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E-book265 pagine3 ore

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La storia di Olga che, innamorata di Gavino, ne sopporta, soffrendo, le avventure extra coniugali, s’intreccia con la storia di Carla che, se non tradita dal marito ne patisce la gelosia e, rimasta vedova, risposandosi, ritrova, se non proprio l’amore, la serenità e, infine, la storia di Colette di cui Gavino s’innamora follemente, al punto di chiedere da lei sollecitato, il divorzio dalla moglie che, però, pur vivendo da separati in casa, è determinata a non concederglielo, ma non ha nemmeno il coraggio di vendicarsi di lui restituendogli pan per focaccia, pur avendone l’occasione nel corso di un veglione di carnevale in quel di Brissago, allorché ritrova Mirko, il suo primo amore, che credeva caduto vittima della repressione titina.
Infine la confessione di Carla che Gavino si è approfittato della figlia Simonetta, porta le due amiche, novelle Boadicea, ad escogitare, di comune accordo, lo stratagemma a mezzo del quale Gavino avrebbe pagato per le sue malefatte.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2013
ISBN9788897733713
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    Anteprima del libro

    Donne - Romolo Borgna

    Francesca

    1

    Roberto Caputi, prima di aprire la sua farmacia, come faceva ogni mattina, si fermò all’edicola e acquistò il Corriere di Novara. Lo aprì e un titolo di spalla a tre colonne sulla cronaca di Verbania attirò la sua attenzione:

    «IMPRENDITORE MUORE NELLA SUA VILLA INCERTE LE CAUSE».

    Chi può essere?, si chiese e, data una scorsa all’articolo, per poco non gli prese un colpo. Lo scomparso imprenditore non era altri che il suo amico Gavino de Castelvì. L’articolo chiariva che a denunciare in questura l’incidente che aveva causato la sua morte era stata la signora Olga, consorte dell’imprenditore, accompagnata dall’avvocato Giannino Olmic.

    La notizia lo lasciò stordito. Pensò di telefonare a Le Camelie per saperne di più, ma nessuno rispose al telefono. Nel suo articolo il cronista del Corriere di Novara avanzava l’ipotesi di omicidio per gelosia e faceva il nome di una certa madame Colette Lavallier, con la quale il defunto sembrava intrattenesse una relazione.

    Ricordò di aver conosciuto la bella e raffinata signora francese in occasione dell’inaugurazione della filiale parigina della Castalia S.p.a., al tempo in cui lavorava ancora per l’amico e ricordò anche che già allora, in Castalia tutti sapevano che tra lei e il presidente c’era del tenero, tanto che Olga non gli era sembrata molto entusiasta della decisione del marito e dell’amministratore delegato, dottor Augusto Salmini, di affidarle quella filiale.

    2

    Gavino de Castelvì dalla Sardegna e Roberto Caputi dalla Sicilia erano arrivati a Verbania nella seconda metà degli anni cinquanta, all’inizio, cioè, di quello che fu poi chiamato il miracolo economico, e avevano preso entrambi alloggio al Sant’Anna, un albergo di terza categoria, sito nell’omonimo quartiere di Pallanza.

    Laureati ambedue in chimica e tecnologie farmaceutiche, aspetto gradevole, aitante, fisico d’atleta, ambizioso, nonché donnaiolo impenitente, il sardo; aspetto malaticcio, magro e allampanato, prematuramente calvo, occhialetti da miope su un volto dai lineamenti minuti, tanto che veniva spontaneo immaginarlo dietro il bancone di una farmacia, il siciliano.

    Diversamente da Gavino, Roberto era un tipo tranquillo, schivo, non amante del rischio e dell’avventura e diventare proprietario di una farmacia era il suo grande sogno, mettere su famiglia e vivere una vita serena, in un suo piccolo mondo.

    Sin dal momento in cui si erano conosciuti al bar dell’albergo avevano, forse proprio a causa della diversità dei loro caratteri, subito simpatizzato ed erano diventati, in poco tempo, amici inseparabili; ‘culo e camicia’, come si suole dire.

    Nell’attesa di trovare un lavoro, trascorrevano gran parte del loro tempo al bar conversando o bevendo caffè o birra.

