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Estancia Francesca
Estancia Francesca
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E-book644 pagine9 ore

Estancia Francesca

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Estancia Francesca è un romanzo, ma non un triller.

E' ambientato nella seconda metà dell'Ottocento, tra Italia ed Argentina, e narra di emigrazione nei primi decenni successivi la rivoluzione industriale.

L'industrializzazione di vastissimi distretti, il raggruppamento di numerosissime comunità di consumatori di derrate alimentari, a scapito dell'inurbamento delle popolazioni agricole produttrici, rese necessario inventarsi l'agricoltura intensiva, che però sarebbe stata impossibile senza adeguata fertilizzazione, da effettuarsi con qualcosa che qui da noi, in Europa, e negli Stati Uniti, non c'era.

Quel qualcosa fu il guano, ossia l'ammasso delle deiezioni che miliardi di uccelli marini, nell'arco forse di migliaia di anni, avevano depositato lungo le coste del Perù.

A tale scopo venne inventato una nuovo tipo di veliero, che per via del rivoluzionario armamento velico venne chiamato brigantino a palo.

Il brigantino a palo era robusto, facile da manovrare da parte di equipaggi ridottissimi, non più di venti persone in tutto, ed aveva una buona portata.

Gli Inglesi, popolo marinaio, lo premiarono con la definizione di the best barque, il miglior brigantino; i Genovesi, traducendo per assonanza, lo chiamarono barco bestia.

E poi l'Argentina. Un'Argentina di cui nessuno sa praticamente nulla qui da noi, ma neppure, ormai, in Argentina stessa.

Un paese in cui, fino al 1880 circa, nonostante una superficie dichiarata pari a nove volte quella italiana, la comunità bianca raramente usciva dai suoi confini, che racchiudevano un'area non più grande del Piemonte attuale, perché fuori c'erano i Mapuches, i Pehuelches, i Tehuelches, ossia gli indios bravos, gli indiani selvaggi, che non si limitavano a difendere i loro territori ma, spesso e volentieri, venivano ad effettuare razzie, persino nella periferia di Buenos Aires.

Posso garantire che, se Hollywood fosse stata in Argentina, i manifesti dei films titolerebbero di Juan Calfucurà, Epicel, Julio Argentino Rocas e via dicendo.

E poi il problema delle tierras vacias, le terre vuote, che avrebbero potuto fare ricca la nazione, però dovevano venire coltivate, e per coltivarle ci voleva gente, e di gente non ce n'era, bisognava pregare che gli emigranti europei decidessero di venire lì, e magari convincerli a farlo.

Insomma, questo è un romanzo che non pretende di essere avvincente come i migliori trillers, però narra di una storia interessante.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2016
ISBN9788892587618
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    Anteprima del libro

    Estancia Francesca - Stefano Musso

    EPILOGO

    PREFAZIONE DELL'AUTORE

    PREFAZIONE DELL' AUTORE

    Estancia Francesca è un romanzo, nel senso che tanto la storia narrata, quanto i personaggi che la anima-no, sono immaginari.

    Scrupolosamente realistica è invece la sua ambientazione, e ciò vale per tutto quanto concerne le citazioni riguardanti la Riviera Ligure di Ponente, l'Argentina, nonché la situazione socio economica mondiale dell' e-poca.

    Durante gli anni in cui la storia è ambientata, dall'Europa gli emigranti partivano a milioni.

    Dall'affamata terra di Liguria lo facevano a migliaia, usufruendo essenzialmente dei brigantini a palo, le navi di recente concezione, le quali avevano reso possibile l'attuazione della Rivoluzione Industriale, nata in Gran Bretagna verso la fine del settecento.

    Quei velieri partivano da Imperia, da Savona, da La Spezia, ma soprattutto da Genova, offrendo servizi di qualità certamente inferiore, ma a prezzi assai più competitivi, rispetto ai normali postali.

    La stragrande maggioranza degli emigranti liguri era diretta verso le grandi nazioni del Sud America, prin-cipalmente verso l'Argentina, ma anche l'Uruguay, il Brasile, il Cile.

    Ciò era dovuto al fatto che i mercanti genovesi, e più generalmente liguri, erano stati i primi, già durante il sedicesimo, ed il diciassettesimo secolo, a fondare stazioni commerciali lungo quelle coste, aventi lo scopo, dapprima, di rifornire le navi di passaggio di generi alimentari ed attrezzature navali, e più tardi di instaurare, con i nativi, veri e propri rapporti economici, basati sul baratto.

    Insomma, l'Argentina soprattutto attirava l'immigrazione ligure composta, per la maggioranza, da contadi-ni, ma anche da pescatori, da marinai, da artigiani, per via del fatto che anche chi in quella terra non aveva parenti, più o meno lontani, ad attenderlo, sapeva di potervi trovare persone che avrebbero parlato il suo stes-so dialetto, con le quali sarebbe stato più facile integrarsi.

    Come già detto, la traversata transoceanica veniva effettuata per lo più sui brigantini a palo, i rivoluzionari velieri i quali, grazie ad una buona capacità di carico, ad una robustezza a tutta prova, nonché alla relativa fa-cilità di manovra, che ne consentiva la conduzione anche con equipaggi assai ridotti, rifornivano le zone maggiormente industrializzate d' Europa, e degli Stati Uniti d'America, dei prodotti, e dei minerali, di cui il Sud del mondo era ricco.

    Ma in primo luogo essi trasportavano il guano, in quanto proprio per quel tipo di carico erano stati conce-piti.

    Una canzone di Fabrizio De André recita che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

    Ciò che accadde in quei decenni, ne è la dimostrazione più inconfutabile.

    Il guano fu infatti il primo fertilizzante naturale, ricco soprattutto di azoto, ma anche di fosforo, di potassio e di tutti gli altri microelementi indispensabili all'agricoltura, che fu possibile reperire, in quantità pratica-mente illimitate, oltre che a prezzi stracciati.

    I giacimenti di guano, praticamente letame di uccelli marini, che per millenni, in milioni, avevano deposto in prossimità delle coste, prospicienti ad uno dei tratti di mare più pescosi del mondo, si trovavano lungo le coste del Perù.

    Grazie al guano, trasportato in enormi quantità, ben inteso enormi per l'epoca, fu possibile l'introduzione dell'agricoltura intensiva, prerogativa indispensabile per riuscire a nutrire tutti quei milioni di persone la cui urbanizzazione, e la cui fatica, diedero vita, per l'appunto, alla Rivoluzione Industriale.

    Il Sud America dell'Ottocento, le nazioni componenti il quale avevano da pochi lustri ottenuto l'indipen-denza dalle nazioni europee di cui erano state colonie, soprattutto della Spagna, ma anche del Portogallo, era squassato da continue guerre, che potremmo definire di assestamento, le quali venivano scatenate, e combat-tute, assai duramente, per questioni di confini, di diritti di pesca e quant'altro.

    Una delle più sanguinose, e più lunghe, tra queste guerre, fu quella che vide contrapposta l'alleanza, for-mata da Brasile, Argentina ed Uruguay, al Paraguay.

    Proprio durante lo svolgimento di questo conflitto, il protagonista della storia narrata qui di seguito giunge a Buenos Aires.

    Rispetto a tutte le altre nazioni del mondo occidentale, però, l'Argentina ebbe diverse peculiarità, non tutte positive.

    L'estensione del suo territorio, una volta terminata, e vinta, la guerra contro il Paraguay, ed effettuata l'an-nessione della fertile regione del Chaco Austral, ottenuto dal Paraguay in conto risarcimento bellico, rag-giunse pressapoco quella che è attualmente, vale a dire due milioni ottocentomila chilometri quadrati, circa nove volte quello italiano.

