La strana indagine di Thomas Winslow
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La strana indagine di Thomas Winslow - Giacomo Festi
contorni°
Giacomo Festi
La strana indagine di Thomas Winslow
romanzo
DuetreduE-book
ISBN 978-88-99573-30-0
© 2015 Duetredue Edizioni Srl
Lentini, Via Garibaldi 46
www.duetredue.com
info@duetredue.com
Copertina: Gaetano Tribulato e Giulio Barbagallo
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A Maria, mia nonna. Perché le piacciono i thriller.
E perché raccontandomi della Storia, mi ha insegnato il valore delle storie.
Hai fatto male a far entrare dalla porta
porta molto male far entrare dalla porta
chi non bussa e non chiede di entrare
ma di farsi immaginare
Non aprite quel pollaio, Musica per bambini
inizio è solo
incrocio di casualità
aspro è il sapore
della fine e delle sue rovine
Le voci della sera, Folkstone
uno
Il sole stava tramontando, lasciandosi scivolare lentamente dietro la linea azzurra formata dal mare. Era un mare calmo. Liscio come una tavola, avrebbe detto qualche vecchio marinaio. E di marinai ce n’erano molto pochi, di quei tempi. Era stato proprio quell’orizzonte a prenderseli tutti, a inghiottirli per saziare una fame vecchia quanto il mondo stesso. Una fame grande quanto l’azzurro delle acque e dei cieli messi insieme, che veniva ricordata agli abitanti dell’isola ogni volta che il loro sguardo volgeva in quella direzione o quando la salsedine pizzicava le loro narici. Ovvero, quasi sempre. E le madri e le mogli continuavano a versare lacrime amare per i loro uomini morti, ignorando che versare acqua su delle persone che erano morte annegate fosse di cattivo auspicio. Acqua impura, perché veniva dagli uomini e non dalla terra stessa.
Ma per quanto pregassero e piangessero, le tempeste continuavano a persistere. Arrivavano veloci, improvvise, senza che nessuno riuscisse a prevederle. Le giornate iniziavano col saluto del disco d’oro, che tingeva con la sua luce ogni parte dell’isola, e poi, quando nessuno se lo aspettava, mutavano. Il vento si alzava. Le onde si facevano sempre più grosse e nubi nere spuntavano dal nulla, col loro contenuto di pioggia e lampi. Ed era un contenuto che doveva fare male. Infatti le nuvole si liberavano di tutto quello ruggendo, quasi fossero degli animali giganteschi che soffrissero per qualcosa che avevano ingerito. Le tempeste sferzavano le cime delle palme e le onde rovesciavano le navi, sempre accompagnate da quel ruggito. Un ruggito profondo, ultraterreno, che proveniva dalle montagne e si insinuava nel petto degli abitanti.
Si erano interrogati i saggi e i cantastorie per scoprire se nell’antichità o nei miti si era mai verificato qualcosa di simile. Ma nulla. Fenomeni simili, così potenti e incontrollabili, erano estranei. Avrebbero potuto ignorarli all’inizio, quando erano sporadici. Ma non in quel momento. Non quando si presentavano quotidianamente. E se non erano le onde a inghiottire le vite degli esploratori o dei pescatori, presto ci si sarebbe messo anche il vento. L’aria soffiava sempre con maggiore energia e le capanne resistevano sempre meno. A quella del vecchio Riddel Cuore-e-roccia era volato via il tetto, così l’anziano si era preso una polmonite che lo aveva finito in pochi giorni. Tutti lo avevano pianto, perché era un grande guerriero. Un esploratore coraggioso di cui tutti avrebbero sentito la mancanza.
Al contrario delle tempeste.
Quelle non sarebbero mancate a nessuno. Eppure persistevano ad esistere. A vessare gli indifesi abitanti di un mondo non ancora completo, che nulla potevano contro lo scatenarsi della stessa natura che li aveva creati.
Era durante una di quelle tempeste che Uskik Sale-e-terra aveva perso suo padre. E insieme al genitore, anche la voce. Così. In un lampo. Con uno schiocco veloce come un colpo di frusta.
La cosa che certi trovavano ironica, era che quel tragico fatto era avvenuto il giorno in cui gli era stato assegnato il suo Nome da Uomo. Uskik. L’uomo che non ha paura di nulla. Stando a quanto diceva il Vecchio Saggio, quello doveva essere il senso del suo nome nell’Antica Lingua.