    Gavino, in attesa di essere convocato dalla Polypharma, un’industria farmaceutica locale, gli parlava continuamente di un suo progetto, da sempre in cima ai suoi pensieri: sfruttare brevetti e appunti che il suo professore, Virgilio Marongiu (chimico di chiara fama e del quale era stato allievo all’Università di Sassari e collaboratore nel suo laboratorio), gli aveva lasciato in eredità. Roberto, lo ascoltava con molto interesse, tanto che Gavino gli permise di consultare il voluminoso dossier del Marongiu che chiamava scherzosamente il ricettario.

    3

    Il 20 maggio 1946, Gavino de Castelvì, di ritorno dalla prigionia scese alla stazione di Nuoro con il treno di mezzogiorno e non avendo trovato nessuno ad attenderlo perché, evidentemente, era arrivato prima del telegramma, s’incamminò verso il centro della città. Giunto a metà circa di Corso Garibaldi, provò un tuffo al cuore: la sua casa, un pretenzioso palazzotto a due piani, era lì, davanti a lui, tale quale l’aveva lasciata. Battuto per due volte il pesante anello che fungeva da battaglio, il portone gli fu aperto, ma come fece per entrare, una ragazzetta, con una zazzera di capelli nerissimi e un visetto impertinente su cui brillavano due occhi furbi, lo fermò sulla porta chiedendogli decisa che cosa volesse e chi cercasse.

    «Sono lo zio Gavino, non mi riconosci? Lasciami entrare, Lucietta?», la pregò, accattivante.

    La bambina, però, diffidente, continuò a trattenerlo sull’uscio, mentre urlava verso l’interno che un forestiero voleva il nonno. Don Emanuele, affacciatosi in fondo al corridoio e riconosciuto nel visitatore il proprio figlio, aveva ingiunto alla nipotina di lasciarlo entrare, poiché era veramente lo zio Gavino. E corsogli incontro, lo aveva abbracciato e salutato con un: «Ben tornato a casa, figlio mio» e, mentre lo trascinava verso il soggiorno, aveva gridato alla nipotina:

    «Lucietta, chiama tuo padre e tua madre e tutti di casa, e dì loro che lo zio Gavino è tornato».

    Accorsero tutti, Bachisio, sua moglie Maria Bonaria e le persone di servizio, mancava solo donna Salvatoricca. Gavino guardò perplesso il padre.

    «Sì, figlio mio», disse don Emanuele, la voce arrochita dal fumo dell’eterno toscano. «Ritenni opportuno non informarti dell’avvenuto decesso di tua madre per non aggiungere dolore alla penosa situazione in cui eri costretto. Ti sia di conforto sapere, però, che è stata assistita con amore e che ha ricevuto tutte le cure mediche appropriate».

    Le assicurazioni di don Emanuele che la mamma era stata debitamente curata e amorevolmente assistita non lo avevano molto soddisfatto, perché, ben conoscendo il padre, fu assalito dal dubbio che quanto egli affermava non rispecchiasse tutta la verità.

    «Nessun medico, purtroppo, e nessun farmaco», aveva continuato il vecchio patriarca, «poté contrastare il decorso della malattia. Solo la pietà di Nostro Signore, mise fine alle sue sofferenze. E tua madre è morta serena, pronunciando da ultimo il tuo nome».

    Don Emanuele de Castelvì, uomo molto legato alle tradizioni isolane, vestiva ancora, nei giorni di festa, il costume con orgoglio, sia come segno di distinzione e sia come protesta nei confronti del nuovo assetto politico che, a suo avviso, aveva avuto l’ardire di mutare lo statu quo ante, riconoscendo ai suoi servi pastori gli stessi suoi diritti, una vera bestemmia per lui, come lo era stata la recente decisione di concedere anche alle donne il diritto di voto attivo e passivo.

    Gavino, presa confidenza con la nuova situazione, così diversa da quella che aveva lasciato partendo per la guerra, seguiva con scarso interesse i dibattiti tra i vari partiti, sorti sulle ceneri del fascismo, circa i cambiamenti che ciascuna parte auspicava fondamentali perché si arrivasse ad una vera democrazia, dopo che, a seguito del referendum da poco conclusosi, l’Italia era diventata una repubblica.

    La lotta tra i partiti cosiddetti di sinistra e i partiti cosiddetti di destra, in pratica ristretta al dilemma comunista o democristiano, era l’argomento che teneva banco nelle discussioni che si accendevano per le strade, nelle bettole e nei bar, anche se la preoccupazione del cittadino medio era la forte penuria di generi alimentari e l’affermarsi di una borsa nera che prosperava in tutto il paese.