    Si trattò, però, di un possesso puramente fittizio, e questo almeno fino al 1880, ossia all'anno in cui il ge-nerale Julio Argentino Roca ottenne la cosiddetta normalizzazione della questione indiana, tramite una se-rie di campagne militari, intraprese da lui stesso, e dai suoi collaboratori, che riuscirono nell'intento di re-spingere tutti gli indios selvaggi, che avevano abitato le pampas, le sconfinate pianure erbose, e che erano sopravvissuti alle carabine, ai cannoni, alle spade dei cavalleggeri, a sud del Rio Negro, il fiume che da sem-pre segna il confine tra le pampas propriamente dette e la Patagonia.

    I Lanzas Pampas, ossia i guerrieri appartenenti alle tribù nomadi delle pianure, per quanto sconfitti a più riprese, in diverse battaglie campali, dalle spedizioni militari governative, e questo più spesso dopo la metà del diciannovesimo secolo, continuarono, praticamente fino al 1880, a mettere a ferro ed a fuoco gli insedia-menti bianchi, cingendo la capitale, Buenos Aires, in una cintura di terrore quanto mai elastica che, in alcune delle sue più violente contrazioni, arrivò più volte a seminare morte, razzia e distruzione a poche decine di chilometri dalle sue periferie. Per il resto, comunque, avventurarsi verso sud, o verso ovest, costituiva un az-zardo da tentare solamente raggruppandosi in numerose, bene armate e determinate colonne, e, soprattutto, per degli ottimi motivi.

    Il maggiore problema di tutte le nazioni del Nuovo Mondo, di quelle del Nord quanto di quelle del Sud, di cui qui si parla, consisteva nella difficoltà di attrarre i grandi flussi migratori.

    La ricchezza principale di tutte quelle nazioni era costituita dalla terra.

    Terra in quantità enormi, assolutamente inimmaginabili per chi non sia nato, e cresciuto, in quegli ambien-ti; e questo lo posso affermare per esperienza personale.

    Terra suddivisa in tutte le situazioni orografiche possibili ed immaginabili, ma soprattutto consistente in pianure; milioni e milioni di chilometri quadrati di pianure, fertili, irrigate da un'infinità di corsi d'acqua, fiu-mi, torrenti.

    Terra in grado di produrre miliardi di tonnellate di grano, di mais, di verdure, di frutta.

    Terra capace di fornire pascolo, sostanzioso ed abbondante, per milioni di capi di bestiame, con la cui car-ne soddisfare il bisogno di proteine dell' umanità intera, a patto di poterla trasportare ove necessaria.

    Terra dentro, e sotto la quale, chi mai avrebbe potuto prevedere cosa avrebbe potuto nascondersi, in termi-ni di giacimenti minerari?

    Solo che quella terra, quelle terre, per potere elargire all' umanità quanto sarebbero state in grado di fare, avrebbero dovuto venire abitate, coltivate, accudite da bravi, volonterosi ed esperti agricoltori, allevatori, coadiuvati dalle giuste proporzioni di trasportatori, di commercianti, di artigiani, e poi ancora di medici, di insegnanti. In poche parole, da tutti i componenti di una bene organizzata società moderna.

    Le cose, però, stavano in ben altro modo, ed anzi, in modo diametralmente opposto.

    Quelle pianure, che avrebbero potuto fare prosperare centinaia di milioni di persone, erano abitate da po-che decine di migliaia di nomadi selvaggi, ben decisi a tenersele tutte per loro, per continuare a vivere così come da sempre erano vissuti, e per fare ciò disposti ad ammazzare chiunque si fosse provato a venire ad af-fermare il contrario.

    In Argentina, le sterminate pianure componenti le pampas venivano denominate tierras vacias, ossia terre vuote.

    In quella stessa Argentina, a metà ottocento non vi erano che tre milioni di abitanti circa, inclusi gli autoc-toni.

    La gara per assicurarsi la posizione di obbiettivo privilegiato, per gli emigranti europei, che erano poi i più desiderati, in quanto più facili da assimilare, per via della religione, della cultura, della mentalità, nonché maggiormente padroni di tutte quelle arti, e mestieri, apprezzabili, necessari all'economia locale, venne stra-vinta dagli Stati Uniti d'America, e questo non solo per una questione di lingua e tradizioni, e della carestia, indotte dalla malattia delle patate, che indusse mezza Irlanda alla traversata transatlantica, ma soprattutto in quanto laggiù si era riusciti a risolvere il problema indiano per tempo, quantomeno per quanto bastò per apri-re le enormi pianure del centro del paese ai nuovo arrivati.

    Così il Sud America venne dopo, e l'Argentina fu il penultimo paese, tra quelli per cui l'emigrazione mas-siva era di capitale importanza, a mettersi in condizione da riceverla. Dopo di essa, solamente il Paraguay, a causa delle dimensioni, epiche, della sconfitta subita.

    Negli Stati Uniti, nelle nazioni affacciato al Golfo del Messico ed al Mare dei Caraibi, e persino in Brasile, i primi colonizzatori bianchi avevano trovato, in loco, popolazioni indigene numerose, che erano state porta-te, durante il corso dei secoli, a discreti livelli di civilizzazione, seppure mantenute in stato di inferiorità. An-cora, tali società vennero integrate, più o meno massicciamente, dall'immissione di masse di Africani, con-dottevi in condizioni di schiavitù.

    Sulla stragrande maggioranza del territorio argentino, invece, i nativi vennero praticamente sterminati, mentre ai discendenti dei pochi schiavi africani toccò una sorte quasi altrettanto infausta.

    Pochi discendenti, ho detto, in quanto, all'epoca della tratta degli schiavi, in Argentina non esistevano col-ture cui fosse necessario dedicare manodopera poco specializzata, numerosa ed a basso costo, tipo cotone, cacao o caffè, cosicché nessun possidente locale aveva ritenuto sensato spendere denari per acquistare grandi masse di genti nere. Al più erano arrivati, per vie traverse, solo pochi schiavi, destinati a diventare dei dome-stici; e comunque, neppure il clima era tropo adatto, per farci acclimatare persone abituate alle calure africa-ne.

    In ogni modo, per dolo o per caso, quei discendenti, in età da combattere, all'inizio della guerra contro il Paraguay, vennero arruolati in gran numero, e con essi si formarono reparti militari raccogliticci, male adde-strati e peggio armati, che vennero poi mandati in prima linea, a farsi massacrare dal nemico.

    Comunque il governo argentino, appena ne fu in grado, fece tutto quanto in suo potere per riempire i vuoti delle sue terre; e lo fece spesso in maniera talmente eclatante, che la storia qui narrata non è poi troppo inve-rosimile.

    C' è ancora una cosa da dire.

    Nonostante un'epopea che nulla ha da invidiare, rispetto a quella del West statunitense, degli indios che popolavano le pampas pochi sanno.

    Quei pochi, normalmente, non risiedono neppure in Argentina.

    Posso personalmente testimoniare le enormi difficoltà da me incontrate, tanto a Buenos Aires quanto in Patagonia, per reperire esaurienti notizie su quelle popolazioni, di cui nessuno pareva avere mai inteso par-lare, e se alla fine qualcosa ho trovato, l'ho trovata in Italia, su testi in italiano, il più esauriente dei quali è, secondo me, quello scritto dalla signora Sonia Piloto Di Castri, intitolato, non a caso, "La Memoria Negata- gli indios australi, 1535-1885". Alla signora DiCastro, per le informazioni fornitemi, va un sentito, rispettoso ringraziamento.