«Uskik era un guerriero», aveva raccontato loro quel giorno. «Ma quello non era stato sempre il suo nome. Lui era un guerriero dei tempi antichi. Tempi in cui gli uomini sottostavano agli dei, tempi in cui si temeva la loro ira a tal punto da non osare darsi un nome proprio, perché si poteva andare contro al loro volere. Si chiamavano come gli elementi della natura, gli stessi creati dagli dei, onde sottolineare la loro potenza e onniscienza. Erano stati creati per il puro scopo di adorarli e non era permesso loro creare a loro volta. Perché un uomo che crea si avvicina a un dio. Non potevano fabbricare armi, non potevano tessere vestiti e nemmeno costruirsi delle riparazioni. Cacciavano con le unghie e i denti, pescavano a mani nude e non si spostavano mai dalla loro isola. Quando pioveva si riparavano sotto gli alberi e dormivano nelle caverne, sperando che qualche fiera non le avesse adibite come propria abitazione. L’unica creazione che veniva concessa loro era quella della vita mediante il parto, perché molto rozza e volgare. Gli umani danno alla luce altri umani, esseri inferiori e che nulla possono. E lo fanno fra dolore, sporcizia sofferenza.
«Vivevano nella paura. Ma la paura non aveva un vero e proprio nome. Non esisteva ancora una parola atta a indicarla nel loro linguaggio. Gli dei non volevano ciò, perché riconoscerla in un vocabolo avrebbe permesso loro di analizzarla e comprenderla meglio. E comprendendo un qualcosa di così insito dentro i loro cuori, avrebbero compreso anche come combattere le divinità alle quali erano schiavi».
A quel punto della storia l’uomo faceva una pausa. Voleva che i fedeli si facessero prendere dell’esaltazione per quella leggenda. Ma anche dalla preoccupazione che uno scenario simile faceva nascere nei loro cuori. Una preoccupazione che potevano essere liberi di provare dandole un nome, a differenza dei loro avi.
«Ma c’era un uomo che non voleva sottostare a tutto quello. Qual era il suo nome?», chiedeva poi il Vecchio Saggio a gran voce.
«Uskik!», gridavano tutti.
«No», faceva il vecchio, ridendo. «Non ancora. Uskik era il suo nome da leggenda. Lui non era ancora una leggenda. Nessuno nasce leggenda. Lui, come ogni altro suo simile, era nato uomo. E il suo nome da uomo era Gabbiano. Lo chiamavano così perché si tuffava dagli scogli più alti e allargava le braccia, come se volesse spiccare il volo. Spiccare il volo come un gabbiano. Un essere che, a differenza degli uomini, non deve aspettare di costruire una barca per andare. Lui ha le ali. Ha l’aria. E ciò lo rende l’animale più nobile che esista.
«E lui nobile lo era per davvero. Era leale. Forte. Umile. Ma anche giusto. Non ammetteva gli affronti ma perdonava gli errori. Un uomo corretto e valoroso. Ma anche intelligente. Un uomo che non temeva nulla, nemmeno gli dei. Perché se alla paura non poteva essere dato un nome, lui non voleva conoscerla. L’aveva rigettata, rifiutata. Ma l’aveva rifiutata senza rabbia, col cuore in pace. Allo stesso modo in cui si può rifiutare una gentile offerta. Ed era questo a renderlo pericoloso.
«I suoi genitori gli avevano insegnato il volere degli dei. Gli avevano detto di stare quieto, di vivere secondo i dettami. Ma lui insisteva. Lui non voleva sottostare a una voce che non fosse la propria e così agì di proprio pugno. Con le sue stesse mani, azione terribile ma al contempo magnifica, creò qualcosa. Creò la prima lancia. Divenne un creatore, proprio come gli stessi dei, che non si fecero sfuggire quella sua terribile disobbedienza.
«Spezzò una pietra, in modo da renderla appuntita, e con una liana la legò a un bastone. E una volta compiuto ciò, nel buio di una caverna, dove nessuno poteva scrutarlo... uscì allo scoperto. Alla luce del giorno. In modo che tutti potessero vedere ciò che aveva fatto.
«Io sono Gabbiano, figlio di Orso e Foglia!
, disse alla sua gente. Sono un uomo come voi ed ho creato qualcosa. Ho creato un’arma che userò per cacciare il cibo con cui intendo nutrirmi!