    In quel torno di tempo, in particolare a Nuoro, ciò che teneva banco era, però, la fiera polemica tra il Partito Sardo d’Azione, che forte del risorto orgoglio barbaricino di cui don Emanuele era accanito sostenitore propugnava una patria sarda, e i partiti nazionali che vi si opponevano a difesa dell’unità nazionale.

    Gavino era poco interessato a quella controversia regionalistica, avendo già ben ferma la decisione di vivere l’avventura della sua vita futura, lontano dalla sua città natale in cui ogni novità era guardata con sospetto.

    Gavino somigliava fisicamente e caratterialmente al padre e, forse, per questa peculiarità, sin da quando portava i calzoni corti, aveva mal sopportato e contestato l’autorità paterna.

    Con lui, scarsa efficacia ebbero misure e provvedimenti, anche drastici, a volte violenti, cui ricorreva don Emanuele affinché anche il piccolo di casa crescesse ubbidiente e rispettoso della sua volontà. Ciò nonostante la contestazione del ragazzo nei suoi confronti, mano a mano che cresceva, si fece sempre più accesa e sempre più frequenti e violenti tra loro gli scontri, tanto che donna Toricca, doveva intervenire per placare gli animi e conciliare gli opposti punti di vista, con il risultato di essere rimproverata aspramente dal marito per la sua eccessiva indulgenza nei confronti del figlio.

    4

    Gavino aveva trovato una Nuoro molto diversa da quella che aveva lasciato e difficile, perciò, gli riusciva inserirsi nello sfrangiato tessuto sociale della sua città, anche a causa della larga frangia di nuoresi che si augurava una forte autonomia dell’isola, se non l’indipendenza .

    Gli era, perciò, faticoso condividere opinioni e convinzioni, che, in qualche modo, una volta erano state anche sue, e il dissociarsene o addirittura avversarle, era causa di forti tensioni e contrasti con parenti e amici, ma soprattutto all’interno della sua famiglia, in particolare con don Emanuele.

    Oltre che della morte della madre, Gavino aveva appreso con rincrescimento che, pochi giorni prima del suo arrivo, era scomparso anche il professor Virgilio Marongiu.

    Quale non fu il suo stupore, quando il notaio Corda lo informò che il professore lo aveva nominato erede delle attrezzature del suo laboratorio, dei suoi brevetti e degli appunti relativi alle ricerche da lui condotte in campo cosmetico e medicinale.

    Quel lascito, purtroppo, riaccese, tra padre e figlio, il vecchio contrasto che s’era instaurato al momento della sua iscrizione all’università. Su suggerimento, infatti, del suo professore di chimica al liceo classico Asproni di Nuoro, aveva scelto di iscriversi a chimica e tecnologie farmaceutiche, anziché, a giurisprudenza com’era espresso desiderio di don Emanuele che non faceva distinzione tra desiderio e volontà. La sua scelta, quindi, non era andata giù all’anziano patriarca, poiché la sua azienda avrebbe avuto bisogno più di un avvocato o, in subordine di un commercialista, che di un chimico farmacista. Ad ogni modo non avendola spuntata con il figlio, in cui si riconosceva orgogliosamente, e per carattere e per determinazione, una volta laureato, pretese da Gavino che prendesse ugualmente il suo posto in azienda, come dirigente del settore lattiero caseario, perché, gli disse: «Anche con questa laurea puoi tornare utile all’azienda».

    «Babbo», era stata, però, la sua risposta, pronta e decisa, «mettiti bene in mente che il mio mestiere sarà quello del chimico e, se la fortuna mi assisterà, dell’industriale chimico, ma mai quello che tu vorresti. E siccome non è la Sardegna il posto in cui potrò veder realizzato il mio progetto, è mia intenzione di trasferirmi in continente e trovare un lavoro adeguato e, se la fortuna mi assisterà, sfruttare i brevetti e le ricerche del professor Marongiu».

    Gavino, frattanto, sistemato, nonostante l’avversione di don Emanuele, nel seminterrato di casa de Castelvì le varie attrezzature di laboratorio ereditate, non si recò mai a Prato Sardo per prendere contatto con il direttore del caseificio e iniziare a lavorare per l’azienda, nonostante ricorrenti burrascosi confronti tra padre e figlio in cui Gavino gli disse chiaro e tondo che non contasse su di lui per il suo caseificio, perché erano altri i suoi progetti e che non aveva nessuna intenzione di rinunciarvi.

