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L'innocenza degli alberi
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E-book143 pagine2 ore

L'innocenza degli alberi

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Info su questo ebook

Viaggiare, riflettere sul senso della nostra esistenza. Protagonisti gli alberi. Da loro l’autrice attinge forza, eleganza, ma pure coraggio e distacco. Nell'osservare un giardino, un vivaio, un bosco, ecco apparire o scomparire l’amicizia, l’amore, il dolore, per giungere sino al cospetto di Sua Maestà: La Salute. Un romanzo in cui invenzione e vissuto personale si confondono, aprendo la porta al lettore, il quale con la sua immaginazione può far nascere in sé, assieme all'innocenza degli alberi, il variegato mondo delle proprie emozioni.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2015
ISBN9788898894635
L'innocenza degli alberi

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    Anteprima del libro

    L'innocenza degli alberi - Daniela Montanari

    noi. 

    1 Il melo

    Albero che dà il frutto divino, simbolo della perfezione (ispirato dalla sua forma rotondeggiante) e della bellezza, considerato l’immagine del paradiso, ne simboleggia la gioia. Il melo in fiore è simbolo d’amore. 

    Per propiziarsi attenzioni amorose occorre tagliare una mela a metà, porre un biglietto con il nome della prediletta e riunire le due parti esponendola poi al sole. Quando la mela inizia a raggrinzire, la prescelta comincerà ad avvertire forti sentimenti di attrazione amorosa. Tale risultato si potrebbe ottenere anche - pare - amando se stessi senza porre condizioni. Pare.

         Sei tu la relazione più importante. Quando ti ho incontrata a quel seminario, avevo più di quarant’anni e venivo distratta da te che mi correvi davanti. E poi dietro. Poi tutt’intorno. Alla mia età non sta bene distrarsi mentre qualcuno parla, pensavo. Così mi obbligavo ad ascoltare l’oratore, vedevo le parole tradotte sullo schermo dall’inglese all’italiano ma, sebbene scorressero lente, non facevo in tempo a leggerle. E di nuovo tu, le grida, ciao ciao con la manina. 

         C’erano altri bambini  ma parevano più grandi di te, almeno otto, nove anni: restavano seduti accanto ai genitori, forse interessati o forse svogliati, non lo so, e poi c’eri tu. – Come ti chiami? –ho sussurrato cercando di prenderti una manina come per fermarti. Sei svicolata dalla presa prendendoti beffa di me, hai sorriso, e zitta, sei scappata di nuovo. Potevi essere straniera, c’erano in effetti alcuni inglesi al convegno, qualche spagnolo, una coppia che parlava ebraico (lo so perché hanno letto un testo e quando l’oratore ha chiesto loro in che lingua ci stessero deliziando con quelle parole secche seppure non spigolose, hanno risposto ‘in ebraico’). Romena, francese, non lo so. Mi incuriosivi e al tempo stesso ero spaventata. Era come se mi leggessi dentro e non mi andava molto a genio.  Altre volte avevo partecipato a full-immersion sulla crescita personale senza venirne così sballottata; dagli anni duemila si sta espandendo questo binomio, ‘crescita’ unita a ‘personale’ anche se per me, è un ossimoro. Crescita è crescita quando tutti, o molti, possono intravedere nuovi panorami nella propria vita. E personale è personale se rimane fra te e te, mentre se migliori nel tuo modo di essere tutto quanto il mondo, evolve. Comunque, tornando a quel primo incontro, mi sentivo forse una bambina al parco che è sfuggita per un momento dalla vista dei genitori e correre verso la rete, in fondo, oltre le altalene, a fare la conoscenza di un’altra bimba che in un qualche modo l’attrae. Non si parlano lì per lì, si sfiorano soltanto le loro piccole mani attraverso i buchi della rete sfatta, che è lì a dividere l’area del parco dalla fantasia.

    – Non ti ho vista arrivare, sei sola? – Ti ho chiesto mentalmente.

    E tu, sempre mentalmente perché non ho sentito la voce, hai detto che sì, eri da sola. Cioè, eri con me.

