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Rerimn, alle radici del tempo
Rerimn, alle radici del tempo
Rerimn, alle radici del tempo
E-book185 pagine2 ore

Rerimn, alle radici del tempo

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Info su questo ebook

Manipolazioni mentali, condizionamenti, parassiti creano tare che si inseriscono nel codice genetico e rimangono a gravare invisibili, come zavorre sotterranee.

Le conseguenze sono devastanti, nel macrocosmo del sistema e nel microcosmo dell’individuale. Distruzione nell’uno, umani ridotti a burattini nell’altro e paura, che produce nuova distruzione e ulteriore disumanizzazione.

Un evento epocale per i rerimn, razza umana primordiale, fa da sfondo alla corsa per la sopravvivenza prima e per la libertà poi, di T e Thæris. Una corsa con tappa obbligatoria nella conoscenza di sé.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ago 2018
ISBN9788827842744
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    Anteprima del libro

    Rerimn, alle radici del tempo - Silvia Cammarata

    terra

    PROLOGO

    È stato tutto così veloce… un giorno la consapevolezza cosmica ci disse che il governo dei lontani aveva dichiarato noi rerimn pericolosi per la sicurezza universale e alcuni giorni dopo, i lontani atterrarono in forze su Renah, ci dichiararono colonia in corso di bonifica e iniziarono a sterminarci con tecnologie di distruzione primitive, contro le quali tuttavia non sapemmo opporre valida difesa.

    Da quando l’oscura stirpe di coloro che si facevano chiamare rinati aveva preso a comandare i lontani, avevamo avuto consapevolezza di un notevole aumento della pericolosità intrinseca alla belligerante razza. Ma il nostro mondo era così distante dal loro che nessuno di noi aveva mai considerato la possibilità di un problematico futuro in comune, non faceva parte della nostra natura intrattenerci nella creazione di buie linee di realtà.

    Nel momento in cui la nostra eternità si incrinò, ci domandammo come poter essere considerati pericolosi, noi che conoscevamo solo la creazione armonica, proprio da coloro che vivevano per la distruzione.

    Iniziammo a venire separati gli uni dagli altri e privati della libertà, rinchiusi, feriti nel corpo e nello spirito, uccisi.

    Inconcepibile: immortali, nati con la creazione stessa, venivamo uccisi. Non fu nei primi giorni di occupazione, quando il nostro immenso potere energetico, anche se per nulla allenato all’offesa, ci diede modo di scampare ai loro assalti, ma nei giorni seguenti, quando paura e disperazione fecero cadere la nostra connessione con la fonte, la coscienza cosmica. Per i lontani, catturarci o ucciderci diventò allora un gioco.

    Senza il folle isterismo di massa che occupò le nostre menti, rendendoci difficile perfino comunicare tra noi, avremmo potuto spiegarci almeno in parte le motivazioni dei lontani o per meglio dire, dei rinati che ne muovevano i fili. Se fossimo stati tra fiori di moq a goderci la luce di Tiaz, saremmo stati in grado di comprendere come i numerosi viaggi intrapresi qua e là nella linea del tempo da alcuni di noi, occasioni d’uso di poteri rerimn dinanzi a occhi alieni, avevano sparso i semi dei frutti che ora ci cadevano addosso.

    Insomma, quanto all’inizio potemmo eliminare un numero considerevole di lontani, fulminandoli, scomponendoli, facendoli scomparire ovvero in realtà trasferendoli chissà dove, tanto essi si incrudirono nel reprimerci con efferata spietatezza appena i nostri poteri si affievolirono. La tragedia della nostra disfatta fu completa quando perdemmo quasi del tutto la capacità di plasmare a nostro piacimento la materia.

    Alcuni di noi riuscirono a tenere accesa una piccola fiamma di potere e a scampare ripetutamente alle catture di massa. Non avevamo però nessuna idea di come poterla usare nella pratica, l’ordire bellico non riusciva a entrare nelle nostre menti e dunque anche la nostra fine si avvicinava inesorabile.

    Riuscivamo ancora a percepire gli altri noi stessi quando ci abbandonavano tra atroci sofferenze e nel terrore della sconosciuta morte.

    Avemmo consapevolezza che alcuni scampati si erano rifugiati nelle sacre grotte di Noranka, a nord-ovest di Nutrice, il nostro insediamento su Renah. La capacità di sentirci tra noi diminuiva sempre più e decidemmo di unirci ai fuggitivi. La tortura della solitudine, di perdere la connessione con gli altri, era qualcosa che ci spaventava quanto avere a che fare con la mostruosità dei lontani.

    Non arrivammo mai a Noranka. Non so come fu che non avemmo sentore dell’imboscata che ci fu fatale. Quel giorno, il quarto o quinto giorno di occupazione, fu un giorno di puro terrore.