    CAPITOLO PRIMO

    Vicende di Liguria antica

    Capitolo 1

    Burrasca di libeccio.

    Quell’anno aveva definitivamente smesso di piovere verso la fine di aprile, o, quantomeno, da quella data non si erano più verificate precipitazioni degne di nota.

    Poi aveva preso a fare caldo.

    Sempre più caldo.

    Aveva, insomma, fatto il tempo che avrebbe dovuto fare, quello che da sempre contraddistingue il micro-clima che caratterizza le coste del ponente ligure; e così, la natura era stata prodiga di frutti, per le genti che le abitavano.

    Il raccolto delle olive era stato più che soddisfacente, l’anno precedente, tanto che le Sasselline, le ragazze e le donne, provenienti dal circondario del Sassello, le quali scendevano dalle natie montagne, per venire a guadagnare qualche palanca, raccogliendo le olive a terra, in ginocchio sull’erba, mantenuta sempre accura-tamente sfalciata, affinché le piccole drupe risultassero evidenti, avevano riscosso le ultime paghe settimanali a fine aprile e la quantità d’olio lampante, ossia quello di qualità più scadente, ottenuto da olive cadute dal-l’albero mesi prima, acidissimo e puzzolente, ma pur sempre grasso, buono per venire arso nelle lampade, e per questo così denominato, era stata abbastanza cospicua da indurre al sorriso i visi, martoriati dalle intem-perie, dei contadini, proprietari delle campagne.

    Le feste di fine raccolto erano state numerose, e giocose. Copiosi erano stati i baci d’addio, molti dei quali non precisamente casti. Qualche ragazza si sarebbe fermata lì per sempre, oppure sarebbe tornata, da lì a po-che settimane, per sposare un giovane locale, conosciuto durante la stagione lavorativa; e qualcuna covava in grembo, pur senza ancora saperlo, un seme, che aveva appena incominciato a germinare, e che nove mesi più tardi avrebbe fatto sì che un nuovo essere umano venisse alla luce.

    I ciliegi, gli albicocchi e le altre piante da frutta, con le loro abbacinanti coperture di variegate corolle, a-vevano salutato l’esodo delle fanciulle. Poi i mesi erano trascorsi, secondo l’ordine naturale delle cose.

    C'era stata la fioritura degli agrumi, di cui allora la Liguria era grande produttrice, maggiore fornitrice dei mercati nordeuropei, sulle piante di limone, di arancio amaro e di arancio della varietà pernambuco, citrus sinensin sanguineum pernambuco, tipica della zona. Coi succo dei limoni, in particolare, si confezionavano botticelle, che venivano poi vendute alla Gran Bretagna, la quale le faceva pervenire ai velieri che ne costi-tuivano la flotta militare, in quanto piccole quantità di esso, somministrate quotidianamente, durante le lun-ghe navigazioni, quando non era possibile disporre di verdure e frutta fresche, mantenevano sani gli equipag-gi, eliminando il pericolo dello scorbuto, la terribile affezione, causata dalla mancanza di vitamine, che, nella storia della navigazione a vela di lungo corso, fece più vittime dei pirati, delle battaglie e degli uragani messi insieme.

    Fiorirono anche i chinotti, la cui produzione era destinata invece all'artigianale industria locale, per la pro-duzione profumiera, di marmellate e di bevande.

    A suo tempo, i ragazzini si erano buscati le regolamentari, stagionali dissenterie, causate dalle scorpacciate di frutta acerba rubata sugli alberi, ciliegie ed albicocche per lo più, ma anche pesche primaticce, che, si sa, in quanto rubate, erano indiscutibilmente più saporite di quelle che sarebbe stato possibile raccogliere, più a-gevolmente, dagli alberi appartenenti alla famiglia.

    I fienili erano stati colmati fino al tetto di verde e profumato raccolto, ed i filari di vigna promettevano un’abbondante produzione uve, dolci e saporite, le quali, pigiate coi piedi dalle donne, rigorosamente non mestruate, in quella contingenza, avrebbero portato a produrre dei vini, generosi e forti.

    Le massaie avevano incominciato a raccogliere i primi fichi, ed a distenderli, aperti in due, sulle apposite stuoie di canna, dette cannicci, per farli seccare, e poi serbarli per l’inverno; coi migliori, i più belli e sapori-ti, sempre e solamente di varietà bianca, sarebbero stati confezionati gli speciali pani, avvolti in foglie verdi, che sarebbero poi stati regalati al parroco, in occasione di qualche festività religiosa, mentre i rimanenti, de-stinati al consumo familiare, li avrebbero stipati in capaci giare di terracotta. Contemporaneamente, o quasi, gli uomini avrebbero riempito altri recipienti, dello stesso genere, col miele, ottenuto spremendo, coi torchi, i favi, depredati nei bugni rustici.

    Luglio era arrivato, recando in dote le sue fantastiche, irreali quasi, bonacce di mare e di vento, e poi se n’era andato, lasciando il posto ad un agosto forse egualmente caldo, ma più ventilato.

    Con l’avvento dell’ottavo mese, difatti, l’atmosfera, quasi perennemente calma ed immobile, si era come

    risvegliata da un lungo sonno. La brezza della sera, che spirava dalla terra al mare, e quella del mattino, stes-

    sa direzione, ma verso opposto, si erano rafforzate, graziando i pescatori dalla fatica, comportata da este-nuanti vogate nella calura, per raggiungere i luoghi in cui calare le attrezzature da pesca, e poi tornare a riva.

    Al tramonto, i gozzi spiegavano le loro caratteristiche vele latine, fiocco a sinistra e randa a dritta, a far-falla, come veniva denominata quell'andatura, che l’arietta fresca, la vaxìa, in dialetto locale, gonfiava, e puntavano la prora in fuori, prendendo a navigare al lasco, vale a dire col vento a soffiare nei quartieri pop-pieri. Poi, la mattina seguente, ripercorrevano quello stesso tragitto a ritroso, usufruendo della medesima an-datura favorevole.

    Durante il giorno il sole picchiava duro. I suoi raggi riscaldavano la terra che in breve riacquistava, dopo la frescura notturna, la stessa temperatura del mare. A quel punto, veniva ad annullarsi il gradiente termico tra la superficie del mare e quella della costa, e così la brezza cessava. Seguiva un paio d’ore di bonaccia, do-podiché si levava una bava di vento da levante, che aumentava, in forza, fino al mezzogiorno vero. Poi sce-mava e, qualche decina di minuti dopo, attaccava a spirareil venticello da ponente, che cresceva fin verso le diciassette. Infine, di nuovo bonaccia; e questo fenomeno ricorrente era ben noto, alle genti marinare di Ligu-ria, le quale lo chiamavano, e lo chiamano tuttora, vento di girasole: Indice certo di tempo buono.

    Adesso, però, la gente incominciava a non poterne più, del caldo.

    Quattro mesi interi, senza che una sola goccia di pioggia fosse caduta dal cielo, avevano ridotto il territorio in condizioni estreme.

    Le vene d’acqua, che alimentavano i pozzi, avevano incominciato a farsi sempre più esigue. L’erba, nelle campagne, era morta a giugno, rinsecchita a luglio e poi, finalmente, ne era quasi completamente scomparsa ogni traccia, per via della prolungata siccità; e nelle terrazze, contenute nei caratteristici muri a secco, quasi oscenamente denudate, la biancastra terra riarsa si era aperta in vistose, larghe ed irregolari crepe. Resiste-vano gli arbusti, che affondavano le loro radici negli strati più profondi del suolo, i quali evidentemente con-servavano qualche traccia di umidità, e naturalmente gli alberi d’alto fusto, i quali però soffrivano anch’essi, visibilmente, quelle avverse condizioni meteorologiche.