E la sua voce era forte e profonda. Tutti gli uomini la udirono e, nell’apprendere quella sua follia, scapparono. Alcuni gli sputarono addosso, i suoi genitori lo rinnegarono, ma lui non desistette. Non aveva paura di nulla. Manco dell’abbandono e della derivante solitudine.
«Così andò a cacciare i primi animali e creò il primo fuoco. E una volta saziatosi, usò le pelli delle sue prede per fare dei vestiti e coprire le proprie nudità. Ma per lui non era ancora abbastanza. Voleva lasciare un segno ancora più profondo del proprio coraggio, qualcosa che anche le generazioni che sarebbero venute dopo avrebbero potuto apprendere. Così usò il sangue di una delle bestie che aveva ucciso per fare delle pitture sulla roccia, ritraendo se stesso che dava la caccia a un possente animale. E fu a quel punto che gli dei si arrabbiarono sul serio con lui.
«Era un creatore completo. Non solo dalle sue mani era nata un’arma e, a seguire, dei vestiti. Ma si era fatto padrone della sua storia e l’aveva impressa su una parete di roccia. Nessuno poteva fare tanto. Solo agli dei era permesso l’uso del racconto. Erano loro a dare i miti agli uomini, cantandoli nei giorni di vento e trasportandoli nelle loro orecchie tramite la brezza marina. Quello che Gabbiano aveva fatto era dunque imperdonabile, perché sovvertiva le leggi che da secoli avevano assoggettato gli uomini.
«Ma quel che era peggio, era che lui non aveva timore nell’esibirsi in quello stato. Nemmeno quando il cielo si aprì e gli dei si affacciarono su quel mondo che scrutavano al sicuro nella loro roccaforte, oltre il volo del falco. Lui li guardava. Impavido. Ricambiava il loro sguardo e, per la prima volta nelle loro vite, furono gli dei ad avere paura. Paura che quel suo osare fosse d’esempio ai suoi simili.
«Fu così che lo immobilizzarono, trasformandolo in pietra.
«E lui se ne rimase lì. Immobile. Che altro poteva fare? Lui non aveva paura di nulla. Manco di quella punizione. Quindi lasciò che il suo corpo diventasse roccia e i suoi occhi si spegnessero. Ma accadde qualcosa... qualcosa che nemmeno gli stessi dei avevano previsto. Qualcosa che fece tremare persino Quathorra il Possente, il più temerario dei camminatori ultraterreni.»
Altra pausa. Il Vecchio Saggio si chiuse su se stesso, continuando a stare in piedi, per poi aprirsi di scatto. Alzò un braccio e con un dito indicò la grande montagna alle sue spalle. Una grande montagna, visibile da ogni angolo dell’isola e che si ergeva dal suo centro. La montagna di Uskik. Così la chiamavano. Una montagna la cui roccia portava i segni di tutte le ere e che possedeva una forma quasi umana, come se fosse un guerriero intento a guardare il cielo. Una fitta foresta cresceva sulla sua cima e sembrava fungere da capigliatura, mentre i piedi affondavano nel terreno, ancorandola a quel posto, quasi volesse artigliargli l’anima.
«La roccia cresceva sul corpo dell’impavido guerriero. E cresceva. Cresceva. E cresceva ancora. Lo faceva aumentare di volume fino a fargli toccare le nubi più basse, creando la montagna che tutti possiamo vedere. Perché la magia stessa degli dei aveva riconosciuto il suo valore e aveva deciso di premiarlo, anche se alla propria maniera.
«E così possiamo vederla ogni giorno, a rammentarci che anche un uomo, se ha la volontà, può essere alla pari di un dio. A rammentarci che anche gli dei tremarono, quel giorno. E che Quathorra il possente, colui che aveva portato sulle proprie spalle il peso dell’intero universo, si lasciò sfuggire una parola: Uskik. E nel farlo diede quel nuovo vocabolo agli uomini che finalmente ebbero i mezzi per conoscere e far propri la paura stessa, ottenendo la libertà che anelavano. E lo fecero volgendo uno sguardo verso la montagna. E verso quel guerriero che era diventato il simbolo di quella conquista.
«Uskik.
«Lo stesso nome che vogliamo dare a questo ragazzo.»