    Vista la determinazione e la pervicacia del figlio, nel tentativo d’invogliarlo a fargli cambiare idea, gli propose l’acquisto di una piccola azienda nuorese di unguenti e prodotti parafarmaceutici di cui il proprietario suo amico, dopo la morte della moglie e del suo unico figlio, periti in un incidente d’auto, gliene aveva proposto l’acquisto. Gavino, però, lo deluse ribadendo, ancora una volta, che nei suoi piani non c’era né Nuoro, né la Sardegna. Don Emanuele non demorse e continuò la sua offensiva verbale, sperando di convincerlo che anche nell’isola e a Nuoro in particolare poteva realizzarsi e realizzare il suo progetto.

    «Dai un calcio ai tuoi sogni e realizzati qui», concludeva le sue ricorrenti filippiche. «Prendi con me, finalmente, l’unica saggia decisione che, come padre ti prospetto. Compriamo la Sarda Unguenti & Pomate e sii tu il padrone della tua azienda. Se, invece, preferisci essere, per tutta la tua vita, un sognatore, fa pure e farai la fine di quel vecchio barbogio del tuo professor Marongiu, che ebbe sempre difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena».

    Don Emanuele deluso e dispiaciuto, ma anche orgoglioso per la risolutezza di quel suo figlio, finì per lamentarsene con vari amici. Quasi tutti, gli risposero che non doveva contrastarne gli ambiziosi progetti e, messasi, infine, l’anima in pace, una sera dopo cena fece a Gavino, prendendolo di sorpresa, il seguente discorso:

    «Come sai, un nostro antico proverbio recita: ‘pista s’aba in su pistone, aba est et aba s’istat’, e, pertanto, non mi opporrò alla tua risoluzione di lasciare la Sardegna e di tentare la fortuna in ‘continente’. Proprio ieri parlavo di te e delle tue intenzioni di cercar fortuna in Italia con il mio amico Antonio Cadeddu che prima della guerra dirigeva al nord un importante complesso chimico farmaceutico e sarebbe propenso a darti una mano, sempre che tu lo voglia».

    Gavino accettò di avvalersi dell’aiuto del dottor Cadeddu, e qualche settimana dopo, provvisto di una sua lettera di presentazione per l’amministratore della Polypharma di Pallanza, dottor Augusto Salmini, lautamente rifornito dal genitore di denaro (poiché don Emanuele riteneva che, come l’abito fa il monaco, così un ben fornito portafoglio, fa l’uomo rispettabile e rispettato), posti in una grossa valigia i suoi effetti personali e gli appunti del professor Marongiu, una mattina, che l’alba non aveva ancora schiarito il cielo dietro l’Ortobene, senza salutar parenti e amici, prese l’autobus per Olbia. Sarebbe stato compito, poi, della cognata Maria Bonaria spedirgli il baule, contenente tutte le sue cose, dagli abiti, alle camicie, ai calzini e il grosso degli appunti del suo professore.

    La traversata fino a Civitavecchia, su una sorta di carretta del mare e il successivo lungo viaggio in treno fino a Milano fu un’odissea: lunghe soste, trasbordi e coincidenze che non coincidevano mai. Dopo Milano, tuttavia, il viaggio si fece meno avventuroso. Ad ogni stazione il vagone si svuotava, riempiendosi, però, di nuovo, di studenti, impiegati, operai e altri viaggiatori, più donne che uomini, le prime con grossi involti il cui contenuto non fu difficile a Gavino indovinare, dati gli inconfondibili effluvi di cui l’intero vagone era pervaso.

    Dopo Sesto Calende, la fertile terra lombarda, con le sue cascine, le sue città, i suoi borghi e i suoi insediamenti industriali, lasciò il posto all’incanto di un diverso paesaggio, fatto di montagne degradanti sulle rive del Lago Maggiore lungo le quali si susseguivano villaggi e cittadine, i cui nomi, gridati dal controllore a ogni stazione, non gli erano sconosciuti, finché la sua stentorea voce annunciò: «Verbania, stazione di Verbania!»

    Gavino scese dal treno e, cedendo ai morsi della fame, prima di prendere un tassì che lo portasse in città, entrò nel bar della stazione e ordinò un cappuccino. Aveva appena addentato un cornetto, quando fu avvicinato da un omino, volto emaciato, male in arnese, un po’ avanti negli anni, che, scambiatolo, forse, a causa dell’abito di buon taglio e della valigia in pelle, per un uomo d’affari o per un turista danaroso, gli chiese a bruciapelo se offrirgli un cappuccino lo avrebbe disturbato. Gavino, sorpreso da quella ingenua richiesta, guardò l’omino con curiosità e stava per rispondergli, quando fu ripreso bruscamente dal banconista.

