondere la Luce delle Fate, che lassù in cima al pendio splendeva come la luna piena.

    Aveva sempre desiderato vedere una notte come quella, anche se, come a gran parte della gente dei paesi del nord, quella inquietante luminosità del cielo gli faceva paura. Sembrava che nastri giganteschi fossero stati lanciati nel cielo, tessuti con stelle luccicanti.

    Alcuni dicevano che gli elfi si celassero in questa luce quando, durante la caccia, attraversavano il cielo gelido. Mandred sorrise. Freya aveva trovato piacere in questi pensieri. Nelle sere d’inverno amava sedersi davanti al focolare e ascoltare le storie; racconti di troll delle lontane montagne, e degli elfi, i cui cuori erano freddi come stelle d’inverno.

    Un movimento al margine della foresta distolse Mandred dai suoi pensieri. L’Uomo Cinghiale! La bestia doveva avere iniziato il suo inseguimento. Passo dopo passo, Mandred si trovò ad affrontare degli ostacoli che gli rallentavano la corsa verso il villaggio. Doveva solo resistere… Il mostro avrebbe potuto perforargli il petto e divorargli il cuore, ma solo dopo che lui fosse riuscito a lanciare il segnale di fuoco!

    Urtò contro la sporgenza di roccia ed inciampò. Non sentiva più i piedi. Non sarebbe potuto rimanere lì. Era folle… Anche un bambino sapeva che fermarsi con quel freddo avrebbe potuto significare la morte.

    Mandred era disperato. I piedi congelati e insensibili non lo avrebbero più avvertito se il terreno fosse franato sotto di lui. Erano diventati dei traditori, paralizzati di fronte al nemico che voleva impedirgli di lanciare il segnale di fuoco.

    Lo Jarl scoppiò a ridere. Era una risata di disperazione. Stava per perdere la ragione. Ormai i piedi erano semplicemente carne morta, così come presto l’intero corpo sarebbe stato: carne morta. Scalciò furiosamente contro lo spuntone di roccia. Niente! Era come se i suoi piedi non ci fossero. Ma riusciva ancora a camminare! Era solo una questione di volontà. E doveva prestare molta attenzione a dove andava.

    Si volse indietro a guardare, in preda all’angoscia.

    L’Uomo Cinghiale era tornato sul campo innevato. Sembrava non avere fretta. Sapeva che c’era solo quel sentiero per risalire la scogliera? Mandred ormai non gli poteva più sfuggire. E a questo prima non aveva pensato. Se soltanto avesse potuto lanciare il fuoco, di tutto il resto non gli sarebbe più importato nulla!

    Un rumore lo fece sussultare. La bestia ringhiò. Mandred capì che l’Uomo Cinghiale poteva guardarlo dritto negli occhi e leggervi la sua paura. Ovviamente, per la distanza sarebbe stato impossibile, ma… Sentì qualcosa sfiorargli il cuore, come un colpo d’aria fredda.

    Lo Jarl accelerò i passi. Doveva mantenere il suo vantaggio! Per accendere il fuoco, avrebbe avuto bisogno di un po’ di tempo. Il suo respiro ora fischiava. Quando espirava, si sentiva un sibilo sommesso, come i ghiaccioli che sulle cime dei pini si scontrano delicatamente l’uno contro l’altro. Il bacio della Fata dei Ghiacci! Gli venne in mente una fiaba che si racconta ai bambini. Narrava che la Fata dei Ghiacci fosse invisibile e che vagasse per la Terra dei Fiordi nelle notti gelide, in cui ghiacciava perfino la luce delle stelle. Scendeva così vicina da riuscire a sfiorare il volto dei viandanti con il suo bacio mortale. Era questo il motivo per cui l’Uomo Cinghiale non osava avvicinarsi?

    Mandred guardò di nuovo indietro. La bestia non sembrava fare alcuna fatica a muoversi nella neve profonda. Avrebbe dovuto capirlo prima. Perché il mostro giocava con lui come il gatto con il topo?

    Mandred scivolò; la testa colpì una roccia sporgente, ma lui non avvertì alcun dolore. Si toccò la fronte. Del sangue scuro fuoriusciva e provava un forte capogiro. Non sarebbe dovuto succedere! Guardò indietro. L’Uomo Cinghiale era fermo, aveva sollevato la testa e lo guardava.

    Mandred non riusciva più a reggersi sulle gambe. La sua impresa era ormai una follia. Guardare indietro ed andare avanti!

    Con tutte le sue forze cercò di rimettersi in piedi. Ma le gambe mezze congelate ormai non rispondevano più ai comandi. Avrebbe avuto bisogno di uno spuntone di roccia per appoggiarsi. Ora doveva strisciare. Che umiliazione! Lui, Mandred Torgridson, il guerriero più conosciuto del fiordo, stava strisciando davanti al suo nemico! Aveva sconfitto sette uomini da solo durante due battaglie della guerra di Re Horsa. Per ogni nemico battuto aveva tessuto una treccia. E ora, invece, gli strisciava davanti. Questo era un altro tipo di battaglia, pensò cercando di farsi coraggio. Contro questo mostro non si potevano scagliare armi. Aveva visto infatti come la freccia di Asmund era scivolata via e come l’ascia non aveva provocato alcuna ferita. No, questa battaglia aveva altre regole. Avrebbe vinto se fosse riuscito a lanciare il segnale di fuoco.

    Disperato, Mandred proseguì strisciando sui gomiti. Lentamente, stava perdendo anche la forza nelle braccia. Ma la cima non era più lontana. Il guerriero lanciò uno sguardo dritto davanti a sé, verso le rocce. Erano come una corona ricoperta di neve, che contrastava con il verde del cielo luccicante. Sulla cima c’era un Cerchio di Pietra che avrebbe dovuto attraversare per poter raggiungere la catasta di legna e lanciare un segnale di fuoco visibile dal villaggio.