A quel punto raccontava di come aveva ucciso l’assalitore di sua sorella. Di come l’aveva visto di sfuggita abusare di lei nel bosco e, nonostante le numerose lune che li separavano, non avesse desistito ad avventarsi su di lui, tagliandoli la gola. Perché era una cosa che andava fatta. Perché era la scelta che aveva fatto comprendere a tutti che era diventato un uomo. Un vero uomo. Quindi quel nome non era stato scelto a caso.
Ma poi era successo il tragico fatto.
Era giunta la notizia.
Suo padre non aveva voluto saperne. Era stufo di vivere d’ortaggi e radici. Anelava la carne. Ma era troppo debole per cacciare nella foresta. Troppo stanco e rallentato. Rimaneva solo l’andare a pesca. Sfidare la sorte e sperare che il mare fosse calmo, permettendogli di provvedere ai propri bisogni e a quelli della famiglia che aveva costruito. Eppure il sole splendeva alto nel cielo, la pelle era sudata e doveva riparare lo sguardo con una mano se voleva scrutare l’orizzonte. Come poteva peggiorare un giorno così?
Ma era successo. Come succedeva sempre, d’altronde. Non appena aveva buttato le reti in acqua, il vento aveva preso a soffiare, il cielo si era inscurito e i tuoni, veloci e scattanti come una frusta, presero a illuminarlo per dei brevi attimi. Poi un’onda aveva sommerso la barca su cui il padre di Uskik sale-e-terra e un altro pugno di uomini stavano, senza restituirne i resti.
Fu allora che Uskik sale-e-terra, in barba al suo nome, gridò. Gridò dalla paura, dalla disperazione e da un sacco di altre cose. Lo fece con una tale intensità che per un attimo coprì il suono della tempesta, per poi svanire insieme ad essa. Svanire e non far mai più ritorno nella bocca del ragazzo.
E così passarono i giorni.
Il sole continuava a sparire dietro il mare e a rinascere dalla parte opposta. Uno spettacolo ciclico e inarrestabile, come le stesse tempeste. Solo nessuno andava più per mare. Il padre di Uskik sale-e-terra e i suoi compagni di sventura erano stati gli ultimi a perire in quella maniera. L’avviso definitivo che con l’acqua non si poteva scherzare.
Così rimasero tutti sull’isola.
Si poteva vivere anche in quella maniera, anche se lo spirito di tutti li portava a solcare quei mari ricolmi di leggende. E Uskik sale-e-terra faceva lo stesso. Stava sulla terraferma, ma lanciava sempre un’occhiata verso quelle lande azzurre. E pregava. Pregava che qualcosa accadesse, sfidava il responsabile della morte di suo padre a farsi vivo. Sfidava gli dei, così come aveva fatto colui a cui doveva il proprio nome.
E lo fece con una tale intensità che un giorno gli riuscì addirittura di parlare. Certo, con una voce che gli morì in gola quasi subito, ma comunque lo fece. Sputando sangue e bile. Ma lo fece.
Così il cielo di aprì. Letteralmente. E da quell’apertura piovve una saetta che andò a colpire il centro del mare, infrangendone le acque in una maniera che nessuna tempesta aveva mai eguagliato. Ma le onde non smisero di esistere e la terra non cessò di tremare. Da quella spuma bianca, che sembrava aver raggiunto le stesse dimensioni dell’isola, si levò una zampa squamosa e poi una testa. Un capo da rettile con due occhi da uomo e un corpo da tigre. Una bestia immensa e indescrivibile proveniente dal cuore stesso della terra che, con rapide bracciate, raggiunse l’isola, nutrendosi dei suoi abitanti e dal sangue assorbito dalle sue spiagge.
E Uskik sale-e-terra provò paura. Molta paura. Mentre i ruggiti del mostro, i rumori del mare e le grida della sua gente presero il sopravvento su tutto, esplodendogli dentro il cervello e rubandogli l’udito come la disperazione gli aveva rubato la voce quel tragico giorno. E intorno a lui, la morte imperversava, regina e sovrana come sarebbe stata alla fine dei tempi. Fine che sembrava essere arrivata con estrema prepotenza.