    Questa situazione vide sorgere l’alba del 14 agosto. L’anno era il 1849.

    Per la maggior parte degli abitanti del Dianese, quella da venire prometteva di essere una giornata esatta-mente eguale a tutte le altre che l’avevano preceduta, durante le ultime due settimane.

    Soltanto pochissimi uomini, tutti pescatori, di ritorno dalle notturne fatiche, avevano intuito che qualcosa era sul punto di cambiare.

    Innanzi tutto avevano trovato, incattivati nelle maglie dei loro tremagli, più pesci del solito; e questo era, e rimane anche oggi, un sicuro segno premonitore di mutazioni meteorologiche, che gli abitatori degli abissi avvertono con largo anticipo, rispetto agli umani.

    Per istinto, indotto da un qualcosa che loro potevano avvertire, e gli uomini no, i più piccoli tra loro, quan-tomeno tra quelli visibili ad occhio nudo, dotati di possibilità di movimento, e quindi anellidi, molluschi, pic-coli crostacei, pesciolini ed altri ancora, abbandonarono i loro soliti nascondigli, per portarsi nelle migliori posizioni, esposte alle correnti, che consentivano loro di catturare plancton, zooplancton e quant'altro.

    Lo stesso fecero anche i loro predatori naturali che erano poi, spesso, le creature marine che costituivano le prede più ambite dall'uomo. Aumentando il raggio delle loro perlustrazioni e, presi da quella che in termi-ni tecnici si chiama frenesia alimentare, dimenticarono l'abituale prudenza, finendo per cadere, così, preda delle insidie umane, con frequenza assai maggiore del consueto.

    Allora quegli uomini, messi sull’avviso, avevano levato gli occhi al cielo, ed avevano così potuto scorgere, lontanissima, quasi invisibile per chi non avesse saputo esattamente che cosa cercare, una sottilissima stria-tura; come una bruma, sospesa ai margini superiori dell’atmosfera.

    Quando il sole fu salito un po’ più alto, il cielo, che normalmente a quell’ora era di un tenue azzurro, virò verso una tinta più chiara, in qualche modo diafana, quasi minacciosa. La luce dell’astro si fece più aggressi-va, al punto che non fu più tanto facile, per nessuno, volgere lo sguardo in alto, senza rimanere abbacinato.

    Cose apparentemente prive d’importanza per uomini quali quelli attuali, per la stragrande maggioranza protetti a sufficienza, ed anzi ad ufo, dai capricci del tempo, grazie ad una moderna tecnologia, che fornisce loro artifici in grado di prevederli con ragionevole anticipo e che, mal che vada, è in grado di consolarli, re-galando loro lenitivi quali la climatizzazione, la forza motrice meccanica, ottenibile da motori della potenza di centinaia, migliaia di cavalli, racchiusa in blocchi compatti ed affidabili, e via di seguito.

    Ma per quegli uomini, che vivevano nella metà dell’ottocento, e per mestiere facevano i marinai, i pesca-tori, ai quali nessuno si era mai curato di spiegare che laggiù, a sud, una estesa, e profonda, area ciclonica di origine atlantica, era finalmente riuscita a scacciare l'anticiclone, l’alta pressione, che vi aveva dominato per mesi e mesi, e adesso stava procedendo grossomodo verso est, in grazia del movimento di rivoluzione, che la terra compiva attorno al proprio asse, circondata, e soprattutto anticipata, da impetuosi venti, che ruotavano attorno al suo centro in senso antiorario, più veloci ed avanzati in quota, rispetto al suolo, in quanto lassù

    l’attrito da vincere era minore, perché causato dalla resistenza passiva delle fluide masse d’aria, ancora fer-me, e non già da un’orografia frastagliata fatta di colline, montagne ed asperità varie, ma comunque suffi-cientemente violenti da dare origine al fenomeno del minstral, il maestrale, che soffiava da nord ovest nel Golfo del Leone, che poi da là s’irradiava a raggiera, e tra gli altri partoriva un braccio il quale, prendendo a seguire la costa, in quell’angolo di Liguria finiva per presentarsi come libeccio, ossia vento sa sud ovest, per quegli uomini, per l’appunto, il leggere al meglio qualsiasi messaggio avessero la bontà d’inviare mare, cie-lo, pesci e quant’altro, poteva significare la differenza tra la vita e la morte.

    Fu così che, in un lampo, senza che nessuno avesse fatto nulla per reclamizzare la notizia, tutti gli interes-sati seppero che, quel giorno, il tempo sarebbe finalmente cambiato. Poi, quando le cose fossero tornate alla normalità, avrebbe certamente ricominciato a fare caldo, ma non più agli asfissianti picchi raggiunti sino al giorno prima. Comunque, prima di sera sarebbe arrivata la grande, violenta libecciata, che avrebbe segnato la rottura dei tempi. Ed ognuno iniziò a prendere le contromisure del caso.

    Rapidamente vennero tirati fuori dai magazzini i robusti pali, che si chiamavano parati, che fungevano da rulli.

    Li si posero sotto le chiglie delle barche per consentire agli uomini, che avevano a disposizione la sola for-za delle loro braccia, di trascinare le stesse in terraferma, anche per tratti considerevolmente lunghi. Il sego venne spalmato in abbondanza sugli scali, affinché le chiglie potessero scorrervi su con la massima facilità, dopodiché decine di braccia robuste presero a far leva su cime e falchette, per tirare i gozzi della flottiglia pe-schereccia lontano dalla battigia, al sicuro dalla protervia di qualsiasi maroso che il vento di sud ovest avreb-be potuto scagliarvi contro.

    Già poche ore dopo l’alba, il bagnasciuga era stato completamente sgomberato, ad eccezione di un’unica imbarcazione.

    Si trattava d’un gozzo, datato di costruzione, ma perfetto nella linea e nella manutenzione. Era lungo ven-ticinque piedi ed armato a vela latina, ossia con un alberetto di bompresso, che servita da puntale ad un gran-de fiocco, ed un palo, in cima al quale, grazie ad un paranchetto, s’issava un’antenna lunga quaranta piedi, cui era inferita una vela aurica, di ampiezza apparentemente smisurata per una simile imbarcazione, ma che, col vento buono, era capace di farla correre come una rondine di mare.

    L’interno del gozzo era tutto incrostato di squame di pesci, segno evidente che si trattava dell' attrezzo da lavoro d’un pescatore.

    Difatti apparteneva a Raimondo Pissarello, il decano di tutti i pescatori della baia.

    Raimondo Pissarello era ancora un bell’uomo, anche se sulle sue ampie spalle pesava ormai la bellezza di sessantacinque primavere.

    Era alto ed asciutto. La pelle del suo corpo pareva cuoio vecchio, inscurita dalla costante azione che vento, sole e salino avevano svolto, costantemente, su di essa.

    Aveva il naso adunco, e gli occhi neri e scintillanti di un’energia assai più giovanile di loro; e capelli fitti, corti e crespi, ormai color della neve, al pari dei baffi, che portava corti e sottili.