    Continuò a strisciare, gli occhi semichiusi per il freddo pungente. I suoi pensieri andavano solo alla sua donna. La doveva salvare! La forza non doveva abbandonarlo proprio ora! Avanti, sempre avanti!

    Strizzò le palpebre e aprì gli occhi. Era sdraiato su una roccia nuda, senza neve. Davanti a lui si levava uno dei massi del Cerchio di Pietra, come una colonna. Si alzò barcollando davanti alla grossa pietra. Le gambe non avrebbero retto ancora a lungo.

    La cima era levigata come una chiave di legno. Nessuno osava entrare nel Cerchio di Pietra! Non era una questione di coraggio. Una volta, in estate, Mandred aveva osservato per tutto un pomeriggio la vetta. Neanche una volta gli uccelli si erano avventurati in volo sopra il Cerchio di Pietra.

    Un sentiero più stretto si snodava quasi impenetrabile, al margine della scogliera e permetteva di evitare il Cerchio di Pietra. Ma con le gambe, ormai insensibili, Mandred non era in grado di tentare quel percorso. Non aveva altra scelta che attraversare il Cerchio.

    Come se si aspettasse di ricevere un colpo improvviso, Mandred incassò la testa tra le spalle non appena entrò all’interno del Cerchio. Dieci passi ed avrebbe raggiunto la fine. Era un ridicolo tratto di strada…

    Mandred si guardò intorno spaventato. Non c’era neve tra le rocce. All’interno del Cerchio l’inverno sembrava non voler entrare. Strani mostri dai lineamenti contorti erano scolpiti nella pietra.

    Dal villaggio sottostante apparivano come una corona di stelle in cima alla scogliera. I blocchi di granito erano alti tre volte la statura di un uomo e formavano un anello sull’altopiano di roccia. Erano lì da molto tempo prima che arrivassero gli umani nella Terra dei Fiordi. Anche loro, erano abbelliti con mostri dai lineamenti contorti.

    Anni prima, un viandante giunto a Firnstayn, aveva affermato che le pietre fossero vecchi elfi guerrieri prigionieri di una maledizione lanciata dagli antichi Albi. Erano stati dannati per sempre, l’unica salvezza sarebbe venuta per loro quando, un lontano giorno, il paese stesso avrebbe chiesto aiuto e la maledizione si sarebbe spezzata. Mandred aveva allora deriso il viandante. Anche i bambini sapevano che gli elfi, dalla forma così eterea, non erano più alti degli umani. Le pietre erano troppo imponenti per essere degli elfi.

    Quando ebbe percorso metà del Cerchio, un vento gelido cominciò a soffiare contro Mandred. Ora ce l’aveva quasi fatta. Nulla avrebbe potuto fermarlo… La catasta di legna! Da lì l’avrebbero potuto scorgere!

    Si mise al riparo dal vento sotto uno spesso spuntone roccioso, al margine della scogliera. Si lasciò cadere sulle ginocchia e continuò strisciando in avanti. La scogliera scendeva a picco di quasi duecento passi... Dov’era la catasta di legna? Era stata spazzata via? Mandred ebbe l’impressione che i suoi dei lo deridessero. Aveva impiegato tutte le sue forze per arrivare fin qui, e ora…

    Disperato, guardò la strada al di là, sul fiordo. Lontano, dall’altra parte del mare ghiacciato, il suo villaggio era abbarbicato sulle rocce, coperto dalla neve. Firnstayn era costituito da quattro casolari e da un pugno di piccole capanne, recintate da palizzate estremamente fragili. Lo steccato di legno doveva servire a tenere lontani i lupi e a impedire l’ingresso ai saccheggiatori. L’Uomo Cinghiale non lo avrebbe mai aperto.

    Lo Jarl si avvicinò cauto al precipizio e guardò verso il fiordo. La Luce delle Fate faceva giochi di ombre verdi sul paesaggio innevato. Sia uomini sia animali erano ancora difficili da scorgere. Attraverso la foschia, si vedeva salire dai camini un fumo denso, bianco, che veniva disperso nel vento. Di sicuro, Freya stava accanto al focolare e tendeva l’orecchio al segnale del corno, che preannunciava il ritorno degli uomini dalla caccia.

    Se solo il corno non fosse stato fatto a pezzi! Da lì si sarebbe potuto udire il suo richiamo fino al villaggio. Che cattiva sorte avevano riservato gli dei per lui e per i suoi compagni!

    Mandred udì un leggero rumore di zoccoli. Spossato, si girò.

    L’Uomo Cinghiale era dall’altra parte del Cerchio di Pietra. Lo attraversò, lento, quasi esitante. Aveva anche lui paura di entrare in quello spazio sacro?

    Mandred continuò a strisciare sul ciglio della scogliera. La sua vita era in grave pericolo, questo lo sapeva. Ma se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito morire per il freddo piuttosto che diventare il pasto di una bestia.

    Il calpestio degli zoccoli divenne più veloce. L’ultimo passo ancora! Mandred ce l’aveva fatta.

    La stanchezza assalì le sue membra. A ogni respiro, sentiva il gelo scendergli in gola. Esausto, si accasciò su una pietra. Raffiche di vento soffiavano contro i vestiti ghiacciati. Il laccio sulla parte superiore della sua coscia si era allentato. Il sangue affiorava dalle fibre della lana.

    Mandred pregò in silenzio i suoi dei. Firn, il Signore dell’Inverno, Norgrimm, il Signore delle Battaglie, Naida, Signora delle Nuvole, che dominava sopra i ventitré venti, Webmeister, il mastro tessitore che, con i fili del destino degli uomini, tesse un prezioso arazzo per le pareti d’oro del salone in cui gli dei banchettano con i guerrieri più valorosi.