Fu allora che Thomas Winslow se ne andò.
due
C’erano ancora delle grida nell’aria. Ma erano diverse. Grida giovani, tutte quante, e fatte da voci non rabbiose. A conti fatti non stavano gridando, parlavano solo ad alta voce. Erano presi dalla foga, si poteva sentire che c’era qualcosa che li stava coinvolgendo. Qualcosa di fisico. Alcuni ansimavano e, fra un vociare e l’altro, si sentiva un rumore di passi. Poi anche qualcosa di diverso. Un rumore sordo ma che conteneva al proprio interno uno strano eco. Che interveniva in segmenti regolari, per poi estinguersi in brevi attimi e riprendere in maniera quasi subitanea.
L’aria era meno pulita di prima. Non c’erano più la salsedine e il calore. La temperatura era calda, ma un caldo sopportabile. Cittadino. E in sottofondo, per l’appunto, si poteva sentire il rumore del traffico. Forse era per questo che l’aria aveva quello strano retrogusto. Doveva essere smog. Bella merda. Non si poteva mai finire per abituarsi a qualcosa di bello che accadeva qualcosa per cui dover sloggiare. Mai che la pace durasse abbastanza a lungo.
Se non altro però si era allontanato quando l’odore del sangue aveva preso a farsi insopportabile. Non che il sentire poi i denti di quel mostro dilaniare ossa e carne degli abitanti dell’isola fosse molto meglio, ma lì bastava chiudere gli occhi. E poi lui non era mai troppo sensibile alla sofferenza altrui. Qualcosa suggeriva che doveva esserne molto abituato, anche se in maniera limitata. Vedere un abominio come quello fare una strage simile non era qualcosa di molto comune. Però il sangue e quel suo fottuto odore ferroso rimanevano qualcosa di insopportabile. Già lo era a livelli minimi, poco prima invece ne erano piovute quantità industriali, quasi fosse stato in un mattatoio.
Ma non era un mattatoio. Quello era certo. Era una cazzo di isola e lui aveva dovuto lasciarla, quando la pace era andata a farsi benedire una volta per tutte. Il che lo portava a una domanda cruciale...
Dov’era in quel momento?
Una città, indubbiamente. Il rumore delle macchine in lontananza e la sensazione del freddo cemento sulle chiappe erano due fattori che davano risposta a numerosi quesiti. Ne rimanevano però altri. quanto era grande quella città? Quanto era industrializzata? In che epoca era? In che zona della città si era ritrovato?
Quell’ultima domanda, ironicamente, era la più importante di tutte. Era come se gli avessero detto che si trovava in Francia, poteva essere nella fottutissima Versailles o in una banlieue a fare a botte insieme a spacciatori e papponi. Ogni cosa nascondeva il suo aspetto più marcio, quindi non si poteva mai essere sicuri di nulla. Non che a lui importasse, poi. Lui era un elemento esterno, non poteva succedergli nulla se seguiva il programma e se scappava in tempo.
Si alzò in piedi, dandosi delle veloci manate sul sedere per pulirlo dallo sporco del terreno asfaltato, guardandosi poi intorno per capire dove era finito. Era a una discreta distanza dalle strade trafficate, ma poteva vedere che le macchine avevano quattro ruote e non volteggiavano a mezz’aria. Le fiancate erano parecchio lucide e sembrava che alcuni passanti, per quello che la distanza gli concerneva di comprendere, portassero all’orecchio un cellulare. Non riusciva a capire che modello fosse, ma tanto bastava. Gli serviva solo avere un’idea approssimativa dell’epoca in cui si era ritrovato, non una datazione esatta. Ma quello che aveva raccolto non gli bastava ancora per capire come agire e la cosa lo stava leggermente indispettendo.
Volse lo sguardo verso la provenienza delle voci e vide una folla di ragazzi. Era finito su quello che sembrava un campo da basket, uno di quelli tipici delle cittadine americane. Ma doveva essere la zona brutta della città e per capirlo bastava guardare i ragazzi che stavano giocando. Molti di loro erano di colore e i più pallidi conservavano negli occhi quella luce malevola tipica di chi vive per strada. Non un’esistenza lieta e tranquilla, sembrava, così come quello pareva l’unico scorcio di pace che avessero visto di lì a molto tempo. Giocavano apparentemente senza pensieri, ma uno scrutatore attento come lui poteva cogliere dei particolari - fosse il movimento degli occhi come volgevano rapidamente la testa alle loro spalle o come tenevano, quando possibile, le mani chiuse a pugno, pronte a scattare - che sottolineavano come la lotta