    Quando ci catturarono, ascoltai i pensieri emessi dalle menti dei soldati. Forza d’abitudine, innata volontà di comprendere cementata dall’alba dei tempi, qualcosa che nemmeno il panico poteva fermare o cambiare. Vi trovai il solito caos, bestiale, ottundente, disumano. Colsi anche l’ordine di non ucciderci.

    La mia lettura costò l’inebetimento di alcuni di loro e la colpa è da imputare di sicuro a un qualche difetto dei lontani perché l’ascoltare di per sé non può certo nuocere. Seguì un pestaggio che mi fece perdere i sensi.

    Mi svegliai in una sfera metallica, del diametro poco più corto della mia altezza, in assenza di gravità e di qualsiasi altro stimolo. Al posto della mia veste in lamine d’oro, mi ritrovai addosso una ruvida e misera tela scura dalla forma di anonimo corpo. L’interno della sfera era illuminato da una luce fredda e senz’anima, tutto l’opposto della luce di Tiaz.

    Paura, angoscia, senso di soffocamento, senso di perdizione assoluta.

    Per la prima volta nell’eternità della mia vita, pensai a me al singolare.

    Persi la nozione di ogni cosa, tempo, realtà, identità, al punto di arrivare a dubitare del mio vissuto prima di quella reclusione.

    Impazzii, credo.

    Non ricordo molto di quando mi tirarono fuori dalla sfera: luce accecante, percosse alla testa, schiena, addome e una cacofonia di suoni gutturali, le voci ispide e sgraziate dei lontani che mi gravitavano intorno.

    So che mi trascinarono in un luogo ancora più illuminato. Non avevo autonomia del più piccolo movimento né riuscivo a pensare e quello che i lontani facevano al mio corpo sembrava avvenire, essere già avvenuto e dover avvenire ancora.

    Furono giorni o un giorno, non so.

    Il discorrere dei lontani era per me solo rumore che appesantiva la tortura, ma a volte, quando le luci si spegnevano e si faceva silenzio per un po’, frasi echeggiavano nella mia mente e capitava che ne comprendessi il senso.

    Capii che presto qualcosa sarebbe cambiato mettendo non possiamo perdere altre navi o rischiare l’incolumità dei superiori a sutenmorg insieme con proviamo a testare questa mostruosità con l’elemento tudor.

    Sutenmorg era di sicuro un luogo ma che cosa fosse l’elemento tudor rimaneva un mistero.

    La logica mi suggeriva di non farmi illusioni eppure bramavo la novità, attendevo impaziente di poter lasciare l’angusto luogo di sofferenza al quale ero inchiodato, gelido, maleodorante, senza tempo.

    È orrenda, insopportabile la dimensione, il peso che può assumere il tempo quando si diluisce a dismisura. Tale che provavo sollievo quando i due soldati che erano ormai la mia seconda ombra dovevano prelevarmi dal piano metallico e percuotermi, per dar modo ai loro superiori di assicurarsi che non avessi ricaricato i miei poteri. Quella violenza diveniva una boccata d’ossigeno nell’alienazione senza fine.

    Ma ancora non avrei potuto dire di aver conosciuto a fondo paura e violenza. Poi conobbi l’elemento tudor.

    I

    Le gambe non mi sostengono, tremano, le ginocchia si piegano, ma devo resistere se voglio evitare un’altra batosta, i lontani vogliono che rimanga in piedi.

    Non so che differenza possa fare se sto in piedi o in ginocchio.

    È solo l’ennesima cosa che non capisco.

    Mi hanno fatto indossare un cavo con cinque estremità a cappio. La lunghezza collo-caviglie è un po’ più corta della mia altezza, tutti i miei movimenti sono snaturati e devo tenere la schiena curva. Mi fa male, mi faceva già male prima.

    Le due guardie, una per lato, sono a meno di una spanna da me. Due altri lontani, alti e magri, quelli che comandano i soldati, tra noi e la porta. Aspettiamo.

    I due superiori parlottano tra loro. Grandi sorrisi ma stanno sudando. Anche se non devo guardare, non vogliono che guardi in faccia nessuno, sento il loro battito cardiaco accelerato, l’aumento della temperatura corporea e gli effluvi di carne marcia che emanano si son fatti più pungenti.

    ‘Perché hanno paura?’

    Smettono di parlare, rimangono immobili. Percepisco delle vibrazioni sonore attutite, la fonte è all’interno della loro testa. Sono di nuovo in movimento, si lisciano il camice, si schiariscono la voce, riprendono a parlare.

    Ho già visto molte volte questa dinamica da quando sono qui, hanno ricevuto un messaggio dal comunicatore che hanno impiantato nell’orecchio e che chiamano nastro.