    Un tempo, quando il suo pelo era stato ancora color dell’antracite, moltissime donne s’erano incapricciate di lui, più o meno segretamente, e molte egli ne aveva prese, magari fugacemente, dopo averle attese, previo furtivi cenni d’intesa, scambiati in gran segreto, ai bordi delle curve più remote dei viottoli di campagna, presso i pozzi ai quali s’attingeva l’acqua, ed in pratica dovunque esse avessero potuto giungere, senza desta-re sospetti, e fermarsi per il tempo sufficiente a consumare fugaci amplessi. E laddove non arrivava il puro fascino della sua figura, che pareva essere stata inventata apposta per fare uscire di senno le giovinette, e an-che le loro mamme, quasi immancabilmente coglieva il bersaglio la sua voce tenorile, un po’ grezza, ma na-turalmente bene impostata, con la quale non si faceva pregare di allietare, in qualsiasi occasione, e con qual-siasi pretesto, serate di feste patronali, o semplici baldorie d’osteria.

    Alla fine, però, per il bel giovanotto, la vita aveva incominciato a farsi un po’ troppo pericolosa.

    Molti padri, ed anche qualche marito, avevano incominciato a fiutare che troppo spesso qualcosa non qua-drava, nel comportamento delle rispettive figlie e mogli, e che, per pura combinazione, quando ciò accadeva, c’era immancabilmente Raimondo Pissarello nei dintorni, coi suoi sorrisi a trentadue denti, e la sua voce al-l’olio di vasellina.

    Ora, visto il suo carattere allegro e spensierato, e magari anche un po’ infantile, ma comunque fieramente spavaldo, egli non avrebbe fatto una piega, ed avrebbe continuato con le sue avventure galanti fino ad essere costretto, da qualche genitore fuori della grazia di Dio, a sposarne la figlia oltraggiata, e questo nella miglio-re delle ipotesi; oppure, peggio ancora, a buscarsi qualche brutta coltellata, frutto dell’ira d’un marito cornifi-cato, se non fosse accaduto che un giorno, bighellonando tra gli stretti e tortuosi carruggi di Cervo, l’antico borgo di origine medioevale, sorto attorno alla chiesa detta dei corallini, sulla collina che si tuffava in mare, all’estremo levante della golfata, si ritrovò dinnanzi la più splendida, soave, meravigliosa fanciulla, sulla quale mai avesse potuto posare gli occhi.

    La giovinetta lo conquistò di primo acchito con un semplice sguardo, dardeggiato coi suoi innocenti, enor-mi, inconsapevoli occhi nerissimi, brillanti come pietre preziose. Ma se ciò non fosse bastato, il fatto che es-sa recasse, in equilibrio sul capo, un fardello di panni, appena lavati ai truogoli, presso le riva del torrente, e che tenesse le braccia sollevate, con le mani tese a trattenere in equilibrio il fardello stesso, e quella postura mettesse in risalto due seni pieni, turgidi, svettanti da sotto il leggero tessuto, di cui il dozzinale abito era fat-to, causò al giovane Raimondo un improvviso capogiro, dal quale si difese appoggiandosi ad un muro, e prendendo faticosamente fiato, a bocca aperta.

    Quando poi la ragazza l’ebbe sopravanzato, e lui si fu voltato a seguirla con lo sguardo, obnubilato dalla concupiscenza e dall’amore, sentì le ginocchia farglisi di gelatina allo spettacolo offerto dei glutei di lei, che ancheggiavano trionfalmente, anche, ma non soltanto, perché obbligati dall’andatura, determinata dall’atto del trasportare.

    Rapidamente indagò su di essa, con la discrezione, e la determinazione, degne d’un lupo feroce dimentica-to in un ovile affollato di agnelli da latte.

    Scoprì che il suo nome era Giovanna Restagno.

    Impiegò tre giorni interi per riuscire ad incontrarla, come per puro caso e, quando infine ci riuscì, appurò di non esserle indifferente. Allora pregò suo padre di recarsi a casa della ragazza, per conferire con quello di lei, e di chiederla in moglie per suo conto. Nel frattempo, tutto preso dalla frenesia amorosa, si fece sotto con la bella Giovanna, e ne ottenne dapprima i dovuti silenzi, poi i timidi sorrisi, quindi i languidi, e profondi so-spiri, che avevano lo strano potere di movimentare il suo mirabile petto, al punto da farlo uscire di senno dal desiderio, ed infine, dopo le prime resistenze, sempre meno convinte, e prima delle calde lacrime di penti-mento, la verginità.

    A quel tempo, Raimondo non era ancora un pescatore.

    Proveniva da una famiglia contadina della quale era il più affascinante, ma non l’unico, rampollo.

    Una famiglia la quale assai pochi beni avrebbe potuto elargirgli, per consentirgli di uscire dal suo grembo e mantenerci una sposa, più l’eventuale prole. D'altronde, neppure la famiglia del futuro suocero aveva terre, da dare in dote a Giovanna, per fornirle quello che, all’epoca, veniva chiamato in dialetto locale u scitu de l’auxellu, ossia il sito che giungeva in proprietà ad un uomo grazie al matrimonio, e più specificatamente al-l’appendice maschile che ne consentiva la consumazione.

    Il padre di Giovanna era tutt’altro che uno sprovveduto cosicché, quando il vecchio Pissarello venne alla sua casa, per presentargli regolare domanda di matrimonio, seppe immediatamente calcolare che due più due faceva quattro. Collegò, seduta stante, i repentini cambiamenti d’umore, gli improvvisi languori, l’impreve-dibile inappetenza della più bella delle sue figlie la quale, fino a qualche tempo prima, aveva divorato, come un lupacchiotto famelico, qualsiasi genere, anche solo vagamente alimentare, che era passato a portata della sua bocca, e che adesso giocherellava, assente e svogliata, con la forchetta, dinnanzi alle pietanze più sapori-te, la mente persa lontano, chi sa dove, col giovanotto che sempre più spesso si ritrovava tra i piedi, tutte le volte che usciva di casa, e lo guardava come un cane affamato avrebbe guatato il padrone, che avesse tenuto in mano un succulento osso di midollo. Intuì, allora, che sarebbe stato saggio chiudere la stalla, prima che i buoi avessero trovato tempo, e modo, per scapparne. Così prese a quattr’occhi il futuro genero, e gli propose d’insegnargli il suo mestiere e, a suo tempo, di lasciargli il gozzo di famiglia tutto per lui, quando si fosse sentito abbastanza in gamba da mettersi a pescare in proprio, che intanto lui stava diventando vecchio, aveva bisogno di aiuto e, prima o poi, avrebbe dovuto comunque smettere di andare per mare.

    Raimondo, naturalmente, aveva entusiasticamente acconsentito. In verità, pur di riuscire a mettere legal-mente le mani su quella ragazza, e più esattamente sotto le sue sottane, avrebbe accettato persino di farsi pre-te.

    In seguito, il giovane aveva appreso talmente bene il nuovo lavoro, che aveva finito per diventare il mi-gliore di tutti, nella piccola marineria della baia, ed ora i colleghi più giovani spesso venivano da lui, a chie-dere consigli su ogni sfaccettatura di quel complicato mestiere.

    La vita con Giovanna era stata simile ad un sogno fantastico.

    Entrambi i coniugi erano stati dotati da madre natura di temperamento focoso, e di fisico possente.