    A Mandred si chiusero gli occhi. Avrebbe dormito… Il grande sonno… avrebbe avuto anche lui un posto nel salone degli eroi. Sarebbe stato meglio morire con i suoi compagni. Era un vigliacco! Gudleif, Ragnar e Asmund, nessuno di loro si sarebbe fermato. Lui invece… gli dei l’avevano punito facendo rotolare la catasta di legna giù dalla scogliera.

    Hai ragione, Mandred Torgridson. «Un vigliacco non merita la protezione degli dei», gli risuonò una voce in testa. Era la morte a parlargli? O era solo una voce?

    «Non sono solo una voce! Guardami!».

    Lo Jarl riuscì appena a sollevare la palpebre. Percepì un respiro caldo sul viso. Poi, vide occhi grandi, blu come il cielo in un giorno di tarda estate, quando luna e sole sono entrambi nel firmamento. Erano gli occhi dell’Uomo Cinghiale! La bestia era vicina, appena fuori dal Cerchio di Pietra, in posizione raccolta. La bava gocciolava dalla bocca insanguinata. Nelle sue lunghe zanne c’erano ancora brandelli di carne.

    «Un vigliacco non merita la protezione degli dei», risuonava di nuovo la voce nella testa di Mandred. «Gli altri ora possono venire a prenderti».

    L’Uomo Cinghiale si alzò in piedi. Le sue labbra sussultarono. Sembrava quasi sorridere. Poi si voltò. Girò intorno al Cerchio di Pietra e sparì subito dalla vista.

    Mandred chinò la testa. La Luce delle Fate stava ancora danzando nel cielo. Gli altri? Piombò nell’oscurità. Le palpebre gli si erano chiuse senza che lui se ne fosse accorto? Voleva dormire, solo per un po’. Il buio lo allettava. Prometteva pace.

    2. Gioco d’amore

    Noroella stava seduta all’ombra di due tigli e si lasciava commuovere dal flauto di Farodin e dal canto di Nuramon. Aveva l’impressione quasi che i due pretendenti, con le loro dolci maniere, le restituissero nuovamente i sensi. Osservava assorta il gioco di luci e ombre sul tetto di foglie sopra di lei. Lasciò vagare lo sguardo verso la sorgente che si trovava poco più in là dell’ombra. La luce del sole scintillava sull’acqua. Si piegò in avanti, fece scivolare dentro la mano e avvertì il pizzicore della magia che vi abitava.

    Il suo guardo seguì il corso d’acqua che si riversava nel laghetto. I raggi del sole penetravano fino al fondale, facendo brillare le variopinte pietre preziose che Noroella, un tempo, aveva riposto lì con cura. Avevano in sé la magia della sorgente. La magia, che non era immobile, scorreva assieme all’acqua, dal lago verso il torrente e veniva trasportata via. Passava in mezzo all’erba e, durante la notte, le piccole Fate dei Prati lasciavano i loro fiori e si incontravano per svolazzare alla luce delle stelle e cantare la bellezza della Terra degli Albi.

    I prati indossavano i loro fioriti abiti primaverili. Un vento mite portava a Noroella il profumo delicato dei campi e dei fiori che sotto gli alberi si mescolava alla soave fragranza dei fiori di tiglio. Un fruscio scendeva dolcemente sopra gli elfi e si univa al canto degli uccelli e al gorgoglio dell’acqua della sorgente, facendo da sottofondo alle parole di Farodin e Nuramon.

    Mentre Farodin riuscì, con il suo flauto, a creare una fine composizione di suoni oltre le vibrazioni di quel luogo, Nuramon alzò il tono di voce sopra di esse, componendo versi che paragonavano Noroella a una Figlia degli Albi. Lei guardò amorevolmente Nuramon, seduto su una pietra piatta sull’acqua, e poi di nuovo Farodin, che era appoggiato al tronco del più grande dei due tigli.

    Il viso di Farodin era come quello di un principe degli elfi descritto nelle antiche canzoni, la cui nobile bellezza era elogiata come lo splendore degli Albi. Gli occhi verdi come il tiglio erano il magnifico coronamento di quel viso, i capelli biondo chiari la sua delicata cornice. Aveva la foggia dei cantori e tutto, la camicia, i pantaloni, il mantello, il fazzoletto da tasca era fatto della più fine seta fatata. Solo le sue scarpe erano fatte della morbida pelle di gelgerok. Noroella guardò le sue dita che danzavano sul flauto. Avrebbe potuto restare a osservarlo suonare per tutto il giorno…

    Mentre Farodin rispondeva all’ideale dell’elfo maschio, la stessa cosa non si poteva affermare di Nuramon. Le donne a corte prendevano in giro spesso il suo aspetto, solo per poi parlare della sua bellezza diversa con le mani davanti alla bocca. Nuramon aveva gli occhi marrone chiaro e i capelli castani che scendevano ondulati fin sopra le spalle. Con i suoi vestiti color sabbia non rispondeva per nulla all’immagine di un cantore, tuttavia aveva uno sguardo gradevole. Invece della seta delle Fate, aveva scelto quei tessuti di lana che erano molto meno costosi, ma così robusti e morbidi, che Noroella, alla vista della camicia e del mantello dai colori del bosco, era andata più volentieri da Nuramon per appoggiare la testa sul suo petto. Anche gli stivali a mezza gamba color terra, fatti in pelle morbida di gelgerok risvegliarono in Noroella il desiderio di toccarli. L’espressione del viso di Nuramon era mutevole come la sua voce, che era padrona di tutte le forme di canto e aveva un suono adeguato ad ogni moto dell’animo. Ma i suoi occhi marroni esprimevano nostalgia e malinconia.

    Farodin e Nuramon erano diversi, ma entrambi affascinanti, ognuno a modo suo. Entrambi possedevano la propria perfezione, come la luce del giorno era attraente allo stesso modo dell’oscurità della notte, o come l’estate e l’inverno, la primavera e l’autunno. Noroella non voleva rinunciare a nulla di tutto ciò e giudicare i due elfi dal loro aspetto esteriore non rendeva facile la scelta.