    Sono contento di andarmene, non ho la minima possibilità di fuga rimanendo qui, ma inizio a provare una certa nausea.

    La porta si spalanca in maniera brutale. Il fracasso deforma il ronzìo dei macchinari e della vibrazione che questo produce sulle pareti metalliche dello stanzone.

    Il nuovo arrivato è ancora più alto dei due lontani alti, la sommità della sua testa sfiora la parte superiore dell’entrata. Si ferma qualche passo oltre la soglia, passa in rassegna ogni cosa.

    Distolgo subito lo sguardo, con la coda dell’occhio tengo i tre appena entro il mio campo visivo.

    Mi osserva.

    -Benvenuto all’avamposto…- si avvicinano al lontano di un passo.

    -Tanto benvenuto non direi, ho dovuto interrompere una meritata vacanza per esser qui.-

    Mi sembra che abbia portato le mani ai fianchi, di sicuro continua a fissarmi, mi sento trafiggere.

    -Quella sarebbe l’urgenza?- mi indica con un cenno della testa.

    Il lontano con la peluria in testa più chiara, accesa del sudore che luccica tra i radi peli, muove un altro passo verso di lui.

    -Finora non ci ha dato problemi, ma avete ricevuto il rapporto con lo storico dei soggetti dell’ultima cattura, credo.-

    -Sì, sì, ho tutto.-

    -Allora comprenderete il perché della chiamata, è di vitale importanza che almeno quest’ultimo orrore arrivi a destinazione- farfuglia, il fiato corto.

    L’altro lontano strofina i palmi delle mani sul camice.

    ‘Hanno paura di lui, perché?... È questo l’elemento tudor?’

    -E ci arriverà, potete dormire sonni tranquilli- ride –Facciamo presto che voglio andarmene il prima possibile, documenti?-

    -Questa è una copia per voi- il sudato allunga qualcosa con un piegamento della testa –giusto per rendervi conto di quello che riesce a fare… cioè, che riusciva a fare fino a che non l’abbiamo avuto in custodia noi- un verso d’orgoglio, qualcosa tra una risata e un colpo di tosse.

    -Uhm…- il lontano rimugina, assorto nella lettura –Non si direbbe, eh?- borbotta -Ma avevo già studiato i rapporti degli ultimi giorni, sono edotto sul pericolo.-

    Do un colpo d’occhio di lato, i soldati non muovono un muscolo, sembrano due statue. Torno a guardare il gruppetto dei tre, dalle gambe in giù.

    -Bene. Il comando?-

    -Eccolo- il lontano rimasto finora in silenzio gli consegna qualcosa.

    Scoppio. Un urlo. L’urlo è il mio.

    Sbatto a terra con violenza.

    Il cuore brucia e batte all’impazzata, ogni mia cellula brucia. Sono senza fiato. Brusìo alle orecchie. Tremore convulso, non so muovermi.

    La testa è girata verso i tre lontani, la mandibola abbandonata sul pavimento, bava mi cola dalla bocca.

    -Funziona alla perfezione. Non è un po’ altino?-

    -Dall’esperienza maturata sulle altre cavie, abbiamo imparato a nostre spese che è controproducente limitarsi a uno stordimento medio, tendono a incattivirsi appena ripresi, con le conseguenze che sappiamo.-

    -Hmm…-

    Vengono verso di me. Il lontano alto mi solleva un braccio, lo lascia andare. Il braccio cade a peso morto.

    -Si, ma non ho intenzione di portarmelo in giro a spalle. Se non vi spiace lo abbasso.-

    -Certo, avete massima libertà di agire come meglio credete. L’importante è che…-

    -Sì, sì, ho capito, lo so, continuate tutti a ripetermelo- sbuffa –Quando mai ho mancato al mio dovere?-

    -No, no, non intendevo dire questo- porta le mani avanti. L’altro si passa una mano sulla tempia.

    Il lontano dà le spalle ai due, fa un cenno ai soldati e si avvia verso la porta.

    Mi sento sollevare per le braccia. Mi trascinano. Lasciamo la stanza.

    Un corridoio buio. Fresco. Ho addosso un velo di sudore, lo sbalzo di temperatura mi fa rabbrividire.

    Mi lascio trasportare senza provare a muovere le gambe per cercare di rialzarmi, così non corro il rischio di fare qualcosa di sbagliato.

    Una curva ad angolo verso destra. Il corridoio continua. Buio, tranne che per linee di luce lungo il pavimento in corrispondenza di porte chiuse.

    I passi dei tre, lo strusciare delle mie gambe a terra.

    Della luce gialla avanti.

    Freddo.

    Ci avviciniamo a una grande porta aperta. Vociare oltre. Il corpo del lontano copre la visuale.

    Il vociare si zittisce.

    Dall’odore dell’aria capisco che la porta dà all’esterno. Respiro a pieni

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