    Entrambi erano follemente innamorati l’uno dell’altro, e tali rimasero per tutta la vita, anche quando il ca-rico dell’età avrebbe, ragionevolmente, consigliato una maggiore temperanza. Le grosse molle del loro letto-ne matrimoniale aveva scricchiolato selvaggiamente per un’infinità di volte, ed ancora adesso ciò accadeva, con una frequenza tale da destare l’invidia delle coetanee di Giovanna, nonché l’ilarità ammirata di quelli di

    Raimondo, e questo perché ognuno dei due, gli occhi schermati dall’amore, che continuava ad animarli, non vedeva dinnanzi a sé una persona ormai anziana, bensì lo stupendo essere di cui s’era innamorato tanto tem-po prima; e così gli ardori tardavano a placarsi oltre ogni logica.

    Uno alla volta, erano arrivati i frutti dell’amore: I figli, o meglio le figlie. Tredici figlie scodellate una do-po l'altra che, una più bella dell’altra, erano adesso tutte quante felicemente sposate, però neppure una con un giovanotto che avesse manifestato l’intenzione, o quantomeno preso in esame la possibilità, di dare una ma-no all’anziano suocero nello svolgimento della quotidiana fatica. Tutti quanti erano infatti, bellamente, in al-tre faccende affaccendati.

    Però Raimondo di quella mano d’aiuto ne aveva veramente bisogno.

    Andasse per l’amore, andasse anche per l’ardore, ma l’età ormai c’era tutta, e fuori del letto coniugale, alle prese con le intemperie, in mezzo alle quali spesso il suo lavoro si svolgeva, la schiena doleva anche senza bisogno di sottoporla alla tortura del remo, e le dita, corrose dall’acqua salsa e deformate dall’artrosi, fatica-vano sempre più a compiere i movimenti più usuali, semplici, e soprattutto necessari.

    Spinto dalla necessità si era quindi risolto a cercare quell’aiuto, cui anelava, fuori della cerchia famigliare più stretta, ed infine l’aveva trovato nella persona d’un suo nipote, tale Ettore Pissarello, figlio di suo fratello Michele, prematuramente scomparso.

    Il giovane, all’epoca, era sulla trentina, ed aveva moglie e due figli, più un terzo in dirittura d’arrivo.

    Era un contadino, che traeva un magro sostentamento da un paio di centinaia di piante d’ulivo, sparse in tre lotti, il più vicino dei quali distava una buona ora di cammino dalla sua abitazione, sita nel centro del pae-se rivierasco sito a ponente della baia dianese, e soprattutto da un orto, di medie dimensioni, ricavato sulla sponda del torrente, il quale, grazie ad un pozzo, che di acqua pareva poterne buttare in quantità, persino nel-le condizioni più avverse, produceva verdure, ed anche limoni, parte delle quali eccedeva i bisogni della fa-migliola, e poteva quindi essere venduta.

    La vigoria fisica del giovanotto, al pari della sua perenne necessità di raggranellare qualche palanca in più, esuberava di gran lunga quelli che potevano essere gli obblighi di cura ai suoi magri fondi, e faceva sì ch’egli non disdegnasse, ogni volta che gli veniva proposto, di andare in giornata, a lavorare per conto terzi.

    A questo punto, è necessario aprire una doverosa parentesi.

    Grazie al turismo, che ha reso celebri numerose, amene località delle riviere liguri, ed alla storia, che ci ha tramandato la valentia marinaresca di personaggi liguri del calibro di Andrea Doria, Cristoforo Colombo, Andrea Rossi, e persino dei romanzeschi Conti di Ventimiglia, immortalati dal Salgari nel ruolo di Corsari variamente colorati, troppe persone si sentono autorizzare a pensare alla Liguria come ad una regione pret-tamente marinara, ed ai Liguri come ad un popolo nelle cui vene debba scorrere più acqua di mare che san-gue.

    In realtà, non vi è nulla di meno esatto.

    La Liguria, infatti, è una regione prevalentemente montuosa, per la precisione la seconda in Italia, in rap-porto alla sua estensione; da sempre è affezionata fornitrice, delle patrie leve, di rinomati battaglioni di trup-pe alpine, ed è abitata perlopiù da popolazioni schiettamente montanare, ben più avvezze ad avere a che fare con trote ed anguille, che non con triglie ed orate.

    Ancora oggi il Ligure di montagna, e in questa terra la montagna nasce coi piedi bagnati dal mare, del ma-re diffida; ne ha paura: Non lo conosce, insomma, e non ha motivo, né desiderio, di intraprenderne la cono-scenza.

    In altre parole, nove Liguri su dieci sono, ed erano, montanari, e le uniche cose buone che trovavano nel mare erano il sale, che si ricavava dalle sue acque, che si sapeva venire a taglio per prevenire la malattia del gozzo, e l’impossibilità dei suoi marosi a raggiungere le campagne, arrampicate sulle colline rocciose, ridotte in terrazze.

    Quello, su dieci, che sul mare era nato, e che per tradizione familiare era improntato a farne uso, diventava in genere un marinaio assai valente, perché veniva fuori da gente abituata da sempre a sopravvivere su una terra che, più che una terra, è una scogliera; che sapeva mostrare i denti alla vita, quando era il caso. Ed era proprio questo che, in genere, si richiedeva ad un marinaio.

    Così come tutti i Liguri, non espressamente marinai o pescatori, Ettore aveva un sacrosanto terrore del ma-re; non sapeva nuotare, né aveva mai desiderato d’imparare a farlo; però, quando lo zio gli aveva proposto di aiutarlo, in cambio di qualche soldino, ma soprattutto di nutrienti, sostanziose e costanti forniture di pesci, grazie alle quali avrebbe potuto far crescere sani i suoi rampolli, non aveva saputo rifiutarsi, perché di tempo ne aveva in abbondanza, e di bisogno ancora di più.

    Ciò non toglie che Ettore Pissarello, ogni volta che si avvicinava alla foce del torrente Steria, laddove era ormeggiata l’imbarcazione dello zio, fosse preso da una sensazione insopprimibile di puro panico ed ogni volta sperasse, con ogni più infinitesima molecola del suo essere, d’essere destinato, per quel giorno almeno,

    ad annodare giunchi di nasse, cucire tremagli, e comunque a qualsiasi incombenza potesse essere espletata rimanendo coi piedi ben piantati per terra, senza dovere affidare il proprio corpo, e la propria anima, a quel-l’infido, ballonzolante guscio di noce, nel quale l’anziano congiunto si ostinava a riporre tanta fiducia.

    Quella perenne paura faceva regolarmente sì che, una volta a bordo della barca, in mare aperto, egli non riuscisse ad azzeccare una mossa giusta manco a minacciarlo di morte. Però di forza ne aveva in abbondan-za ed era proprio la forza di cui il vecchio aveva disperato bisogno, sicché Raimondo si era rassegnato a con-trollare a vista il nipote, ed a rimediare, alla meno peggio, ai rovinosi risultati della sua carenza d’arte mari-naresca.

    Quel giorno, quel maledetto 14 agosto del 1849, Raimondo Pissarello, per la prima volta in vita sua, non sapeva che pesci pigliare, anche se sapeva benissimo quali, in effetti, avrebbe voluto portare a casa.

    La sua pluridecennale esperienza di uomo di mare gli diceva che presto, addirittura nel volgere di poche ore, la libecciata si sarebbe scatenata in tutta la sua spaventosa virulenza. Tuttavia sapeva anche di avere a mare dodici grosse nasse, specie di gabbie trappola per pesci e molluschi di vario genere, che lui stesso, per-sonalmente, aveva confezionato, durante le lunghe giornate invernali, caratterizzate del maltempo, quando era più saggio costruire attrezzi per il futuro che non rischiare la pelle nell’immediato e, per bene che potesse andare, nelle reti non sarebbero rimasti impigliati che pochi pesciolini di scoglio di varie razze, che la gente del posto accomunava con la dicitura dispregiativa di strangolagatti, a sottolineare la grande quantità di spine, che affliggeva le loro magre carni. Raimondo andava famoso per la qualità delle sue nasse, che tutti riconoscevano essere le migliori del circondario, e che per l’occasione erano state calate, con scrupolosa pre-cisione, su un paio di secche prospicienti il paese, risaputamente ricche di ottimo pesce.