    A corte qualcuno le aveva consigliato di tenere conto della famiglia di provenienza per la scelta del suo compagno. Tuttavia, non era merito di Farodin se la bisnonna era stata una Figlia degli Albi in carne e ossa! E non era colpa di Nuramon il fatto di provenire da una famiglia che, attraverso le generazioni, era stata separata dagli Albi! Noroella non voleva prendere una decisione che dipendesse dai loro antenati, ma da loro stessi.

    Farodin sapeva come si doveva corteggiare una nobildonna. Conosceva tutte le regole e gli usi e si comportava sempre in maniera così adeguata e rispettabile da suscitare l’ammirazione di tutti. Noroella era molto attratta da lui perché egli pareva conoscere la sua anima nel profondo, era in grado di commuoverla e di trovare sempre le parole adatte come se fosse in grado, in ogni istante, di percepire i suoi sentimenti e i suoi pensieri. Ma questo era, allo stesso tempo, il suo difetto. Farodin conosceva tutte le canzoni e tutti gli antichi racconti. Sapeva sempre quali dolci parole utilizzare perché le aveva già ascoltate prima. Ma quali erano le sue parole e quali quelle degli antichi poeti? Erano quelli i suoi versi, oppure li aveva già sentiti prima? Noroella rise; quel difetto apparente non gravava su Farodin, ma su di lei. Quel luogo delizioso non era forse come lo avevano descritto gli antichi cantori? Il sole, il tiglio, l’ombra, la sorgente, la magia? Poteva dunque rimproverare Farodin di non aver fatto diversamente dagli antichi poeti? No, non poteva. Farodin era perfetto sotto ogni punto di vista e ogni donna dei paesi degli elfi sarebbe stata soddisfatta del suo modo di corteggiare.

    Tuttavia, Noroella si chiedeva chi fosse veramente Farodin. Egli si sottraeva a lei come la fonte di Lyn si sottraeva agli sguardi degli elfi con la luce luminosa. Lei desiderava che egli attenuasse per un attimo la sua luce per gettare lo sguardo alla fonte. Aveva spesso cercato di smuoverlo ma egli non aveva compreso i suoi gesti. Così le era stato impedito, fino allora, di vedere nel profondo del suo animo e talvolta aveva paura che vi si potesse nascondere qualcosa di oscuro, qualcosa che Farodin si sforzava a ogni costo di nascondere. Di tanto in tanto il suo amato faceva dei lunghi viaggi, ma non diceva mai dove andava e perché. E quando tornava, nella gioia del rivedersi, a Noroella sembrava che fosse ancora più chiuso di prima.

    Al contrario, Noroella sapeva bene chi fosse Nuramon. Spesso le avevano detto che Nuramon non era quello giusto per lei, che non era adatto alla sua virtù. Egli, infatti, non discendeva da una stirpe numerosa, ma da una casata che portava su di sé il peso di un’infamia. Perché Nuramon aveva l’anima di un elfo che, in tutte le vite che aveva vissuto, non aveva mai trovato la destinazione della sua esistenza e quindi non era mai giunto alla Luce Lunare. Per questo non era in grado di ricordarsi le sue vite precedenti.

    Nessun altro era rinato così tante volte come Nuramon; da millenni egli stava nel gioco alterno della vita, esposto alla morte e alla rinascita. Nuramon aveva ereditato anche il suo nome assieme alla sua anima. La regina aveva riconosciuto in lui l’anima di suo nonno e gli aveva dato anche il suo nome. L’apparente ricerca senza fine della sua destinazione procurava, anche nella famiglia stessa di Nuramon, uno scherno presuntuoso nei suoi confronti. Finché fosse stato in vita, nessuno avrebbe dovuto preoccuparsi del proprio neonato, ma non appena Nuramon fosse morto, la sua anima sarebbe rimasta come un’ombra sulla sua stirpe. Nessuno sapeva da chi sarebbe nato il nuovo Nuramon.

    Tutto sommato, egli non poteva veramente contare sulla sua origine e sperare quindi di essere ammirato per questa ragione. Al contrario, tutti dicevano che Nuramon avrebbe intrapreso lo stesso percorso di prima: avrebbe cercato la sua destinazione, sarebbe morto per questo e poi rinato. Noroella era contraria a tale opinione. Vedeva seduta davanti a lei una persona perfetta e, quando Nuramon dedicò un’altra canzone alla sua bellezza, Noroella avvertì in ogni parola che egli pronunciava l’amore profondo che provava per lei. Ciò che la sua infanzia non gli aveva concesso, lui lo aveva costruito da solo. Solo una cosa non osava fare: avvicinarsi troppo a lei. Non l’aveva mai toccata, mai si era azzardato a sfiorarla, come aveva fatto Farodin che aveva preso la sua mano e l’aveva baciata. E quando lei gli concedeva qualche gesto di innocente tenerezza, lui la respingeva con parole dolci e inebrianti.

    In qualsiasi modo guardasse i suoi pretendenti, Noroella non era in grado, al momento, di prendere una decisione. Se Farodin le avesse aperto il suo cuore, allora avrebbe scelto lui. Se Nuramon avesse teso le sue mani verso di lei e avesse afferrato la sua, allora avrebbe avuto lui la precedenza. La decisione non dipendeva da lei. Erano trascorsi solo vent’anni dall’inizio del corteggiamento. Dovevano passarne altri venti perché essi si potessero aspettare una decisione da lei. E se lei non fosse stata in grado di giungere ad alcuna decisione, allora avrebbe avuto il suo favore quello con la maggiore perseveranza. Se fossero stati pari anche in questo, allora il corteggiamento sarebbe stato sospeso per sempre, un’eventualità che fece sorridere Noroella compiaciuta.

    Farodin intonò un nuovo pezzo suonando così profondamente che Noroella chiuse gli occhi. Conosceva quella canzone, l’aveva già sentita una volta a corte. Ma Farodin superava ciò che aveva udito quella volta.