         Quella bambina lì, cioè io, si è messa a ridere. – Cosa vuol dire che sei con me?  Mi conosci? Ce l’hai la Barbie? E il dolce-forno? A me non li comperano, noi giochiamo con le campanelle, quei fiorellini bianchi coi quali ci vestiamo da spose. – Rido, santo cielo che ridere. – Dimmi cosa vuol dire che sei con me, te ne prego ! – 

         Quando da adulti si ride, si fa opera di guarigione di un qualcosa. E’ difficile riuscire a ridere di gusto, non trovi? Beh quel pomeriggio (immaginario?), mi sentivo una bambina. Doppiamente poi! Perché da fuori, diciamo così, non si intuiva nulla; ma dentro me c’era questo scoppiettio di emozioni nel comunicare con te che mi faceva battere il cuore all’impazzata. Anche adesso mi tocchi il cuore quando stiamo insieme, ma siccome sono più preparata riesco a godere maggiormente della compagnia fatta di noi due, pur senza sussultare. Dipende poi anche dai giorni. A volte piango, sorrido, altre piango e basta. E’ un pianto strano, io non sono triste ma le lacrime mi scendono ai lati esterni degli occhi (ho notato invece che quando si è tristi, le lacrime tendono a scivolare all’interno del viso, come per lavare via i pensieri malinconici) e sento questo ‘toc’ che rimbomba quando le lacrime toccano terra, o quando bagnano la maglietta. Hai questo grande potere, sciogliermi. E senza di te non avrei mai potuto ammettere di quanti blocchi ero composta. Con quanto peso io camminassi ogni giorno. Di quali colpe mi facessi carico insensatamente. 

    Gli adulti

    E’ sempre stata una parola che mi incuteva 

    un insieme di timore e rispetto,

     gli adulti

    Quando ero bambina mi sembrava appartenessero

    a una casta suprema

    gli adulti

    Erano i severi custodi della saggezza e della moralità

    gli adulti

    Vivevano tre piani sopra di me

    gli adulti

    Non potevo nemmeno sognare di rivolgergli la parola per primo

    agli adulti

    E così, oggi che appartengo anche io alla schiera

    degli adulti

    mi domando, senza trovare risposta,

    il perché di tanto reverenziale timore

    verso un genere che infine

    - a pensarci bene -

    forse

    nemmeno esiste:

    gli adulti.

         Le giornate, le ore ma cosa dico, i momenti, sono così diversi. A tratti mi sento una specie di madre adottiva, e in altri sono io che ti sto in braccio, mi culli e canti ninne nanne e prendo sonno così, non capendo se l’adulta sono io o sei tu. 

         Dicevamo, il nostro incontro, quando siamo rimaste da sole per la prima volta, mi sembrava di averti già vista da qualche parte. Scandagliavo ostinatamente il passato tornando ai ricordi dell’asilo, potresti avere  circa quell’età. Ho lasciato perdere la lista della spesa, la polvere, addirittura la centrifuga della lavatrice in quel momento che per me era diventata musica, una overture che annunciava una grande opera: noi due riunite.   

    Voglio sapere: quando lavoro, mentre leggo, o la sera quando frequento le amiche, gli amici, quando faccio l’amore, tu cosa fai? Dove vai? Dove sei? 

    Hanno un senso queste domande? 

    Non lo so, le lascio fluire a ruota libera, non voglio più tenere nulla dentro: basta custodire segreti. I segreti incatenano, non lasciano evolvere.

    Vieni, ti mostro la mia casa: l’abbiamo acquistata ancora in costruzione, ma sebbene mancassero diversi mesi alla consegna tutto era già stato deciso nel capitolato della cooperativa di fabbricazione. Non abbiamo scelto pavimenti né rivestimenti, né sanitari del bagno o muri divisori eppure ce ne siamo innamorati appena l’abbiamo vista, così, ci è bastato il disegno in pianta nell’ufficio dell’agente immobiliare.  Dammi la mano dai, fammi sentire che la prendi e la vuoi. Fammi sentire che Mi vuoi.

           L’arredamento è lo stesso di quando siamo entrati, non abbiamo ancora voglia di cambiamento. O forse, come cabala o smorfia, non vogliamo cambiare nulla perché così siamo stati bene. Non so perché ho coniugato al passato e non al presente, se vuoi cambio e dico perché così stiamo bene. Certo non è la stessa cosa. Dico pensare di getto, o correggere. Il significato, se venisse analizzato, potrebbe cambiare, ma non penso che fra noi due scatti questo meccanismo di voler psicanalizzare l’altra. Io ti rispetto, non lo farei mai.