    Quelle nasse, ognuna attaccata, tramite una robusta sagola, ad un’orsa, ossia ad un galleggiante segnalato-re, erano state calate in posizione tre giorni prima, con dentro grande abbondanza di succulente esche, dove-vano essere a quel punto piene zeppe di pescato, e bisognava salparle in giornata. Quando si fosse scatenata la buriana, infatti, nessuno avrebbe più potuto uscire a mare, magari per diversi giorni, e durante quel perio-do, bene che avesse potuto andare, i pesci intrappolati sarebbero morti, là dentro, mentre nella peggiore delle ipotesi, i cavalloni avrebbero potuto scaraventare tutto quanto in costa, e determinare così la perdita totale dell’attrezzatura.

    Ma, fosse stato soltanto per quello, Raimondo non avrebbe avuto tante remore: Avrebbe alato il gozzo, co-me avevano già fatto tutti i suoi colleghi, e poi che succedesse quello che doveva succedere, tanto lui, di figli piccoli, da sfamare, non ne aveva più, e persa una nassa se ne faceva un’altra. Il fatto era che lui si era impe-gnato a rifornire di pesce il banchetto nuziale del figlio di un suo caro amico frantoiano, che si sarebbe svolto l’indomani; e così di mezzo non c’erano solo dei soldi, ma anche e soprattutto la sua parola; ed era proprio il mancare all’impegno che gli bruciava tanto.

    - Lascia perdere, Raimondo! Qui tra poco si metterà brutta, lo sai!- Gli dissero i colleghi, spaventati dalla sua indecisione sul da farsi che, a chi lo conosceva meglio, non poteva far presagire nulla di buono.

    - Ma o belin!- Sbottò lui di rimando, sparando come una cannonata la più tipica delle imprecazioni dialet-tali liguri; - Voialtri fate presto a parlare, però sono io che mi sono impegnato, mica voi! Che figura ci faccio, io, davanti a tutta quella gente, che aspetta orate e dentici, e si troverà invece davanti dei piatti vuoti?- Rispo-se lui, grattandosi la testa, con le meningi in fiamme per il gran pensare.

    - Mangeranno qualcos’altro, no? Vacci adesso, vaglielo a dire che non si può uscire in mare! Antonio è un uomo ragionevole, e di tempo, per ammazzare conigli e galline, da cuocere domani, ce n’è d’avanzo. Tanto, anche se esci, non ti credi mica di riuscire a tornare a casa coi pesci, no? - Insisterono quelli.

    - Si che ci torno! Non sarà mica la prima volta, in quarant’anni, che mi troverò in mezzo a un po’ di maret-ta, maledizione! Lo so io come fare, state tranquilli! E tu, Ettore, salta a bordo e allarga le orecchie! Devi fa-re tutto quello che ti dirò io, e presto e bene, stavolta! E vedrai che stasera ti porterai a casa tanti pesci buoni, che te e i tuoi ve ne andrete a dormire con la pancia piena, come a Natale, e domani avrai anche un po’ di pa-lanche, quando avrò riscosso dal frantoiano!-

    Quando il nipote fu a bordo, Raimondo lo mise ai remi perché mantenesse la prua in fuori, verso il largo, mollò le cime che assicuravano l’imbarcazione al corpo morto che fungeva da ancora, ed immediatamente dopo mise in tiro lo strallo, che faceva salire a riva la testa del fiocco.

    Il gozzo s’inclinò a sinistra e balzò in avanti, col vento ad un paio di quarte a proravia del traverso di drit-ta.

    Il vecchio non era un folle, né quello di un folle era il suo comportamento, in quella particolare circostan-za. Egli sapeva, infatti, di avere a disposizione ancora del tempo, prima che la tempesta si scatenasse in tutta la sua furia, e contava di usare quel tempo per recuperare quanti più attrezzi fosse stato possibile; poi, quan-do continuare la salpata fosse diventato troppo pericoloso, ci sarebbe voluto ben poco per fare ritorno a casa e, per male che fosse andata, se i cavalloni avessero raggiunto proporzioni tali da impedire l’atterraggio nella baia, lui avrebbe messo la prora su capo Rollo, il promontorio che delimitava la baia a levante, col vento in poppa, l’avrebbe randeggiato a poche decine di metri e poi, dopo averlo doppiato, avrebbe virato dolcemente a sinistra ed allora, in capo a pochi minuti, loro due si sarebbero trovati nella relativa bonaccia delle acque ridossate dal capo. Avrebbero preso terra là, e poi sarebbe stata soltanto questione di cercare un carrettiere di-sposto a portarli fino a casa: Loro, le nasse e pure i pesci.

    Intanto la nuvolaglia, che fino a poco tempo prima si sfilacciava in cielo, s’era trasformata in nuvoloni bassi, densi, minacciosi e scuri, che le raffiche di sud ovest facevano galoppare in cielo come orride creature, tratte direttamente dalle saghe nordiche. E la forza del vento continuava a crescere.

    Raggiunsero in pochi minuti la prima secca. Raimondo ammainò la vela, afferrò i remi e condusse a fatica la barca nei pressi dell’orsa più vicina. Ettore afferrò, con la gaffa, la sagola che la collegava alla relativa nassa e poi incominciò a recuperare, a forza di braccia.

    Ambedue gli uomini, Raimondo grazie all’esperienza, Ettore istruito dall’istinto, erano ben consci di non avere molto tempo a loro disposizione, e comunque di non averne affatto da sprecare, dedicandosi ad effet-tuare operazioni che si sarebbero potuto rimandare a quando le condizioni di lavoro fossero divenute meno estreme; cosicché Ettore salpava a bordo le sagole a grandi bracciate, mandandole ad abbisciarsi disordinata-mente sul pagliolo, e dietro di esse arrivavano le nasse, effettivamente piene di pesci.

    Esauriti gli attrezzi su quella secca, il vecchio tirò a bordo i remi, rimise in funzione il solito fiocco e, rapi-damente, si portò sulla seconda posizione, leggermente più a levante.

    Ettore era sempre più preoccupato. La barca aveva preso a rollare e beccheggiare violentemente, e quei movimenti si facevano sempre più accentuati, ed imprevedibili, ad ogni minuto che passava. Il vento rinfor-zava a vista d’occhio e già la superficie del mare, che aveva assunto un gran brutto colore, a mezza via tra il verdone ed il grigio, per via delle nuvole che vi si riflettevano, andava maculandosi di innumerevoli, candidi frangenti. Così, quando si trovò la successiva sagola tra le mani, raddoppiò l’energia, e si mise ad issare co-me un disperato, rendendosi conto che, prima fosse riuscito a compiere quel lavoro, prima avrebbe potuto fa-re ritorno all’amata terra ferma.

    Non riuscirono tuttavia a portare a termine appieno il recupero in quanto, proprio mentre il giovanotto sta-va tentando di salpare la penultima nassa, Raimondo seppe per certo che ormai non si poteva più indugiare.

    Il mare s’era fatto troppo grosso e le onde, che ormai erano alte un paio di metri, tendevano a crescere in dimensioni minuto dopo minuto, e per di più anche a frangere. Ordinò al giovane di ributtare tutto a mare, e di dargli il cambio ai remi.