    La voce di Nuramon invece si sbiadì un pochino, finché Farodin iniziò una nuova canzone.

    «Oh! Guarda, incantevole Figlia degli Albi!» cantava ora Nuramon. Noroella aprì gli occhi, era stata sorpresa dall’improvviso cambio di voci.

    «Lì, sull’acqua, un volto». Fissò l’acqua ma non poté seguire il suo sguardo tanto era incantata dalla sua voce.

    «Oh, Noroella, presto corri laggiù. Fuori dall’ombra verso la luce».

    Noroella si alzò e seguì le parole; si allontanò di alcuni passi dalla sorgente e si inginocchiò sulla riva del lago per guardare nell’acqua. Ma non c’era nulla da vedere.

    Nuramon continuò a cantare. «Gli occhi tuoi blu sono un lago». Noroella vide degli occhi blu; erano i suoi occhi che Nuramon aveva paragonato con piacere a un lago.

    «I tuoi capelli di notte si muovono al ritmo del vento di primavera». Lei guardò i suoi capelli, vide come le sfioravano dolcemente il collo e sorrise.

    «Tu stai lì e sorridi come una fata. Oh, guarda, incantevole Figlia degli Albi!».

    Lei si guardò molto attentamente, ascoltando come Nuramon cantasse la sua bellezza nelle diverse lingue degli Albi. Nelle lingue delle fate tutto appariva semplicemente bello, ma egli poteva anche parlare la lingua dei folletti e lusingarla ugualmente.

    Mentre lei lo ascoltava con attenzione, aveva davanti agli occhi non più se stessa, ma un’altra donna, molto più bella di quanto sentiva di essere, solenne come la regina e dotata di grazia, così come si diceva degli Albi. Anche se lei non si vedeva in quella luce, sapeva che le parole di Nuramon giungevano direttamente dal cuore.

    Quando i suoi amati tacquero, ella distolse lo sguardo dall’acqua e lo rivolse prima a Nuramon e poi a Farodin. «Perché avete smesso?».

    Farodin guardò in alto il tetto di foglie. «Gli uccelli sono inquieti. Non hanno voglia di cantare».

    Noroella si rivolse a Nuramon. «Era veramente il mio volto quello che ho visto sull’acqua, o si trattava di una magia?».

    Nuramon sorrise. «Non ho fatto nessuna magia, ho solo cantato. Ma il fatto che tu non sia riuscita a distinguere tra le due cose mi lusinga».

    Farodin si alzò improvvisamente e anche Nuramon si alzò e guardò in lontananza, oltre il lago e i prati. Poi si udì un segnale di corno che risuonava nella campagna intorno.

    Allora si alzò anche Noroella. «La regina? Che cosa può essere successo?» domandò.

    Farodin si mosse di qualche passo e raggiunse Noroella. Le pose la mano sulla spalla. «Non preoccuparti Noroella».

    Anche Nuramon era arrivato accanto a lei. «Sicuramente non si tratta di nulla che non possa essere risolto da un gruppo di elfi», le sussurrò all’orecchio.

    Noroella sospirò. «Era troppo bello per durare tutto il giorno». Vide come gli uccelli si erano librati nell’aria e, poco dopo, si erano messi a volare verso il castello della regina, che si trovava oltre i prati e i boschi, su una collina.

    «L’ultima volta la regina ti ha chiamato per la caccia degli elfi. Sono preoccupata per te, Farodin».

    «Non sono tornato tutte le volte? E Nuramon non ti ha sempre addolcito il tempo in mia assenza?».

    Noroella si staccò da Farodin rivolgendosi a entrambi «E se dovrete partire insieme?».

    «Non mi sarà affidato un tale dovere», replicò Nuramon. «È sempre stato così e sarà sempre così».

    Farodin tacque.

    «Il riconoscimento che non ti è stato concesso te lo darò io, Nuramon», dichiarò Noroella. «Ma ora andate! Prendete i vostri cavalli e cavalcate! Io arriverò più tardi e vi rivedrò stasera a corte».

    Farodin prese la mano di Noroella, la baciò e si congedò. L’addio di Nuramon si risolse in un sorriso affettuoso. Poi andò verso Felbion, il suo cavallo bianco. Farodin era già seduto sul suo cavallo marrone. Noroella fece loro un altro cenno di saluto.

    La donna elfa guardò i due amati cavalcare per i prati, discosti dai fiori fatati, verso il bosco e il castello che si trovava laggiù. Bevve un po’ d’acqua della sorgente e si mise in cammino. Camminava a piedi nudi tra i prati. Voleva andare dalla Quercia dei Fauni. Sotto quella pianta era in grado di vedere chiaramente i suoi pensieri come in nessun altro luogo. La quercia, dal canto suo, dialogava con lei e le aveva insegnato molti incantesimi quando era giovane.

    Mentre camminava pensava a Farodin e Nuramon.

    3. Il risveglio

    «Fa incredibilmente caldo», pensò Mandred al suo risveglio. Nelle immediate vicinanze si udiva il cinguettio degli uccelli. Nella sala degli eroi non si sarebbe di certo sentito. Lì di uccelli non ce n’erano… E sicuramente c’era nell’aria il profumo di miele, del pregiato idromele e l’odore del resinoso legno d’abete che ardeva sul fuoco!

    Avrebbe solo dovuto aprire gli occhi per capire dove si trovava. Ma Mandred indugiava. Stava sdraiato su qualcosa di morbido. Niente gli procurava dolore. Le mani e i piedi formicolavano ma non era una sensazione sgradevole. Non voleva proprio sapere dove si trovava. Voleva semplicemente godersi quell’attimo di benessere. Così doveva essere da morti.

    «So che sei sveglio», risuonò una voce esitante, come se le riuscisse difficile pronunciare quelle parole.