    «Gepin, quante volte ho da dirti di non importunare i clienti. Lo scusi signore», aggiunse il barista. «cerca soltanto di ottenere qualcosa da metter sotto i denti».

    «Capisco», convenne Gavino. «Gli serva pure un cappuccino e un cornetto».

    L’omino si profuse in ringraziamenti a non finire. Consumato il suo cornetto e bevuto il suo cappuccino, Gavino si apprestò a lasciare il bar, ma Gepin, afferrata la valigia, lo precedette sul piazzale e chiamò con un fischio un tassì. Quando porse all’omino una moneta per l’aiuto ricevuto, l’arzillo vecchietto rifiutò e, profondendosi in scuse, gli chiese, con la stessa naturalezza con cui gli aveva chiesto il cappuccino, che, invece della mancia, avrebbe gradito, se non chiedeva troppo, un passaggio fino a Pallanza. Gavino, più incuriosito che infastidito, acconsentì e il tassista intervenne prontamente.

    «E così, anche oggi, Gepin hai trovato chi ti dà un passaggio per Pallanza».

    Il tassista chiese a Gavino presso quale albergo fosse diretto.

    «Ma... Non saprei... Ho alcuni nomi, Bellavista, Sempione, Majestic»

    Gepin sorrise divertito e, prima che l’autista aprisse bocca:

    «Chiedo scusa, signore, ma chi le ha fornito quelle indicazioni deve mancare da Pallanza da un bel po’ di tempo, perché c’è stata una guerra e, anche qui, molte cose sono cambiate: il Bellavista è diventato il Bellevue, altri come il Sempione sono chiusi. Il Majestic ha mantenuto sì il suo nome e la sua classe, ma anche i prezzi. Se posso permettermi, dato che è stato così gentile con me, le suggerirei l’albergo Sant’Anna. È un ottimo hotel e, pur se a conduzione familiare, non ha nulla da invidiare ai migliori alberghi di Pallanza».

    «Va bene», disse Gavino sorridendo al tassista «mi porti pure al Sant’Anna».

    Il taxi li lasciò davanti all’ingresso dell’albergo. Entrati nella hall, Gepin puntò decisamente verso il bancone del bar e, salutando confidenzialmente il barista, ordinò un bianchino, ma il barman non si scompose.

    «Non ti preoccupare Rico, offre il signore».

    Gavino fece cenno al barista di servire all’omino il bianchino.

    «Mi faccia compagnia signore» azzardò con l’aria più innocente del mondo Gepin. «Un bianchino fa sempre bene, specie se preso di prima mattina... Rico, un bianchino anche per il signore».

    «Grazie, signor Gepin, sarà per un’altra volta», replicò Gavino.

    Solo più tardi venne a sapere che il bianchino (vino bianco e una generosa spruzzata di grappa) era una sorta di cocktail social popolare molto in voga in quel periodo e che Enrico il barista, tipo alto e segaligno, sui cinquanta, viso lungo, occhi grandi e chiari, Rico per tutti, non rifiutava mai un invito fattogli da un cliente, tanto che, spesso, verso mezzodì, il suo eloquio diventava meno spedito e le sue pupille si muovevano in una sorta di liquido gelatinoso che gli conferiva un’aria imbambolata e assente.

    Gavino, infine, salutato e ringraziato dal Gepin, accompagnato dal Rico, si portò alla reception, dove fu accolto da una giovane portiera che, assegnatagli la camera, lo affidò a un boy che, presa su la valigia, lo precedette verso l’ascensore.

    5

    Il giorno dopo, Gavino, recatosi alla Polypharma, chiese di parlare con il dottor Augusto Salmini.

    «Chi devo annunciare?» gli chiese la segretaria.

    «Il dottor Gavino de Castelvì. Ho una lettera per il dottor Salmini da parte del dottor Francesco Cadeddu».

    «Oh, il nostro precedente direttore. Come sta?»

    «Bene, signora».

    La donna parlò per alcuni secondi al telefono, poi invitò Gavino ad accomodarsi. Lo studio del direttore generale era una vasta stanza piuttosto disadorna. Solo qualche quadro alle pareti e una grande scrivania dal piano lucidissimo e

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