    I dieci attrezzi recuperati erano in effetti colmi di pesci. Tra saraghi, pagelli, triglie ed altri pesci bianchi, numerosi erano i polpi e le seppie, e c'erano persino diversi gronghi e qualche murena, a divincolarsi in quel-le prigioni vegetali.

    Tutto giaceva alla rinfusa sul carabottino del gozzo, cosicché dappertutto c’erano corde bagnate, residui d’alga limacciosi, bave ed umori di pesci e molluschi. Tutto ciò rendeva terribilmente scivoloso il pagliolato.

    Raimondo raggiunse la base dell’albero e mise mano allo strallo, ma dovette lavorare per diversi secondi, con le sue dita semi anchilosate dall’artrite, per sciogliere un imbroglio, causato dal vento. Infine ne venne a capo, ed allora, rapidamente, riposizionò il fiocco. Quando il gozzo sentì il vento, rimbalzò in avanti, e lui si diresse a poppa, per raggiungere il timone.

    Il fattaccio avvenne mentre tentava di scavalcare la bancaccia sulla quale stava seduto il nipote. Aveva ap-pena poggiato inavvertitamente il piede destro sullo scivolosissimo tentacolo di un polpo, e sollevato quello sinistro, quando il gozzo precipitò nel profondo incavo, scavato fra due grossi marosi. Il vecchio si ritrovò all’improvviso sbalzato per aria, col corpo parallelo all’orizzonte, mentre la barca sotto di lui veniva spostata lateralmente dal rollio.

    A nulla valse il suo disperato tentativo di trovare un agguanto per la mano. Ricadde sulla falchetta, il bor-do del gozzo, e la sua tempia cozzò violentemente contro la punta del grosso scalmo di legno, producendo un rumore sinistro, dovuto alla frantumazione di ossa sottili. Poi il suo corpo scivolò a mare, e scomparve tra i flutti. La barca, sempre spinta dal fiocco gonfio di vento, in un batter di ciglia s’allontanò dal luogo della di-sgrazia, di diverse decine di metri.

    Ettore, inorridito dalla scena, comprese immediatamente che per lo zio non c’era più nulla da fare; tutta-via urlò più volte il suo nome, con voce sfatta dal terrore.

    Quindi, quasi impazzito per la paura, mollò i remi, che ancora stringeva tra le mani e, strisciando, raggiun-se la poppa, ed afferrò il timone.

    Preda di una cieca smania di raggiungere la terraferma, e di scendere, una volta per tutte, da quella male-detta barca, ma privo della cultura marinaresca dello zio, egli mise direttamente la prora verso la foce del tor-rente, dalla quale era partito, poco più di un’ora prima.

    Non si avvide del fatto che le onde, ormai fattesi paurosamente alte, giunte ad una certa distanza dalla spiaggia si tingevano di bruno, segno, questo, che là incominciavano a raschiare il fondale, sollevando sab-bia dal fondale.

    Anche se se ne fosse accorto, però, nessuno gli aveva mai spiegato che quella fascia brunastra costituiva un pericolo mortale per qualsiasi imbarcazione in quanto, a causa dell’attrito del piede dell’onda sul fondo, che provocava un ritardo di corsa di quella porzione, il cavallone stesso s’inclinava in avanti, rendendone impossibile lo scavalcamento. L’onda, insomma, non era più una montagna d’acqua, caratterizzata dal ver-sante anteriore più ripido del posteriore, ma comunque affrontabile, nelle dovute maniere, bensì diventava una forma sbilanciata in avanti, pronta ad riversarsi, con tonnellate e tonnellate di pressione, su qualsiasi ostacolo, ed ingoiarlo.

    Nel frattempo, nessun pescatore era rientrato in casa, sapendo che Raimondo era uscito in mare.

    Da terra, decine di paia d’occhi avevano seguito le evoluzioni del gozzo, sin da quando questo aveva la-sciato la riva. Quando il vecchio era caduto in mare la distanza era troppa, perché i colleghi sulla riva aves-sero potuto rendersi, visivamente, conto della tragedia ma, quando ci si avvide che la barca puntava sciente-mente, e decisamente, verso terra, allora tutti intuirono che a Raimondo doveva essere accaduta una disgra-zia perché, se fosse stato ancora in grado di decidere, mai avrebbe commesso una simile sciocchezza.

    Gli uomini raggiunsero di corsa il pennello antistante la Chiesa e, là giunti, presero a sbracciarsi, ed a ur-lare a quelli di bordo di virare, di riguadagnare il mare aperto. Ma Ettore non si avvide di nulla, tutto preso dalla sua smania di raggiungere la riva.

    Non ci furono miracoli. Tutto andò come doveva andare, ossia tragicamente.

    Una cinquantina di metri dopo essere entrato nella fascia bruna, il gozzo venne raggiunto da poppa da un enorme cavallone, che gli si franse addosso. Gli strappò la vela, spezzandone il palo, e lo traversò al mare.

    Immediatamente dopo una seconda ondata lo investì, spaccandolo in tanti pezzi, e spargendo rottami nel-l’arco di qualche decina di metri. Ad Ettore Pissarello non fu concesso neppure di levare un braccio fuori del-l’acqua per abbozzare una disperata, quanto inutile, richiesta d’aiuto.

    Scomparve, e basta.

    ……………………………

    Tra le molte persone, praticamente tutto il paese a parte gli infermi, impossibilitati a muoversi dal letto, che avevano seguito l’evolversi della tragedia, rimanendo assiepate sulla spiaggia, richiamate da uno spon-taneo passaparola che aveva percorso il paesello, incuneandosi fra balconi, terrazze e porticati, vi fu anche Teresa Pissarello alla quale toccò, quindi, l’estrema malasorte di dovere, oltretutto, assistere personalmente alla vicenda che sancì l’inizio della sua condizione di vedovanza.

    Quando si fu resa conto che mai più avrebbe rivisto vivo il marito, la povera donna cacciò un unico grido strozzato, e poi cadde a terra svenuta ma, quando si avvide che stava per perdere i sensi, si buttò istintiva-mente all’indietro, e così ricadde sul dorso sicché la creatura, che da quasi nove mesi portava in grembo, non ebbe a soffrirne.

    Immediatamente diverse comari si chinarono su di lei e, con richiami e schiaffetti sulle guance esangui, riuscirono a farla riavere, ed a rimetterla in piedi, in breve tempo; poi, sostenendola, l’accompagnarono alla sua umile dimora.

    Un’altra donna dal cuore buono prese per mano Secondo, il figlio minore di Teresa, che se n’era rimasto là imbambolato, incapace, coi suoi tre anni e mezzo di età, di comprendere appieno l’entità della tragedia che si era appena abbattuta su di lui, e sulla famiglia tutta, ma sufficientemente intuitivo da realizzare che qualcosa di assai brutto era appena accaduto.

    Qualche decina di metri più in là Primo, il figlio maggiore, che aveva compiuto i cinque anni, e così qual-cosa sulla morte già sapeva, in quanto gli era accaduto più volte di tenere in mano i corpi freddi di pesci, uc-cellini e piccoli animali da cortile, morti, e mai li aveva visti rianimarsi, si rese conto che mai più avrebbe ri-visto, vivo, suo padre; che anzi mai più nessuno lo avrebbe rivisto e che, in qualche modo, da quel momento in poi, la vita della sua famiglia avrebbe dovuto cambiare radicalmente, e certamente non in meglio.

    Grosse lacrime presero a sgorgare dai suoi occhi,

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