    Mandred aprì gli occhi. Si trovava sotto un albero, i cui rami erano intrecciati come una cupola. Accanto a lui, in ginocchio, c’era uno sconosciuto che tastava con le mani il suo corpo. I rami arrivavano vicinissimi alla sua testa; il suo viso restava nascosto dal gioco di luci e ombre.

    Mandred socchiuse gli occhi per vedere meglio. C’era qualcosa che non andava. Le ombre sembravano girare vorticosamente intorno a quel volto sconosciuto, come se volessero nasconderlo intenzionalmente.

    «Dove sono?».

    «Sei al sicuro», rispose brevemente lo sconosciuto.

    Mandred si voleva alzare. Allora si accorse che le mani e le gambe erano legate a terra. Poteva solo muovere la testa.

    «Cosa vuoi da me? Perché sono legato?».

    Due occhi balenarono per un attimo nell’ombra. Avevano il colore chiaro dell’ambra, come quella che a volte aveva trovato sulle rive dei fiordi, ad ovest, dopo terribili tempeste.

    «Quando Atta Aikhjarto ti avrà curato potrai andare. Non do così tanto valore alla tua compagnia da tenerti legato. È stato lui a decidere di curare le tue ferite…».

    Lo sconosciuto emise uno strano suono simile a uno schiocco. «È come se parlassi con un nodo sulla lingua. La tua lingua è priva di qualsiasi… bellezza».

    Mandred si guardò attorno. Oltre allo straniero, che era circondato così misteriosamente dalla penombra, non c’era nessun altro. Le foglie cadevano dai rami fitti dell’albero maestoso, come fosse un giorno d’autunno senza vento e finivano a terra volteggiando dolcemente.

    Il guerriero guardò in alto, verso la chioma. Era sotto una quercia il cui fogliame brillava nella folta vegetazione di primavera. Aveva l’odore della buona terra nera, ma anche quello della putrefazione, di carne marcia.

    Un raggio di luce dorato colpì la sua mano sinistra passando attraverso il groviglio di foglie. Ora vedeva cosa lo teneva prigioniero: erano le radici della quercia! Intorno al polso c’erano delle radici intrecciate, lunghe un dito, che formavano dei nodi e le dita erano coperte dal bianco e leggerissimo intreccio di radici. Da lì proveniva quell’odore di marcio.

    Il guerriero cercò di liberarsi ma ogni tentativo di resistenza era inutile. Delle catene di ferro non avrebbero potuto tenerlo così stretto come quelle radici.

    «Che cosa mi sta succedendo?».

    «Atta Aikhjarto si è offerto di guarirti. Eri destinato a morire quando sei passato attraverso la porta. Mi ha ordinato di portarti qui». Lo straniero indicò in alto i rami che sporgevano. «Egli paga un grande prezzo per estrarre dal tuo corpo il veleno del freddo e per ridare alla tua pelle il colorito dei boccioli di rosa».

    «Per Luth, dove mi trovo?».

    Lo sconosciuto emise un suono che pareva un belato e che ricordava lontanamente quello di una risata. «Ti trovi in un luogo dove i tuoi dei non hanno più potere. Essi proteggono i figli degli uomini come te, ma tu devi averli contrariati attraversando questa porta».

    «Quale porta?».

    «Il Cerchio di Pietra. Abbiamo sentito che hai pregato i tuoi dei». Di nuovo lo sconosciuto emise quel rumore che sembrava una risata e un belato. «Ora sei nella Terra degli Albi, Mandred, presso i Figli degli Albi. È abbastanza lontano dai tuoi dei».

    Il guerriero si spaventò. Chi oltrepassava le porte verso il mondo dell’aldilà era maledetto! Aveva già sentito abbastanza storie di uomini e donne che venivano condotti nel regno dei Figli degli Albi. Nessuna di queste storie aveva avuto un lieto fine…

    E se avessero saputo dell’Uomo Cinghiale?

    «Perché Attan Aik… Atta Ajek… la quercia mi sta aiutando?».

    Lo sconosciuto tacque un attimo. Mandred desiderava vedere quel volto. Era sicuramente un mago quello che si nascondeva così ostinatamente al suo sguardo.

    «Atta Aikhjarto deve averti considerato un uomo importante, guerriero. Alcuni alberi antichi, così si narra, hanno le radici talmente profonde che hanno le fondamenta nel vostro mondo, uomo. Qualunque cosa Atta Aikhjarto sappia di te deve avere un’enorme importanza per lui, tanto da sacrificare parte della sua forza per te. Prende il tuo veleno su di sé e ti dà la sua linfa vitale».

    Lo sconosciuto indicò le foglie che cadevano. «Sta soffrendo al posto tuo, uomo. E d’ora in poi avrai la forza di una quercia nel tuo sangue. Non sarai mai più uguale ai tuoi simili e sarai…».

    «Basta così!» una voce rude interruppe il discorso dello sconosciuto. I rami dell’albero si divisero e una figura, metà uomo e metà cavallo, giunse sul giaciglio di Mandred.

    Il guerriero guardò esterrefatto la creatura. Mai prima di allora aveva sentito parlare di una tale creatura. Quell’Uomo Cavallo aveva il busto muscoloso di un umano che cresceva sul tronco di un cavallo! Il suo viso era circondato da una barba nera e riccioluta. I capelli erano corti e portava un anello d’oro sulla fronte. Aveva sulle spalle una faretra intrecciata con delle frecce e sulla sinistra teneva un corto arco da caccia. Sarebbe diventato un guerriero considerevole se non fosse stato un cavallo rosso bruno.

    L’Uomo Cavallo si chinò vicinissimo a Mandred. «Mi chiamano Aigilaos. La signora della Terra degli Albi ti vuole vedere e mi ha dato l’onore di condurti a corte». Parlava con voce profonda e melodiosa ma accentuava le parole in maniera singolare.

