L'Ultimo Cantore D'Irlanda
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Anteprima del libro
L'Ultimo Cantore D'Irlanda - Giuseppe Marino
O’Carolan
I
Era andato tutto alla perfezione, ma Turlough O’Carolan, il grande suonatore di arpa celtica, non ne era ancora del tutto convinto. Certamente non ne era soddisfatto; il suo spirito, che andava sempre alla ricerca del suono perfetto, non si sentiva appagato. Ripeteva in continuazione, come se volesse convincere qualcuno, che quella sera aveva pizzicato la corda in un modo non voluto, producendo un suono non desiderato. «Doveva vibrare di più», gridava, «Maledetta corda. Puah», e non si dava pace. Inutili risuonavano le parole del suo compagno che cercava in ogni modo di tranquillizzarlo. Le parole si perdevano nel vento.
Era la mattina del 27 aprile dell’anno 1735 e Turlough O’Carolan, insieme al suo fido e coraggioso compagno Phelan, era in viaggio per una nuova avventura.
Alle loro spalle lasciavano la Contea di Galway, dove avevano soggiornato per alcune settimane presso il Castello di Tuam. Era uno dei più antichi e più bei castelli di tutta l’Irlanda, il principe ne andava fiero. Fu fatto costruire nel 1161 dall’ultimo re indipendente d’Irlanda Roderick O’Connor, durante il periodo dell’invasione inglese. Qui avevano allietato le serate suonando e cantando storie di grandi battaglie, di grandi imprese, di grandi eroi; e storie d’amore per le belle fanciulle dagli occhi verdi come il mare. Le dita del bardo avevano fatto vibrare le corde del cuore di Leah, raggio di sole, la piccola principessa, promessa sposa di un uomo che sentiva di amare, ma che neppure conosceva.
«Ancora, vi prego, suonate ancora per me», ripeteva Leah. «Fatemi sognare ancora».
«Non posso negarvi questa grazia, o mia adorabile principessa» le rispondeva, mentre gli si formava un nodo alla gola.
E suonò ancora per lei, la piccola principessa, per molto tempo ancora. E suonò con così grande precisione e sentimento che tutti desideravano che quel momento magico non avesse mai fine.
Avevano dormito solo poche ore, ma riposato abbastanza bene nelle stanze messe a loro disposizione dal principe Finbar. Avrebbero voluto trattenersi ancora per qualche altro giorno, ma l’emozione di fare nuove avventure e di conoscere altri luoghi meravigliosi li spingeva a partire.
«Venite a trovarci quando volete. Sarete sempre il benvenuto» lo salutò il principe Finbar.
«Sì, quando volete; ma soprattutto non mancate al giorno delle mie nozze. Vi aspetteremo con grande impazienza», ripeté la principessa Leah, inchinandosi, e arrossendo.
E così quella mattina del 27 aprile, sistemata ogni cosa, con un piccolo fagotto, un po’ di pane e qualche pezzo di formaggio, i due si misero a cavallo e si diressero verso ovest, verso la Contea di Mayo.
«Non posso darmi pace, lo capite Phelan?» sbraitava.
«Ma avete suonato così bene! Perché non volete credermi?»
«Perché lei non suona niente. Non sa niente di queste cose. Non sa come mi sento avvilito!»
«Mah…, mah…, il principe Finbar vi ha tenuto in grande considerazione per tutti i servigi che gli avete accordato e i vostri innumerevoli consigli, e la principessa, poi, ha molto gradito le vostre musiche e le vostre storie, era così entusiasta. E così graziosa!»
«Phelan, tacete! Quante idiozie che dite. Smettetela!»
Phelan tacque, amareggiato. I due proseguirono il cammino in silenzio.
Avrebbe desiderato parlare ancora e chiarire una volta per tutte che lui era il miglior suonatore di arpa errante di tutta l’Irlanda, ma non c’era verso per farglielo capire. Ogni parola era inutile. Phelan non aveva studiato, ma sapeva benissimo che tutti i compositori di musica e di poesia, non sono mai paghi di quello che scrivono, di quello che suonano. Cercano sempre nuove alchimie per alimentare il loro spirito, la loro sete di perfettibilità, la loro fame di eternità. Lo sapeva benissimo, eppure ogni volta che lasciavano un villaggio, iniziavano sempre le stesse liti su quella nota che avrebbe dovuto vibrare di più e che non vibrava mai, e Phelan si era stancato.
«Ma cosa ci avrà mai questa nota poi che deve vibrare tanto?» si chiedeva tra