    Posso prenderti in braccio mentre curiosiamo nell’armadio? Nel piano alto tengo quelli fuori stagione ma anche capi che non indosso da tempo. Questo scintillio è l’abito da sposa, te l’ho detto che mi sono spostata quest’estate? Poi ti racconto. Sai che sei pesante? Ma lo dico sorridendo, ti sposto nell’altro braccio, voglio farti vedere anche gli abiti che indosso raramente, a te piacciono? Fammi sì o no con la testa, dammi un consiglio, tu che vedi oltre la facciata, mi aiuti a cambiare il modo di vestire? Voglio sentirmi, d’ora in poi, bella. Bella non solo per te, anche per me. So che ci tieni, proprio per questo ho bisogno, hai molto lavoro davanti: non è facile per me vestire elegante e truccarmi, senza sentirmi sciocca o frivola. Per me (memorie incise da altri), il concetto di bellezza a cui fare riferimento è quello interiore: essere belli dentro. Quindi finora ho confuso, evidentemente, la bellezza, la grazia, l’armonia, con la perfezione caratteriale. Risultato: una persona che ogni giorno sbatte contro un muro impossibile da superare proprio perché eretto da parole. Proprio tu mi stai insegnando che grazie alle parole, si disegnano solchi nel cervello  da cui dipendono salute e benessere, o tristezza e malattia, o leggerezza e oppressione e così via. Aiutami, ti prego, a sgretolare per sempre questo muro. Ho voglia di abbracciarti, vorrei strapazzarti forte  fino a togliere il fiato ma so che con la fisicità devo andarci piano. Devo accarezzarti piano e  chiedere sempre prima se posso stringere abbracciandoti. Per fortuna dici sempre sì, quanto ti voglio bene! 

           In queste ante c’è l’abbigliamento non più della nostra misura, lo conserviamo perché non si sa mai.  Conserviamo anche tutto quello che non occorre, che non ci piace più, ti rendi conto? Negli armadi dimorano i nostri mille passati, quando parlavamo così, quando vestivamo cosà, quando c’erano altre persone accanto a noi. Al centro è appeso l’abito dell’arroganza: sapessi con quanta grinta lo abbottoniamo. Sopra, a destra, quello della malinconia e proprio sotto, quello della superbia. Si, quando non c’eri ancora bimba, non sottostavo a nessuna regola dell’amore. Era un po’ tutto così, dietro a quella che chiamiamo libertà e che invece è ignorare il come stiamo. Non sempre siamo disposti a vivere: sai cosa facciamo molto spesso? Indossiamo assieme a quella gonna, a quella maglia, anche il ricordo di quello che ci è accaduto quella volta che eravamo vestiti così. Siamo pazze vero? La memoria è radicata fortemente, emerge anche nella nostra nudità. Per la stessa ragione non vogliamo buttare via tutti quei capi di abbigliamento che non indossiamo più: perché non vogliamo perdere il nostro passato. Non vogliamo dimenticare la nostra precedente identità. Ehi bimba, mi fai sentire saggia! 

         Apro le braccia come per volare, voglio assaporare la felicità, vivere leggera, solo coi miei abiti. Rappresentata solo dal tempo Adesso. Non m’importano più né ieri, né domani, né il bianco, né il rosso; una nuova coraggiosa rivincita alberga qui, nella mia casa: tanti vestiti nuovi. Tu.

         Qui non apriamo, ci sono gli abiti di mio marito e so che non t’importano, il rapporto è solo tra me e te. Sei solo mia. 

    Sei.

    Solo.

    Mia. 

         Sospiro di gioia, mi sento ricca e voglio lo stesso dirti che quando lavo e stiro i suoi capi, non mi pesa mai. Lo considero uno dei modi per occuparmi - non solo  di lui come singolo - ma di noi, del nostro amore. Occupandoci dell’altro si evidenzia come ci occupiamo di noi. Poi trovo che condividere la biancheria smessa, da lavare, sia un gesto di profonda intimità: si mescolano i resti del corpo, la pelle ridotta a squame invisibili, i pensieri della giornata, gli scarti. Tutto centrifugato insieme nella lavatrice attraverso l’oblò che cigola piano: ecco apparire le mescolanze della coppia. A volte la camicia rosa, quella azzurra, i calzini grigi, la maglia giallo chiaro diventano un color pastello indefinito nel vortice. Lo

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