    Mandred sentiva che la presa d’acciaio delle radici si allentava, liberandolo completamente. Questa strana figura gli ricordava quella dell’Uomo Cinghiale. Anche lui era metà uomo e metà animale. Chissà che aspetto aveva la signora di quell’Uomo Cavallo!

    Mandred si toccò la coscia. La ferita profonda si era richiusa senza lasciar intravedere nemmeno una cicatrice. Allungò le gambe. Non sentiva più alcun formicolio sgradevole, e nessun dolore! Sembravano completamente guarite come se non fossero mai state colpite dal gelo.

    Si alzò in piedi con prudenza. Non si fidava ancora della forza delle sue gambe. Sentiva il terreno morbido sotto le suole degli stivali. Quella era magia! La potente magia che nessuna strega della Terra dei Fiordi avrebbe potuto mettere in atto. Le sue gambe e i suoi piedi prima erano morti. Ora avevano riacquistato la sensibilità.

    Il guerriero si diresse verso il possente tronco di quercia. Cinque uomini non sarebbero stati in grado, con le braccia distese, di cingerlo completamente. Doveva essere vecchio di secoli. Mandred si inginocchiò con rispetto sotto la quercia, toccando con la fronte la corteccia rugosa. «Io ti ringrazio, albero. Sono in vita per merito tuo». Si schiarì imbarazzato la voce. Come si doveva ringraziare un albero? Un albero dotato di poteri magici che lo sconosciuto senza volto trattava con rispetto come se fosse un re. «Io… io ritornerò per onorarti e per festeggiare. Farò una festa come quelle che si fanno nella Terra dei Fiordi. Io…». Allargò le braccia. Era una cosa misera ringraziare il suo salvatore con nient’altro che una promessa. Doveva esserci qualcosa di più convincente…

    Mandred strappò un pezzo di stoffa dai pantaloni e lo annodò ad uno dei rami che pendevano in basso. «Se c’è qualcosa che io possa fare per te, mandami un messaggero con questo pezzo di stoffa. Io giuro sul sangue di cui è imbevuto questo pezzo di stoffa che la mia ascia da oggi in poi si metterà tra te e tutti i tuoi nemici».

    Un fruscio fece guardare Mandred in alto. Una ghianda rosso bruna cadde dalla chioma dell’albero, accarezzando la sua spalla e atterrando sul fogliame appassito.

    «Prendila», disse piano lo sconosciuto. «Atta Aikhjarto solo di rado fa dei doni. Ha accettato la tua promessa. Conserva con cura la ghianda. Può essere molto preziosa».

    «Un tesoro col quale ogni anno migliaia di fratelli sono cresciuti sotto i rami di Atta Aikhjarto», dichiarò con sarcasmo l’Uomo Cavallo. «Tesori coi quali le schiere degli eroi degli scoiattoli e dei topi si sono riempiti lo stomaco. Adesso vieni, non vorrai fare aspettare la nostra signora».

    Mandred scrutò l’Uomo Cavallo con diffidenza e si inchinò per raccogliere la ghianda. Aigilaos gli sembrava un tipo sinistro. «Ho paura di non riuscire a tenere il tuo passo», ammise.

    I denti bianchi brillarono tra la barba folta. «Non lo dovrai fare, figlio degli uomini. Sali sulla mia schiena e tieniti forte alla striscia di pelle della mia faretra. Non sono meno forte di un cavallo da battaglia del tuo mondo e scommetto la coda che potrei battere in corsa qualsiasi cavallo che hai mai incontrato. Per questo la mia andatura è così leggera che a malapena i fili d’erba si piegano sotto i miei zoccoli. Io sono Aigilaos, il più veloce dei centauri e mi si esalta…».

    «… per avere una lingua ancora più veloce», lo interruppe con scherno lo sconosciuto. «Si dice dei centauri che muovano volentieri la lingua. È così veloce che talvolta supera la realtà».

    «E di te, Xern? Si dice che tu sia un tale burbero che solo gli alberi ti sopportano», rispose Aigilaos ridendo. «E probabilmente solo perché non possono fuggire».

    Le foglie della grande quercia frusciarono, nonostante Mandred non percepisse un filo d’aria. Il fogliame appassito cadeva come la neve a primavera.

    Il centauro guardò in alto verso i rami poderosi. Il sorriso era sparito dal suo volto. «Con te non sono in conflitto, Atta Aikhjarto».

    Si udì il suono di un corno in lontananza. L’Uomo Cavallo si sentì improvvisamente sollevato. «I corni della Terra degli Albi ci chiamano. Devo portarti a corte dalla regina, figlio degli uomini».

    Xern fece un cenno d’assenso a Mandred. Per un attimo scomparve la magia che aveva nascosto il suo volto. Aveva un viso magro e bello e dai suoi folti capelli spuntavano le potenti corna di un cervo. Il guerriero rimase senza fiato. Si ritrasse spaventato. C’erano soltanto uomini animali in quel luogo?

    Improvvisamente Mandred vide tutti i suoi ricordi ricomporsi in un’unica immagine. L’Uomo Cinghiale era arrivato fin lì! Lo aveva risparmiato durante la caccia. Non era stato un caso che egli fosse stato il solo a non soccombere sotto le zanne mortali della bestia. L’inseguimento… Faceva parte forse di un piano malvagio? Forse era stato soltanto la preda di quella bestia e aveva fatto proprio ciò che lei voleva. Era entrato nel Cerchio di Pietra…

    L’Uomo Cavallo scalpitò inquieto coi suoi zoccoli. «Vieni Mandred!».

    Mandred afferrò la cinghia della faretra e si mise sulla schiena del centauro. Doveva fare quello che gli ordinava! Eppure lui non era un vigliacco. Quella misteriosa regina poteva far suonare migliaia di corni che tanto non si sarebbe inginocchiato davanti a lei. No, le sarebbe andato incontro in piedi e pieno d’orgoglio e avrebbe chiesto dei soldi in risarcimento della sventura che il suo Uomo Cinghiale aveva portato alla Terra dei Fiordi.

    Aigilaos spostò la coltre protettiva di rami con le mani forti e uscì fuori sul prato sassoso. Mandred si guardava attorno meravigliato. Qui dominava la primavera e il cielo gli sembrava molto più vasto che nella Terra dei Fiordi! Ma allora come aveva potuto cadere una ghianda matura dall’albero?

    L’Uomo Cavallo si mise a galoppare velocemente. Le mani di Mandred si tenevano forti intorno alla pelle della faretra. Aigilaos non aveva mentito. Galoppava veloce come il vento per i prati passando accanto all’imponente rovina di una torre. Lì dietro si elevava una collina che era circondata da un Cerchio di Pietra.

    Mandred non era mai stato un abile cavaliere. Le sue gambe erano rattrappite tanto erano pressate contro i fianchi dell’uomo cavallo. Si stava prendendo gioco di lui! Ma non l’avrebbe mai pregato di andare più piano, giurò Mandred a se stesso in silenzio.

    Passarono attraverso un luminoso boschetto di betulle. L’aria era piena di semi dorati. Tutti gli alberi erano già cresciuti. I loro tronchi splendevano come le gambe degli elfi. Nessuno aveva la corteccia a brandelli, come gli alberi che conosceva della Terra dei Fiordi. Le rose selvatiche si arrampicavano sui massi di roccia grigia sparsi qua e là. Sembrava quasi che nel boschetto regnasse uno strano ordine selvatico. Ma chi avrebbe sprecato del tempo a curare un pezzo di bosco che non portava raccolti? Di certo non un essere come Aigilaos!

    La strada continuava a salire e presto divenne poco più di uno stretto sentiero di campagna. Le betulle lasciarono il posto ai faggi, la cui chioma di foglie era così folta che quasi non lasciava passare la luce. I fusti alti e stretti parevano a Mandred delle colonne grigie. C’era un silenzio sinistro. Si sentiva soltanto il rumore degli zoccoli attutito dal fogliame. Di tanto in tanto Mandred guardava i nidi sulle chiome degli alberi che sembravano dei grandi sacchi di stoffa. In alcuni nidi si vedevano brillare delle luci. Il guerriero si sentiva osservato. C’era qualcosa lassù che lo guardava con occhi curiosi.

    Aigilaos continuava la sua galoppata a rotta di collo. Un’ora dopo o poco più, arrivarono al bosco silenzioso fino a quando non imboccarono un ampio sentiero. L’uomo cavallo non era minimamente sudato.

    Il bosco si fece più luminoso. Dei pezzi di roccia grigia, coperti di muschio, solcavano il terreno scuro. Aigilaos rallentò. Si guardò intorno con attenzione.

    Mandred vide seminascosto, tra gli alberi, un altro Cerchio di Pietra. Le pietre erano circondate d’edera. Un albero abbattuto era posto in diagonale nel cerchio. Sembrava un luogo abbandonato da tempo.

    Il guerriero sentì i peli della nuca sollevarsi. Qui l’aria era un po’ più fresca. Provò la sensazione sgradevole che oltre il suo campo visivo si aspettasse intravedere qualcosa di sospetto anche per lo stesso Uomo Cavallo. Perché quel Cerchio di Pietra era stato abbandonato? Che cosa poteva essere accaduto in quel luogo?

    Il sentiero portava su, verso una rupe che regalava una vista mozzafiato della campagna sottostante. Proprio davanti a loro c’era un’ampia gola e pareva che il terreno roccioso fosse stato scavato, un tempo, da Naida, la Signora delle Nuvole, con un colpo di fulmine. Un sentiero stretto nella pietra portava a un ponte costruito sopra l’abisso con arcate ardite.

    Dall’altra parte della gola la campagna si elevava in dolci colline che, verso l’orizzonte, si trasformavano in montagne. Sopra l’altro lato della gola si riversavano numerosi torrenti che scorrevano nell’orrido.

    «Shalyn Falah, il ponte bianco», dichiarò Aigilaos con rispetto. «Si dice che sia stato tagliato dalla nocca di un dito della gigante Dalagira. Chi lo attraversa entra nel cuore della Terra degli Albi. È da molto tempo che un uomo non visita questo luogo».

    L’Uomo Cavallo si mise a scendere nella gola. Il terreno di roccia scivolosa era bagnato dagli spruzzi dell’acqua. Tastò con prudenza verso il basso e imprecò violentemente in una lingua che Mandred non comprese.

    Appena raggiunsero l’ampia cornice di rocce, Aigilaos gli chiese di scendere. Il ponte era davanti a loro. Lontano appena due passi, era leggermente inarcato in mezzo, cosicché gli spruzzi d’acqua non potevano formare delle pozze, ma, al contrario, scorrevano via. Non c’era nessun parapetto.

    «Sicuramente è una meravigliosa costruzione», mormorò Aigilaos di cattivo umore. «Solo che i costruttori non hanno pensato che forse potevano passare delle creature con gli zoccoli ferrati. È meglio per te se attraversi il ponte a piedi, Mandred. Ti aspettano dall’altra parte. Devo fare un’altra strada e raggiungerò il castello solo nella notte. Ma la regina ti attende per l’ora del tramonto». Sorrise di sbieco. «Spero che tu non soffra di vertigini, guerriero».

    Mandred ebbe una sensazione di debolezza quando osservò il ponte, scivoloso come uno specchio. Ma non voleva mostrare la sua paura a quell’Uomo Cavallo! «Sicuro che non soffro di vertigini. Sono un guerriero della Terra dei Fiordi. Posso arrampicarmi come una capra!».

    «Quantomeno sei peloso come una capra», Aigilaos sogghignò insolente. «Ci vediamo a corte dalla regina». Il centauro si voltò e salì rapidamente sull’irto sentiero a lato della

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